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Diario di viaggio: io autista di autobus per un giorno sulla linea 10 di Brescia

Rosario PipoloDa bambino sognavo di fare il conducente di autobus. Oggi sono una frana alla guida, ma all’epoca mi bastava avere un volante tra le mani per salire al settimo cielo. Così in un sabato mattina uggioso di Novembre mi sono detto: o adesso, o mai più. Dall’armadio tiro fuori giacca e pantalone blu, creandomi la divisa. Per farvela breve, pedino un autista a Brescia per fare assieme a lui tutto il turno lavorativo dalle 4.43 alle 10 del mattino. Sono assonnato e la città è deserta. Dopo una colazione fugace alle macchinette, osservo i miei pseudo-colleghi nel gabbiotto che compilano il foglio di marcia. Mi apposto davanti al deposito di Brescia Trasporti, la società di mobilità della città lombarda, e alla prima fermata salgo sul numero 10, quello che fa la tratta Concesio-Poncarale. L’autista ha una faccia simpatica, è della periferia di Napoli.
Mi siedo dietro di lui e cerco di monitorare tutti i suoi movimenti, quasi come a voler dire: “Ehi, collega. Se sei stanco, passo io alla guida”. Alle 5.16, alla fermata di Triumplina, sale il primo passeggero, una signora sulla quarantina. Non ha il biglietto e le offro l’ultimo che mi rimane, tanto mi dico : “Stamattina gioco a fare il conducente. Mica il controllore mi farà la multa?”. Poco prima delle 6 sale un altro collega. Dall’accento è palese, è un siciliano. Parlottiamo, lui è di Termine Merese e mi racconta del suo trasferimento al Nord, della famiglia che gli manca, della crisi e dei soldi che non bastano mai a fine mese. I miei pensieri divagano in questa Brescia nottambula, che improvvisamente lascia la sua multietnicità per restituirmi alcuni ricordi: la mia prima volta a piazza della Loggia avvolto da quel silenzio tombale “per non dimenticare quel tragico 28 maggio del 1974”; la mia prima volta a Brescia 2 alla ricerca di Lara e del suo mondo; la mia prima volta a fare colloqui con la laurea fresca di giornata. Alle 7 spunta la luce e l’autobus si anima di studentesse. Carine, scherzano, bella gioventù! Mentre la città sbadiglia e si sveglia, arrivo al capolinea a Flero. Ci sono venti minuti di pausa prima di ripartire. Vado al bar a fare colazione: brioche e cappuccino. Pago anche per l’autista alla guida del numero 10, ma lui non si accorge di niente.
Poi si riparte, la stanchezza inizia a farsi sentire, mentre le lancette dell’orologio si rincorrono fino alla fine del turno. Sono stanco, ho i piedi congelati e riesco a malapena ad arrivare nei pressi del deposito di Brescia Trasporti.  L’autista scompare col suo autobus, mentre io alzo gli occhi al cielo. Gli schizzi di pioggia mi pizzicano il viso e io ripenso a tutti gli autisti che ci scarrozzano in giro ogni giorno: ai giovani, ai meno giovani, ai pensionati, a quelli che non ci sono più. A tutti i conducenti che ci trasformano, al costo di un biglietto, in padroni delle nostre città, perché solo un servizio efficiente di trasporto pubblico può farci sentire “turisti inconsapevoli” del nostro territorio. Persino quando certi posti non ci appartengono, perchè le nostre radici sono altrove. Autista per un giorno? Sì, per raccontare tutti coloro che si nascondono dietro quel volante, tutti i giorni, a tutte le ore, col sole e con la neve.

Alleluja! E’ nato Amazon Italia, ma per la musica meglio UK e Germania!

Mettiamo le cose in chiaro. Non sono il tipo che ama fare shopping, almeno che non siano libri, cd e dvd. La perplessità sugli acquisti on line mi è passata con Amazon, grazie anche all’efficienza del Servizio Clienti dei negozi degli Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania. Adesso che il megastore on line più famoso del web ha aperto una filiale in Italia, perché spingersi oltre confine? Allo scoccare della mezzanotte del 23 novembre Amazon.it ha  spalancato i battenti con numeri da capogiro: 2 milioni di libri, 400 mila e passa cd e più di 100 mila dvd. Insomma c’è pane per i miei denti anche se bisogna tenere l’occhio aperto.
Non è detto che Amazon.it sia più conveniente degli altri cugini, anche perché in Italia su cd e dvd campeggia la solita minaccia: l’Iva. Per non parlare del diktat di case discografiche (il catalogo dei Beatles in UK costa la metà!) e delle major cinematografiche fa lievitare i prezzi. Un box celebrativo di dvd di Audrey Hepburn o Marilyn Monroe su Amazon UK ha il vantaggio di costare tre volte meno, ma con la rinuncia al doppiaggio e ai sottotitoli in italiano. Per gli album stranieri invece non ci sono confini o barriere, a parte il solito problema che si ripete con gli acquisti da Amazon USA: compri a prezzi stracciati, ma alla dogana ti appioppano il 20% di Iva. Il vantaggio di comprare in Italia è la pronta consegna e le spese di spedizione gratuite se superi un acquisto di 19€. Il gioco vale la candela?
E’ opportuno sempre un confronto veloce con Amazon.co.uk e Amazon.de (il più appetibile in questo momento per la musica)!
Tuttavia, Amazon Italia dovrebbe correggere un attimo il tiro per quanto riguarda la dicitura “edizione” e la specifica del Paese. Suppongo che quella specifica si riferisca al negozio di provenienza, perché un cd stampato in Europa dalla prima metà degli ann’ 90 non cambia da nazione a nazione, a meno che non sia stata pubblicata una special edition.
Non ho fatto ancora il primo acquisto, perchè al momento UK e Germania sono più convenienti. E Amazon Italia dovrà tenerne conto!

Aggiornato al 18/12/2010: Ho fatto il primo acquisto su Amazon.it! Consegna standard in 2 giorni, prima del previsto, nonostante la neve. Ho acquistato Miles Davis The complete Columbia Album Collection al prezzo più basso tra tutti gli store Amazon.

J’accuse: L’orrore delle calunnie su Facebook

Mentre al cinema passa il film Social Network di Fincher sulla storia dei fondatori di Facebook, l’oasi del cazzeggio sociale più famosa del pianeta esplode con inciuci e cattiverie. Diceva Jong che “il pettegolezzo è l’oppio dell’oppresso”, ma io aggiungerei anche “del depresso”. Quale miglior zona franca, se non quella di Facebook, per trasferire l’istinto ciarlatano che si nasconde in noi?
Ogni volta che torno nel mio Sud, girovagando nei paesotti di provincia, non trovo più quelle situazioni colorite di una volta: il marito che improvvisa una scenata di gelosia alla moglie; il litigio furioso delle due vicine di casa o la disfatta chiassosa della coppia. Ormai è tutto finito su una bacheca virtuale ed il nostro destino è segnato da fatti e misfatti che si postano lì sopra. Quando capiamo che la gonnella di mammà non ci basta più per ferire il nostro avversario, diventiamo scorretti a suon di offese pubbliche. Ormai il megafono della rete è  lo status di Facebook: basta confezionare in meno di 150 caratteri una calunnia e il un “pacco bomba” è ben servito, non tanto per l’avversario, ma per tutti gli amici faisbukkiani, che dovranno decidere presto da che parte stare. E così le bacheche, che fino al giorno prima erano zolle morbide di video e pensieri deliziosi, si trasformano in fretta e furia in un territorio minato, con accesso privilegiato a tutti coloro che voglio partecipare alla guerriglia virtuale. La persona offesa esce allo scoperto, si difende con ironia e non fa sconti a nessuno.
Nel modo dei videogiochi e dei social network l’orrore delle calunnie sfiora il ridicolo, perché è nella vita reale che la meschinità viene davvero a galla. Al di là o al di qua dell’ “accusa infamante”, la priorità assoluta resta la salvaguardia della faccia col quesito “Che cosa penseranno gli altri di me?”. Il tempo attutisce la melma degli schizzi di fango, che con o senza Facebook, finirà per inzozzare “il sepolcro imbiancato”, l’artefice che ha messo in moto la macchina del pettegolezzo. Alla fine, a dura prova sarà messa la vittima offesa, che nei giorni infuocati della rivolta virtuale, non si è accorta che sotto il fango era sbocciato un fiore. E tutte le volte che uscirà da casa a testa alta, dimenticando che “lo sguardo basso è la virtù dei forti”, non noterà quel fiore cresciuto alle intemperie e lo calpesterà con furore. Sarà la rabbia di chi non ha intuito che per “fare un fiore ci vuole un fiore” come cantava Sergio Endrigo, ma bisogna anche innaffiarlo col silenzio per proteggerlo. “Non calpestare i fiori nel deserto” resta un sacramento sacrosanto. E questo vale pure per chi come la “Sally” di Vasco Rossi si porta ancora tanti graffi dentro.

Castellammare dice no alla minigonna. E la cintura di sicurezza?

Ci risiamo. Quando tira aria di ridicolo proibizionismo in Italia, mi scatta la risata facile. Castellammare di Stabia fa la bigotta e dice no alla minigonna. Insomma, il comune senso del pudore del falso Belpaese democristiano ritorna nella città campana: al di là che si mortifichi un simbolo socio-politico del movimento femminista, non mi sembra che un bel paio di gambe in vista possano essere la nostra preoccupazione. Una scelta per offrire più sicurezza alla comunità dai maniaci o dagli eventuali guardoni?
L’ultima volta che sono passato da quelle parti, ovunque mi girassi c’erano persone in auto senza la cintura di sicurezza. Niente di nuovo, perchè a Napoli e dintorni è un optional e chi la mette viene pure considerato  “il fesso della situazione”. Anzi, di recente ho scoperto l’ennesimo escamotage per evitare “il fastidioso suono” delle auto di ultima generazione che ti ricorda di metterla. Il Bip-Stop,una linguetta che si infila al posto della cintura, dovrebbe essere venduto esclusivamente a chi è esente  dall’obbligo di indossarla (Articolo 172 del codice della strada). Peccato che ogni napoletano che si rispetti ha la sua coppia di questo curioso aggeggio e poi infila la cintura soltanto in prossimità del posto di blocco. A questo punto mi chiedo: è più pericoloso un esercito di automobilisti  che non si attiene alle normative di sicurezza o uno squadrone di belle ragazze in minigonna? 
Ecco come alcune forme di censura si tramutano in buffonate, per l’appunto. Da bambino, per qualche anno, volevo fare il vigile urbano. Se si fosse avverato il mio sogno,  mi metterei a caccia di tutti gli strafottenti che non hanno capito l’importanza della cintura di sicurezza, ma fischierei a go go tutte le ragazze in minigonna, sperando di non perdere il posto di lavoro.

Mamma, Tiziano Ferro è gay e non me ne ero mica accorto!

Sul web, nei social network, sulla carta stampata, in radio o in tv corre veloce il rumor dei primi di ottobre: “Tiziano Ferro è gay. Non me ne sono mica accorto!”. Nonostante tra gli addetti ai lavori circolasse da tanti anni il sospetto, adesso le fanzine del cantautore di Latina devono mettersi il cuore in pace, perché al loro idolo piacciono i maschietti. E quindi cosa cambia?Chi ascolta la musica di Ferro continuerà a farlo, chi non lo fa non cambierà idea, a meno che una tale dichiarazione non lo abbia intenerito e intrappolato nell’ambiguo meccanismo che abbatte il muro tra emotività e gusto musicale. Io personalmente mi sento distante dalle melodie di Tiziano Ferro e, se non mi avessero regalato Alla mia età al compleanno – per ricordarmi che il traguardo dei 40 non è poi così lontano – il suo nome non campeggerebbe nemmeno nel mio archivio discografico.
A pochi giorni dal gossip della tresca tra Corona e Lele Mora, il Belpaese è di nuovo sotto choc. Io lo sarei se scoprissi che la dichiarazione di Ferro fosse “un’operazione sottoveste” che puzza di business. Anzi, forse c’è un percorso di sofferenza interiore così complesso da cui faremmo bene a stare alla larga. Tiziano Ferro ha avuto del fegato, c’è chi invece non lo fa. E il pubblico pettegolo gioca a mettersi di traverso, com’è accaduto al rapper Fibra, lapidato per aver accusato Marco Mengoni, il principe dimenticato di X Factor, di essere gay. Il privato è privato sempre, e non solo quando conviene a noi.

Senza candeline tra le luci e le ombre della Laguna

Spegnere le candeline d’estate aveva un suo perché: dimenticare il tuo compleanno perché eri preso dalla magia vacanziera fatta di secchielli, palette e castelli di sabbia. Oggi non è così. Basta aprire la tua pagina di Facebook e una sfilza di messaggi sulla tua bacheca te lo ricordano. Quel senso di nomadismo che mi porto dietro era già segnato dagli astri. Per me non c’era la solita festicciola a casa, ma ogni anno i festeggiamenti si spostavano da un luogo ad un altro, con persone diverse. E’ lo svantaggio di chi è nato nei mesi estivi. Eppure prima di soffiare ed esprimere il desiderio di rito, avevo sempre la smania di salire sulle spalle di mio padre. Lui pensava fosse il solito capriccio, ma io mi sentivo in groppa a quel gigante che poteva aiutarmi ad acciuffare la linea di confine che divideva l’orizzonte dal mare.
La laguna di Venezia mi ha riportato a quella scena, forse perché quando condividi una serata di luglio con un anziano signore è più o meno facile tornare a sentirti bambino. Non era stata questa o quella canzone di Charles Aznavour che si era dileguata su piazza Sam Marco, piuttosto il mio desiderio irrequieto di farmi raccontare da lui i particolari di quella lunga tournèe con Edith Piaf. Un desiderio che è finito tra le luci e le ombre della laguna, in piena notte, nel silenzio più totale.
Questo netto contrasto tra il buio notturno e la luce del giorno che stentava ad arrivare mi ha riportato a quella scivolata – che mi sforzo di ricordare invano – che avevo fatto dal pancione di mia madre verso la vita. In quel momento mi sono ricordato che era il mio compleanno, sebbene attorno a me non ci fosse una torta con le candeline, ma solo il ronzio di quelle canzoni che non mi hanno fatto dubitare della generosità della vita. 

 

L’11 luglio della Spagna campione: “Nonno, adesso non ci prendono più!”

Le date tornano e i calendari fanno i loro giri. L’11 luglio del 1982 l’Italia di Bearzot vinceva il Mondiale in Spagna. L’11 luglio di 28 anni dopo la nostra Nazionale consegna la sua coppa del mondo alla Spagna, per la prima volta campione del mondo. La furia rossa è entrata nella storia del calcio e adesso è giusto che questa fiesta vada avanti senza sosta, da Madrid a Barcellona.

Eppure quell’11 luglio era anche il mio primo Mondiale, stavo per spegnere nove candeline. Quando Alessandro Altobelli tirò dentro la porta della Germania il terzo goal, mi colpì il sussulto del Presidente della Repubblica Sandro Pertini: “Adesso non ci prendono più”. Nonno Pasquale mi abbracciò e mi prese in braccio, dicendomi: “Nel campo come nella vita è tutto un gioco fatto di rigori, punizioni, illusioni, sconfitte, vittorie, calci d’angolo”. Poi aggiunse: “Vedrai che quando tuo zio Massimo arbitrerà a livello internazionale, altro che una confezione di Orangina, ti porterà sul quel campo assieme a lui”. Poi arrivò il fischio finale e fu una grande festa.

Eravamo in vacanza a Fondi, in provincia di Latina. Nonno mi aveva regalato una bandiera a misura di bambino, plastificata, acquistata nell’unico bazar della zona: Peticone. Eravamo in aperta campagna. Mi prese per mano e corremmo giù, attraversammo i campi, ci nascondemmo per fare uno scherzo agli altri. Fu allora che mi ricordai della frase del Presidente e gridai: “Nonno, adesso non ci prenderanno più”. In quell’urlo c’era l’illusione infantile che nessuno ci avrebbe separati mai, che avrei condiviso con lui chissà quante cose ancora.

Da allora mi ostino a seguire ogni Campionato di Calcio, nonostante sia uno sportivo distratto perché dietro quel pallone i ricordi diventano più lucidi, costanti. Chi non ha memoria è solo un “morto vivente”. Ieri, dopo la vittoria della Spagna, a casa mia è tornata ad essere domenica. Il Dolby surround sparava al massimo l’euforia dei tifosi ed io sono corso alla finestra con una consapevolezza. Il Mondiale è un momento di condivisione, fatto di incontri, di persone che ritornano per farci ritrovare l’essenza della condivisione.

‘E figlie so’ figlie, ma io mi sono innamorato di tua mamma!

“’E figlie so’ figlie e so’ tutt’eguale!” è una sacrosanta verità così lapidaria che poteva uscire soltanto dalla bocca di una madre coraggio del secolo scorso. Parlo di Filumena Marturano, la prostituta nata nei vicoli di Napoli prima che sul palcoscenico di Eduardo De Filippo. Dopo aver nascosto per una vita i suoi tre figli al compagno Domenico Soriano, Filumena gli rivela che uno è suo. La scena di quest’uomo che cerca a tutti i costi di capire chi fosse, mi fa riflettere nei tempi in cui vanno di moda le famiglie allargate: coppie separate, figli sbattuti un po’ qui e un po’ lì, uomini e donne che si rifanno una vita assieme, mettendo in conto il figlio avuto da una storia precedente.
E qui vengo al punto: si può accettare senza remore un bambino che la tua compagna ha avuto da un altro? C’è chi vive con serenità questo status, ma c’è anche chi si crogiola sulla calma apparente, opponendo una latente resistenza pericolosa e dolorosa. Il personaggio edoardiano Domenico Soriano non li accetta “quelli non suoi” finché si sente chiamare spontaneamente in coro “Papà”. E come se all’improvviso il figlio della tua compagna, che fino al giorno prima ti chiamava per nome e ti trattava con distacco, usasse questa parola magica, pur con la consapevolezza che tu non sei e non potrai mai sostituirti al padre vero. In giro sento raramente: “Mi sono innamorato di una mamma”. Non di una separata, divorziata o peggio ancora di una donna sposata. Di una donna che per professione fa la mamma a tempo pieno.
I bambini ci guardano non è solo il titolo di un bel film in bianco e nero di Vittorio De Sica, ma la consapevolezza che da un bimbo puoi aspettarti la disarmante saggezza che non appartiene più all’età adulta: “Mamma, ho capito perché piangevi ieri sera quando mi hai messo a letto. Ti sei innamorata di un altro”. Chi vuole intraprendere questa strada complicata dovrebbe prima di tutto andare da quel bimbo e spiegargli con la dolcezza come stanno le cose:”Io e te non ci conosciamo, ma siamo legati perchè condividiamo l’amore per la stessa donna. Tu, da monello che sei, le chiedi tutti i santi giorni di sistemare i giocattoli che hai lasciato sparsi per casa; io, da disordinato che sono, mi sono innamorato di tua mamma  perchè lei con un bacio mi ha trasformato in un principe azzurro, quello protagonista delle fiabe che ti racconta”.

Sei proprio un Taricone! Chi glielo dice a Sophie che papà non c’è più?

Vallo a dire ad una bambina di 6 anni che papà se n’è andato per sempre. Se avesse sbattuto la porta dopo l’ennesimo litigio con la mamma, potrebbe pure starci. Si troverebbe un modo fiabesco per far capire alla bimba che il papà non ha resistito, ha conosciuto un’altra, si è innamorato e non avrebbe potuto più farne a meno, perché di fronte ai sentimenti veri è solo da vigliacchi tirarsi indietro.
Tuttavia, questa non è la mala sorte che ha baciato la piccola Sophie: il papà è Pietro Taricone e non è stato lui a sbattere la porta di casa. Ha fatto un incredibile volo, senza sapere che quello sarebbe stato l’ultimo, in un’altra direzione, forse verso quella terra dei sognatori che molti di noi ci ostiniamo a chiamare Paradiso.

Gli amici pensavano che il destino di Pietro fosse restare il ragazzo di provincia, quello che gioca a fare lo sbruffone fuori al bar del paese assieme alla combriccola. Gli dei beffardi ci hanno messo del loro e gli hanno fatto assumere le sembianze del divo della nuova televisione: il coatto simpaticone del reality show, in quella memorabile prima edizione di Il Grande Fratello. Altro che latin lover.
Pietro Taricone aveva sotto la camicia di forza quella rozzezza tipica del Sud Italia, che nascondeva il cuore e quella semplicità di cui il Bel Paese vuole privarsi giorno dopo giorno. Poco importa se sia diventato un fenomeno da rotocalco del primo decennio del nuovo millennio; poco importa se sia stato l’attore di serie C del nuovo star-system confusionario; poco importa  se gli intellettuali lo giudichino il ragazzotto che ha inseguito l’apparire mettendo da parte la sostanza dell’essere. Forse era proprio il contrario, nonostante lo sfottò era diventato per tutti “Sei proprio un Taricone” come per dire “sei un grezzo e sbruffone”.

Cara Sophie, ti diranno che tuo padre non tornerà più. E’ un’idiozia. Non lo cercare nei vecchi filmati televisivi, nelle gaffe finite su YouTube, nei ritagli da gossip che qualcuno raccoglierà per te. Cercalo nei piccoli paesi del Sud Italia, nella semplicità della gente, nei percorsi che testimoniano la vera parabola della vita: conta l’essere e non l’apparire.
Ed oggi, Sophie, voglio togliermi questa maledetta giacca e cravatta, amplificare la mia cadenza di terrone, inzozzarmi le mani con panino e mortadella, sorseggiare un buon bicchiere di vino e sentirmi insultare: “Sei proprio un Taricone”. Oggi ho capito che assomigliare a tuo padre non è un insulto, ma l’innocente orgoglio di noi Meridionali, che non vogliamo privarci delle nostre radici.

Zanzibar, anche i conigli vanno in Paradiso!

Nove anni fa mio padre si prese una bella fregatura: gli dissero che quel leporide era nano, invece lui è cresciuto a dimensione normale. Mia sorella sognava un cane e papà  le portò un coniglio. Io gli diedi soltanto il nome, Zanzibar, perché ai tempi volevo fuggire lontano, lì in quell’arcipelago dell’Oceano Indiano. Pure mia madre, che non voleva avere animaletti tra i piedi, si rassegnò e si affezionò a lui. La sua padroncina andò via di casa qualche anno dopo e quel batuffolo con gli occhi azzurri restò a casa nostra. Una bella consolazione per i miei. Avevano perso in un colpo due figli – c’eravamo appena trasferiti a Milano- ma in compenso avevano qualcuno da allevare. Lo ammetto, io sono colui che non si concede facilmente agli animali, ma quel dì che portai Zanzibar dal veterinario per il controllo annuale, mi convinsi di una cosa. I conigli non sono stupidi e sciocchi e possono essere addomesticati. Tutte le volte che tornavo a casa dopo mesi di assenza, Zanzibar era lì che mi aspettava, mi osservava, mentre io lo rimproveravo: “Lasciami perdere, con me non attacchi”. Nel suo atteggiamento di fedeltà, assomigliava più ad un cane che a un leporide. Per un destino beffardo, ho trascorso con lui l’ultima notte senza saperlo. La mattina mi sono svegliato all’alba per ripartire, senza accorgermi che quel coniglio non era più chiassoso perchè era malato. Zanzibar aveva un sogno: assomigliare ad un cagnolino per rendere felice mia sorella. C’è riuscito, ma con la sua fierezza ha abbattuto il clichè del “coniglio fifone”, evitando quella dolorosa puntura che mette fine a tutto. E’ andato da solo incontro al suo destino, quello che spetta ad ogni essere umano.Gli animali non hanno un’anima? Zanzibar mi ha insegnato il contrario, adesso che girando per Milano, lo sento che mi sta dietro passo dopo passo. Nei suoi nove anni di vita c’è qualcosa di ciò che sono stato. Perciò avrei dovuto dargli più carezze, per traghettare il prima possibile la mia anima dalle delusioni dell’età adulta alla beatitudine dell’infanzia.