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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Cinque anni con YouTube: sbarazziamoci della tv!

Una parte della televisione ha investito sotto banco su mezzi e risorse per ridurre le insidie di Internet, che portava la brutta nomea di sottrarre l’attenzione popolare per la  fruizione dei contenuti. Poi è arrivata la sorpresa impertinente, destinata ad avverarsi cinque anni fa, nel maggio del 2005,  sotto il fantomatico nome di YouTube. Adesso il tubo catodico siamo noi utenti e, quella che sembrava una bravata di tre ragazzotti californiani destinata a durare poco, è diventata la più grande piattaforma di video del pianeta.  Ci vorrebbero più di 1.500 anni per rivederli ad uno ad uno! Mentre si diffonde alla velocità della luce  il Vangelo della rete, sotto la massima  “Condividete e moltiplicatevi”, persino gli analfabeti del web esclamano con nonchalance: “Lo hai visto su YouTube?”. La popolarità non si misura più in passaggi televisivi, ma a fil di video-sharing; il giornalismo televisivo se la dà a gambe dal piccolo schermo (vedi Michele Santoro che molla la Rai e potrebbe andare in onda dal web); e persino la didattica ha avuto i suoi risvolti: il mio amico Mario ha imparato a stirare prendendo lezioni da una casalinga su YouTube e chi voleva diventare da un giorno all’altro latin lover di professione si è affidato ai nuovi rubacuori della rete.  Il nostro voyeurismo si è esteso come un muro di gomma che ci fa essere “spettatori” e “protagonisti” di questo reality globale. E noi possiamo fare a meno delle tv? Sì, perchè c’è YouTube, ma paradossalmente la televisione non può fare a meno di YouTube per far veicolare i suoi contenuti. Peccato che ci sia ancora chi si ostina a rimuoverli. La mia amica parigina Françoise mi ha chiesto il link del video dell’esibizione di Carmen Masola, la vincitrice di Italia’s got Talent. Era già stato rimosso, perchè violava il copyright o perchè in Italia barcolliamo tra le ombre del Medioevo tecnologico? 

Street food, mangiare per strada costa poco?

Lo street food è così anglofono da farci dimenticare che l’usanza di mangiare per strada, all’impiedi, l’hanno inventata i Romani. Roba di altri tempi insomma. Il fascino del cibo di strada rappresenta il nutrimento di quei piatti popolari, che non mangeresti mai seduto a un tavolo: un calzone fritto napoletano, le arancine palermitane o una focaccia genovese, dove sta scritto che devono essere servite come “il caviale”? Ho avuto questa sensazione quando sono passato nella succursale milanese dell’ Antica Focacceria San Francesco. A Palermo mi inzozzavo le mani con panelle e panino con la milza, e a Milano mi sono ritrovato gli stessi sfizi popolari su un vassoio d’argento. E se in piena notte ho voglia di pane caldo, devo svuotare il portafoglio? Basta andare da Princi per confermare che “acqua, farina e lievito” sono beni di lusso. Senza andare troppo per le lunghe, lo street food è diventato roba da “fighetti” e così il corrispettivo partenopeo “frijenno e magnanno” è sull’orlo del salasso. Per fortuna a Napoli e a Palermo di cibo di strada ce n’è ancora parecchio e a prezzo popolare, mentre a Milano bisogna ingegnarsi. Magari ti trovi nei pressi di Lambrate, ed ecco l’apparizione: Pizza Mundial in piazza Bottini, aperta dall’alba fino a notte fonda, dove ci sono tante stuzzicherie anche a meno di 1 euro. I lumbard di palato fine non lo apprezzano perchè non hanno capito che “lo street food” va consumato e condiviso senza snobbismi, bon ton e, soprattutto, senza eccessi di tasca!

Quindici anni senza Mia Martini

Il 12 maggio sono quindici anni senza Mia Martini. Sembrano pochi, ma in realtà sono un’infinità di tempo. Sì, gli omaggi e le commemorazioni; sì, il rimpianto dei discografici che a volte sfocia nel “già sentito dire”, sì, gli inediti che spuntano a singhiozzo, ma non basta. Nel panorama musicale italiano ci sono tante voci, ma poche personalità. Mia Martini si è giocata la sua partita “fuori dal coro” perché, dietro la maschera imposta dal marketing ufficiale, c’era una persona vera e sincera: Mimì Bertè. E questa sincerità che rende l’interprete ancora più grande, perché le canzoni non sono banalità, ma i segni che decifrano il nostro esistere. E il rimpianto è quello di non aver fatto in tempo ad incontrarla. Il destino ha voluto che adesso io abiti a pochi passi da Cavaria con Premezzo, il paesotto che raccoglie le sue ceneri. Sarebbe bastata un’intervista per scrutare il suo complesso e variegato mondo interiore? Il web continua a ravvivare la sua memoria. Su Facebook spopola una pagina a lei dedicata, mentre il sito Chez Mimì è la voce pulsante del suo fan club. La redazione mi ha scritto recentamente, invitandomi a raccogliere in poche battute una sbadataggine: Mia Martini è stata anche una brava cantautrice. Non è ora che se ne torni a parlare, sul serio?

Genova per noi

Genova per noi “che stiamo in fondo alla campagna”, come cantava Paolo Conte nell’omonima canzone, è la visuale di chi viene dall’astigiano piemontese. Genova per noi “profughi del mediterraneo”, aggiungerei io, è la visuale di chi sbarcava da città come Napoli o Palermo, invischiandosi al porto tra bordelli e contaminazioni dei vecchi night club. Genova per me era una tappa di transizione, dopo una notte di Espresso affollato, per cambiare il treno che mi avrebbe portato in Francia da una parte della mia famiglia. E adesso Genova per chi è, in quella sua conformazione misteriosa e affascinante in bilico tra Porto, Lisbona e Marsiglia ? Ai sudamericani, che hanno invaso Via Del Campo, se chiedi chi fosse Fabrizio De Andrè ti rispondono: “Quel tizio che strimpellava la chitarra”. Delle atmosfere cantate da Faber non c’è quasi niente. Il negozio-museo fondato da Gianni Tassio ha le saracinesche abbassate, perché il comune ha messo su un bando per darlo in gestione, ma nessuno si è fatto avanti ancora. Altro che Bocca di rosa, occorre imbattersi nei travestiti della zona, che oggi parlano solo spagnolo e portoghese. La vecchia Morena, alias Mario Dorè, il travestito che ha nutrito tutta la generazione di De André, è solo un pallido ricordo così come rischiano di diventarlo i femminelli dei quartieri Spagnoli partenopei. Gli aneddoti interessanti si rubano ai genovesi di altra generazione, ma su questa memoria raggelata e intorpidita nessuno batte ciglio, così come se ti metti alla ricerca invana dei Tenco, dei Bindi o dei Lauzi. Timidi accenni a Boccadasse tra la casa citata in La Gatta di Gino Paoli o la Creuza de Mar, immortalata nell’omonimo aquerello musicale di Pagani e De Andrè. C’è sempre una consolazione, una sosta casuale all’ Antica Sciamadda di via San Giorgio a rimpizzarsi con focaccia genovese e farinata, a quasi i 18 euro al chilo, forse un po’ troppo per un piatto popolare. E’ legittimo rifugiarsi nel gusto perchè Genova resti Genova?

1 maggio, quale Festa del Lavoro?

Per chi se ne ricorda il 1 maggio è la Festa del Lavoro. Nonostante le urla dei sindacati, la tarantella finisce con i soliti bla bla bla. Del resto pure chi un lavoro ce l’ha, non ha tutta questa voglia di stappare lo spumante. L’aria che tira è deprimente tra disoccupazione, incertezze, precarietà e le morti bianche dimenticate. Come fai a confortare chi ti viene incontro, di qualsiasi età, e ti racconta la sua triste storia? Ci siamo passati un po’ tutti. C’è chi ha perso il posto di lavoro; c’è chi passa il giorno ad inviare curricula e si vede sbattuta la porta in faccia; c’è chi non ce la fa ad arrivare a fine mese; c’è chi a 50 anni si sente dire che è troppo vecchio per reinventarsi (Fabio Concato docet nel suo bel pezzo Oltre il giardino) o c’è chi vive lo stress per la scadenza  di quel maledetto contratto a tempo determinato. Il lavoratore di casa nostra  era mio padre e il 1 maggio a modo nostro gli facevamo festa. Nonostante la sua attività ce lo sottraesse continuamente, da ragazzo credevo che il lavoro fosse un diritto di tutti. Banalmente mi sono reso conto che non è così. L’unica consolazione di questo 1 maggio è il concertone di piazza San Giovanni a Roma, che quest’anno ci trasmette “il malumore dell’incertezza”, nel senso che a pochi giorni non conosciamo il programma definitivo. Nel 1998 ero di passaggio a piazza San Giovanni, ma quello fu un concerto piovoso. Nel backstage incrociai  Julian Lennon, il figlio di John, che ad un certo punto mi disse: “Quanta gente sotto al palco. Tutti fanno festa per il lavoro”. L’erede dell’ex Beatles non aveva capito che quell’entusiasmo nascondeva altro, rabbia e amarezza, che oggi sono le stesse intraviste nel mio ultimo anno da spensierato universitario, in quella piazza. Il volume alto della musica stordisce e la speranza non è mai abbastanza.

Charlie Brown, 60 candeline e non invecchi mai!

Una sera di aprile di alcuni anni fa ero alla stazione dei bus di San Francisco, pronto a partire per Los Angeles. Stavo per cambiare destinazione e dirigermi verso Santa Rosa, lì dove ha vissuto Charles M. Schulz, il creatore dei Peanuts. Mi fermò il terrore di affacciarmi alla finestra del suo studio e non trovarlo. Il disegnatore di quelle poetiche strisce a fumetti era scomparso già da qualche anno ed io sono stato tra coloro che si è rifugiato nei luoghi e nelle storie di Charlie Brown e della sua allegra compagnia. Sono stato un lettore incostante, ma le strisce dei Peanuts le ho divorate tutte ed, ogni volta che le rispolvero, mi donano sempre un riflessione nuova. Charlie Brown festeggia i suoi 60 anni e non è invecchiato per niente: sarà quel misto di poesia, filosofia, psicologia e storia;  sarà quel frantoio di classicismo che macina un lirismo, a tratti quasi ellenico; sarà  quell’evaporazione di saggezza letteraria da far invidia a Salinger. Quando sono giù non mi aggrappo alla coperta del suo amichetto Linus, ma cerco di far volare gli aquiloni come Charlie Brown. E tutto questo è ancora robetta da mocciosi? Se i Peanuts di Schulz sono questo, io voglio restare ancora un moccioso come te, caro Charlie Brown, perchè alla tua “veneranda età” sai ancora come farmi sentire leggero, lasciandomi planare sulla vita come i tuoi aquiloni!

Salone Internazionale del Mobile, Milano rincorre l’Europa

Il Salone Internazionale del Mobile ha fatto riaffacciare Milano all’Europa. Diciamolo pure che la macchina organizzativa era funzionante ed accogliente sia per gli adetti ai lavori sia per il pubblico (domenica si sono riversatete in Fiera  più di 32 mila persone). Non capita spesso ai grandi eventi che si svolgono nel capoluogo lombardo da tempo a questa parte. Penso alla BIT, ad esempio, che somiglia sempre meno ad una Fiera Internazionale di Turismo. Il Salone del Mobile è una bella opportunità per spiluccare stravaganze e creatività, anche se c’è chi si distingue sulla sponda opposta. Non mi sognerei mai di fare a scazzottate per sostare da Scavolini e convincermi che quella è ancora “la cucina più amata dagli italiani”. Sarà, i gusti sono gusti e il pubblico pagante ha sempre ragione, quasi sempre. Bel boom anche per gli eventi collaterali del Fuorisalone, con via Tortona in testa per affluenza di giovani a tutte le ore. Fare baldoria tutti insieme appassionatamente ci sta e fa bene all’umore. Se i venditori ambulanti di birra e quant’altro sono più numerosi degli eventi, non è che mi sono perso in una bella sagra paesana? Forse sì perchè la sicurezza lasciava a desiderare: sono rimasto in ostaggio mezz’ora sul ponte ferroviario che da Porta Genova scendeva in via Tortona, perchè non c’era nessuno a coordinare il gran flusso di persone. Per fortuna, non ci sono stati incidenti! La corsa verso l’Expo non accorcia le distante tra Milano e l’Europa perchè sono “i dettagli” a fare la differenza, ricordandoci che il Belpaese è fatto della stessa pasta, fino alla punta dello stivale. E non ci vuole lo stradario per capire che non siamo arrivati a Londra, Parigi o Berlino.

Salone Internazionale del Mobile, la mia sedia ideale

Mi è rimasta addosso la passione per “la sedia”, nonostante non sia un tipo da stare fermo. Al Salone Internazionale del Mobile di Milano mi sono messo a caccia della mia sedia ideale.  Ripensandoci bene, ho rivalutato quella che c’era nella cucina dei miei alla fine degli anni’70. Rispetto alle oscenità delle amiche di mamma, la nostra aveva un pizzico di design che non guastava. Ne combinavo una dietro l’altra ed era lì sotto che mi rifugiavo, quando non volevo farmi trovare da papà. E poi con una sedia potevo farci di tutto. Una volta la collocavo al centro del palcoscenico e mi sbizzarrivo ad inventare monologhi; adesso mi siedo col Pc sulle gambe e scrivo.  La mia sedia ideale? Resistente per salirci sopra e protestare come un matto. Contro chi? Contro chi fa lunghi viaggi per portarci dall’altra parte del mondo seggiole low cost, mortificando un realtà di casa nostra: Manzano, la città della sedia italiana. Dovremmo fare una capatina lì perchè anche “sotto il culetto” fa bene sentire il made in Italy.

Le favole di Aurora

Sono già alcuni anni che piagnucoliamo: i bambini italiani sono svogliati nella lettura e la colpa ricade su i genitori, che non danno il buon esempio. Del resto in un Paese che corre come una trottola, troviamo ancora il tempo per leggere una bella favola ai nostri figli e lasciare in eredità la magia di un bel libro? Succede, ma sempre più di rado. Mio padre se le inventava – ed era una frana – ma almeno ci provava. Noto che la maggior parte dei bambini preferisce farsi dare la buona notte dall’ultimo eroe di turno della Playstation o dai frenetici cartoon, che impazzano in tv a tutte le ore. La mia generazione l’ha scampata bella: circolavano le prime audiocassette con quella voce preregistrata che spodestava papà o mamma  dal trono di narratore. Se siamo noi adulti i primi a non credere più nelle fiabe, come pretendiamo che lo facciano i nostri bimbi? Pochi giorni fa è accaduto il contrario. La piccola Aurora, figlia di due cari amici, non mi lasciava andare via la sera, se non mi raccontava una favola. Questa esuberante bimba di 6 anni mi deliziava con i suoi racconti, e così persino una cult story come quella di Cenerentola diventava una piacevole rivisitazione tra fantasticherie e caos mediatico. Io la ascoltavo con attenzione e lei mi premiava trasformandomi in un personaggio. Il principe azzurro? No, guardandomi diritto negli occhi replicava: “Tu somigli a Paolo Bonolopis”. Aurora mi ha fatto riflettere: dovremmo farlo tutti più spesso, trovare il tempo per ascoltare i nostri figli perchè sono diventati più bravi di noi a raccontare le fiabe! Quando rincaso la sera, mi manca Aurora e quella sua ingenua spavalderia che sguizza tra fantasia e realtà. Io mi consolo, guardandomi allo specchio: se non sono il brutto rospo o il principe azzurro, chi mi ha trasformato in Paolo Bonolopis? C’è di mezzo lo zampino di Aurora, perchè il suo sorriso sornione è più potente di qualsiasi bacchetta magica. 

Paradiso di Stelle, un gelato sulla Route 66 del Sud Italia

Quella sera mi sono ritrovato con l’ultimo paio di dollari in tasca. Ero sulla Route 66 e l’autista del bus della Greyhound diretto in Arizona ci aveva concesso una breve pausa. Entrai in questo posto, afferrai un bicchierone di Coca-Cola e Louise, la ragazza di colore che mandava avanti la baracca, mi raccontò un pezzetto della sua vita. Prima di andar via mi lasciò un sacchetto con un paio di Donuts come a dire “il viaggio è lungo”. Entrando a Paradiso di Stelle, ho ritrovato la stessa atmosfera di quella sera americana. Non se ne sono accorte né Amalia e né Elisabetta, che dal 1996 gestiscono questa deliziosa gelateria-cornetteria, né Carmen, la ragazza che mi ha preparato una crêpe al cioccolato davvero intrigante. Carmen come Louise parla l’inglese fluentemente e ha detto basta alla solita aria ammuffita di provincia quando se n’è andata a vivere a Londra per cinque anni. Mentre guardavo i forni a forma di juke-box , mi sono detto: se Paradiso di Stelle fosse rimasto un franchising – sono ancora sparsi tra Rimini, Bologna e Messina – sarebbe una location anonima. Amalia ed Elisabetta le hanno dato una fisionomia e non può essere soltanto questione di gusti e ricordi. Se Marcel Proust si intromette tra un cornetto alla Nutella e un gelato al pistacchio, allora sì che sono guai. Forse guai per me: all’uscita non ho trovato la Route 66, ma il ricordo di Ada e di quella volta che l’ho vista sparire nel buio, raggiante come una stella cometa, ma nessuno se n’è mai accorto. Forse neanche io che mi nascondevo dietro Charlie Brown, aspettando che la “ragazza dai capelli rossi” capisse di che pasta fossi fatto davvero. La mia crêpe al cioccolato era finita e fuori avevo ritrovato la strada giusta per tornare a casa, casa mia. E questa volta a sparire nel buio sono stato io.