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Sanremo 2015, il Volo “cantanti da pizzeria” e le penne con l’Alzheimer

Rosario PipoloI due giovanissimi tenori e il baritono che compongono il Volo, la formazione musicale vincitrice del 65° Festival di Sanremo, si sono guadagnati meritatamente il consenso popolare, destando però qualche perplessità nei corridoi della Sala Stampa dell’Ariston. Tra l’altro pare che Pietro Barone, Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble siano stati additati pure come “cantanti da pizzeria”.

Senza tener conto di chi non ha digerito il successo planetario dei tre mocciosetti del programma tv di Antonella Clerici e la conquista degli USA,  dobbiamo rassegnarci al fatto che in Italia abbiamo delle penne malate di Alzheimer. Si tratta delle medesime biro che, abusando del loro inchiostro, pensano ancora di vivere ai tempi in cui segnavano il bello e il cattivo tempo della discografia.

Per fortuna o per sfortuna oggi ci sono i social media, non soltanto territorio di clowneria e nefandezza ma anche di competenza, la stessa che ha l’orecchio lungo e riconosce il talento di Il Volo. Le penne malate di Alzheimer hanno esaurito l’inchiostro a supporto di mediocri pianisti contemporanei, facendoli passare come geni incompresi, e non ne hanno più a dispozione per riconoscere la bravura di questo trio?

Consapevoli da una parte che i Festival di Sanremo dei Modugno, dei Dallara, dei Latilla, dei Villa, dei Rascel, degli Endrigo, dei Tenco o dei Gaetano non torneranno mai più, dall’altra ci opponiamo a questi ciarlatani da corridoio perché Barone, Boschetto e Ginoble possono fare un miracolo con le loro romanze pop: far avvicinare i ventenni alla lirica, ricordando loro che la radice della musica è tutta lì.

La mia generazione fece il grande passo scoprendo Luciano Pavarotti, l’antesignano di quella fusione magistrale tra lirica e pop. E me ne resi conto il 30 luglio 1991 quando, all’uscita da una merenda all’Hard Rock Cafè di Londra, mi ritrovai il grande tenore che cantava sotto la pioggia ad Hyde Park. Ebbi la fortuna di ascoltare quel concerto gratuito che in parte avrebbe compromesso alcune mie scelte musicali future.

Il Volo sono l’unico sollievo di questo Sanremo avaro che dimenticheremo in fretta, forse il peggiore musicalmente di tutte le edizioni. Se proprio dobbiamo salvare una baby band, teniamo loro e buttiamo giù dalla torre i Dear Jack, flop del filone della tribù della De Filippi.
Pietro, Ignazio e Gianluca hanno talento ma devono sapere che l’umiltà è necessaria per crescere. La strada per guadarsi un posto nella storia della musica è ancora lunga, faticosa, tortuosa e il pericolo che il successo negli USA li abbia montati la testa è dietro l’angolo.

Le braccia spalancate di Mimmo Modugno sulle note di Volare fecero il giro del mondo. E questa Grande amore? Nonostante resti una romanza pop di serie B avrà il pregio di ricordare all’estero che l’Italia – ed in particolare Abruzzo e Sicilia, le regioni che li hanno partoriti – non è solo corruzione e volgarità ma è ancora culla di ragazzi entusiasti, capaci di assistere con la passione il faticoso cammino per le nuove generazioni, orfane della grande musica che fu.

14 febbraio, il primo San Valentino non si scorda mai

Rosario PipoloQuante banalità intorno al 14 febbraio. Tutti lo snobbano ma ciascuno ha un ricordo che lo lega a San Valentino, patrono degli innamorati. Ci sono ricordi che restano intatti come bottiglie di vetro in un angolo. Non è nostalgia ma piuttosto la presa di coscienza che la Festa della Innamorati può avere col tempo connotati diversi.

Sembra una beffa ritrovarmi a passare nello stesso posto in cui esattamente venti anni fa parcheggiai la Panda. L’avevo trasformata in una mini navicella piena di palloncini. In radio, dove avevo iniziato le prime collaborazioni, le avevo registrato una trasmissione tutta per lei che avrei fatto uscire dall’autoradio.
Mi procurai tutto l’occorrente per preparare una cenetta su quelle quattro ruote. Fu dura far capire al tizio della cornetteria che, il cornettone gigante con le nostre iniziali doveva essere pronto per le sei di sera. La mezzanotte di Cenerentola si era ridotta alle nove e mezzo. Ricordo la sua faccia al semaforo quando mi vide sbucare con l’auto allestita per l’occasione.

Il tempo non è il nostro padrone. Piuttosto lo sono i sentimenti. Il primo San Valentino non si scorda mai quando a distanza riesci a sentire i dolori, gli stati d’animo dell’altro. È come se questa reciprocità, libera dalla prigionia del passare degli anni, dimostrasse che i nostri cuori non invecchiano, restano intatti, hanno un piccolo congegno nascosto a medici e scienziati che sono la valvola di tutto, la valvola della vita.

Non si diventa uomini con una divisa addosso, come sotto gli addestramenti spietati del film Full Metal Jacket, ma calpestando la rancida viltà che ci fa avere paura di mostrare ciò che abbiamo dentro.

Il 14 febbraio di vent’anni fa non fu più il giorno dove regalare una manciata di Baci Perugina perché, in quell’auto trasformata in una navicella, scoprii insieme alla ragazza accanto a me che la nostra autenticità è direttamente proporzionale alla manifestazione di ciò che sentiamo dentro.

Alle nove e trenta in punto la lasciai nella strada dietro casa per non insospettire i genitori. Andando via in silenzio, per un attimo mi venne il dubbio che la mia strampalata macchina organizzativa non fosse riuscita. A togliermi il dubbio fu un biglietto, trovato sul cruscotto, sui cui era scritto: “Solo un pazzo come te avrebbe potuto fare tutto questo. Non so dirti altro. Ti voglio bene. 14 febbraio 1995” 

Il matrimonio di mio marito e il Sud nell’arte di Salvo Bonfiglio

Rosario Pipolo“Il matrimonio di mio marito” potrebbe essere il titolo provocatorio di Pietro Germi, in quel cinema dalla caratura di Divorzio all’Italiana o Sedotta e abbandonata che scattò un’instanea grottesca del Sud Italia a cavallo del Boom. Invece no, è il titolo di un gioiellino d’arte contemporanea di Salvo Bonfiglio che mi ha particolarmente suggestionato.

Il tratto di Bonfiglio ha qualcosa delle pellicole del Neorealismo, che furono all’altezza di raccontare il nostro Meridione con quel misto di poesia e cruda verità tanto da infastidire il regime politico di allora che le liquidò: “I panni sporchi si lavano in famiglia”.

In questo olio su tela grezza, nella finta immobilità dei protagonisti, c’è il movimento di Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza, dove sono i personaggi a venire incontro a noi che li osserviamo. Questa coppia di sposi, accompagnati da un seguito che connota le radici di Bonfiglio, mi hanno riportato ai racconti di mio padre.
All’alba degli anni ’50 del secolo scorso, quel furfante di papà insieme ai compagni di giochi si intrufolava ai matrimoni delle contrade contadine del mio Sud per mangiare qualche dolcetto e respirare aria di festa.

Salvo Bonfiglio abbozza soltanto i volti dei personaggi perché al resto pensiamo noi. Il Sud non ha solo un connotato geografico, imprigionato da tanti nell’odioso campanilismo di questo o quel luogo. Il Sud di Bonfiglio è lo stesso Sud che mi sforzo di vivere io, ovvero prospettiva interiore attraverso cui trasformare la noiosa routine in esistenza.

Perciò godermi quest’opera a pochi passi dal Po non è stata una beffa dell’ennesimo mio vagabondaggio. La tela di Bonfiglio è uno specchio attraverso cui guardarsi senza timore. A ciascuno la sua radice e la presa di coscienza che tutti esistiamo a Sud di qualcosa. Ciò accade quando in silenzio ci perdiamo a condividere l’interiorità degli altri, per fare della storia donata da qualcuno la nostra prossima storia.

Je suis Charlie Hebdo: la libertà di una matita vale quanto quella di una penna

Rosario PipoloC’è un senso di sdegno e sgomento che ci fa sentire improvvisamente tutti francesi. L’attentato alla redazione del giornale satirico d’oltralpe Charlie Hebdo è stato disegnato significativamente in questa splendida vignetta di Philippe Geluck.

Partiamo da una digressione storica. La satira è stata sempre una spina nel fianco in un regime dittatoriale così come in una democrazia. Quando negli anni passati la matita del nostro Forattini fu improvvisamente messa alla gogna dall’editoria italiana per uno sgarro al politicante di turno, il disegnatore romano sottolineò: “La sinistra non accetta la satira quando le è rivolta contro”.

Questo per dire che la satira è pungolo per chiunque, per qualsiasi organizzazione, politica e non. Figuriamoci poi per terroristi ed estremisti.
Nel centro commerciale dei social network, tra gli scaffali delle banalità, ho letto pure di chi insinuava che Charb, il direttore di Charlie Hebdo, aveva calcato la mano e se l’era cercata.

Mettiamo in chiaro che la libertà della matita di un disegnatore vale quanto quella della penna di un giornalista. Se d’altro canto volessimo andare ad intercettare tutti i fiumi di inchiostro omofobi, razzisti e guerrafondai, dovremmo aspettarci “bombaroli” in azione in ogni angolo del mondo.

La libertà di pensiero, messa nera su bianco, non si riduce banalmente ad essere solo un capisaldo di civiltà e democrazia ma è la molla che fa anche della “satira più spietata” il territorio fertile di denucia, attribuendo al perimetro di un foglio bianco lo spazio di una una rivolta senza sciabola ma a matita.

La violenza e l’integralismo si sconfiggono con intelligenza. Meglio stare alla larga dall’imprudenza estremista di Madame Le Pen che vorrebbe, attraverso la pena di morte, riportare la Francia al terrore della ghigliottina, o dalla flemma di Monsieur Hollande che dovrebbe fornire ai francesi spiegazioni su come, in termini di sicurezza, si poteva evitare questa strage.

Le due matite al posto delle torri gemelle di Geluck lasciano spigoli di riflessione a chi come me ha scelto di inserire nel proprio picprofile l’urlo solidale Je suis Charlie, doloroso hashtag su Twitter che ci porteremo appresso nel corso di questo 2015 e orribile sequenza di un film mai girato da Claude Chabrol sul massacro di un gruppo di intellettuali che, con le loro matite e le loro vite, hanno difeso dal bavaglio la storia della satira francese. La strage di Parigi è una cicatrice che la Quinta Repubblica francese non rimarginerà così come sarà per la politica di Hollande, il più flaccido inquilino all’Eliseo. 

Napoli senza Pino Daniele è come il golfo senza il suo Vesuvio

Rosario PipoloOggi non posso che attraversare Spaccanapoli, perché quando nell’81 persino la casa dei miei nonni ai Campi Flegrei tremò per il concerto di Pino Daniele in piazza del Plebiscito, una voce urlò alla finestra: “Quando il cuore di Pino smetterà di battere, tu dovrai essere a Napoli, ccà”.
E così è stato. La profezia si è avverata. Sono qui, nella Napoli “nera a metà”, che nonno Pasquale mi portò a scoprire alla fine degli anni ’70 mentre dai balconi della Bagnoli di allora si udiva la voce del primo Pino Daniele.

A ciascuno una “terra mia”. A me toccò quella alle falde del Vesuvio, dove il blues di Pino Daniele fu tappeto per srotolare dense storie di denuncia attraverso la Napoli appena uscita dal tunnel dello zarismo populista di Achille Lauro.

La mia generazione fu “nera a metà” quando il blues napoletano e il contrappunto melodico del “mascalzone latino” fecero della world music l’apogeo del Mediterraneo; quando le strofe di Pino Daniele trasfigurarono in musica la poesia di Salvatore Di Giacomo e la teatralità del vico di Raffaele Viviani; quando il suo canzoniere ci diede le chiavi dell’inquietudine per raccontare il mondo attraverso gli occhi di Napoli; quando uscimmo sconfitti dalla grande illusione e delusione bassoliniana perché capimmo che i “mille culure” di Napule è… vendemmiavano l’amaro destino della nostra città, abbandonata dagli dei: “Napule è ‘na carta sporca e nisciuno se ne importa e ognuno aspetta a’ ciorta.”

E forse ‘a ciorta è toccata a noi napoletani, popolo condannato a vivere tra speranza, dolore e malinconia, perché altrimenti Dio non avrebbe mandato quaggiù lo scugnizzo Pino Daniele, le cui canzoni resteranno l’unico specchio in cui è riflessa l’intimità della nostra storia contemporanea.

E se si avverasse la profezia apocalittica dell’anziana mendicante conosciuta da studente a piazzale Tecchio – “Guagliò, ‘nu juorne Napule schiatterà sotte ‘a lava d’o Vesuvio” – rinasceremo da sotto la lava del vulcano buono grazie a questi versi che faranno da mantra per riacquistare la memoria: “Chi tene ‘o mare ‘o ssaje porta ‘na croce, chi tene ‘o mare ‘o ssaje nun tene niente.”

Oggi contano solo le lacrime di Napoli, perché noi napoletani abbiamo il pregio di essere carnali e fatalisti strafottenti.

Il mio Capodanno 2015 con E.T., l’extraterrestre del futuro

Rosario PipoloNel 1982, qualche mese dopo il trionfo della Nazionale ai Mondiali di Spagna, incontrai E.T., l’extraterrestre che non mi impressionò per la navicella da cui scese, ma per l’aspetto buffo e poetico che lo rese famoso qui sulla terra, al di là della magia del film di Steven Spielberg.
Dopo oltre trent’anni è ritornato per festeggiare il Capodanno insieme a me e a tutti coloro che appartengono alla generazione in cui la fantasia può condizionare in parte le scelte della vita.

Ai tempi E.T. mi propose di aggregarmi alla slitta nostalgica di “Telefono casa” e trasferirmi sul suo pianeta. Ero troppo piccolo allora per fare una scelta così coraggiosa. Oggi sono abbastanza “grande” per rifarmi dell’occasione perduta.

Il mio Capodanno 2015 con E.T. Mi trasferisco sul suo pianeta perché lì non esiste la smania di apparire, che ha fatto della cornice dei social network un grande circo con pagliacci volgari che svendono ogni valore, inclusa l’immagine innocente dei propri figli, per cercare di essere ciò che in realtà non sono.

Il mio Capodanno 2015 con E.T. Mi trasferisco sul suo pianeta perché lì non c’è alcun codice, alimentato dall’ipocrita subcultura, che regolamenta i legami sulla base delle imposizioni della comunità che vorrebbe schiavizzare scelte e i tempi di tutto, dal passo nuziale a quello di un corteo funebre.

Il mio Capodanno 2015 con E.T. Mi trasferisco sul suo pianeta perché lì la bellezza di Dio non è filtrata con tutti quei fronzoli che ci fanno privare dello stupore di chi dovrebbe accostarsi con gli occhi di un bambino.

Il mio Capodanno 2015 con E.T. Mi trasferisco sul suo pianeta perché lì il qualunquismo non ha contagiato la politica, quella che da noi è invasa da predicatori di ogni genere, così ciechi da calpestare i presupposti per essere protagonisti in un paese civile.

Il mio Capodanno 2015 con E.T. Mi trasferisco sul suo pianeta perché lì non ci sono coni d’ombra a seppellire i tanti genocidi che ogni giorno si alimentano miseramente sotto i nostri occhi; la giustizia è uguale per tutti e i clandestini non vengono imbarcati per poi bruciare come topi.

Il mio Capodanno 2015 con E.T., il buffo extraterrestre che mi fa affacciare alla finestra di questo 2015 con la chiave per aprire la memoria del futuro.

Gaffe oltre il cinema: La scuola “più bella” del mondo non è ad Acerra?

Rosario PipoloQuando nel 1998 fui inviato dal giornale sul set del film Ferdinando e Carolina di Lina Werthmuller, nella mia intervista alla regista ci fu un’intrusione relativa al precedente Io Speriamo che me la cavo: “Signora, ci pensa al patatrac se nel film avesse lasciato Arzano al posto di Corzano?”. La Werthmuller sorrise. Per il film tratto dal libro del maestro Marcello D’Orta fu apparente questione di diritti d’autore, anche se qualche valutazione fu fatta tanto che la suscettibilità degli arzanesi non fu intaccata.

L’uragano mediatico dei social network ha amplificato la voglia spasmodica di apparire, passando con disinvoltura dal Berlusconismo retrò della tv commerciale al Renzismo “a bordo piscina” nel salotto di Barbara D’Urso del digitale terrestre. La community, pur di avere un posto di rilievo sotto i riflettori, è pronta a svendere la dignità superstite.
Una volta si ricorreva alla “madonnina che lacrimava” per sperare che il luogo in cui abitavamo si trasformasse, dall’oggi al domani, in un luogo di pellegrinaggio, mistico o folk poco importava. Oggi si ricorre al Cinema: è accaduto a Santa Maria di Castellabate, location del film Benvenuti al Sud, che ha fatto botto nel turismo estivo grazie al beneficio della macchina da presa.

Non tutte le ciambelle riescono con il buco. Infatti, ad Acerra, la città alla periferia di Napoli protagonista del film di La scuola più bella del mondo, è andata davvero male. La comunità locale, smaniosa di specchiarsi sul grande schermo, si è ritrovata intrappolata nel gioco goliardico del tiro alla fune tra Nord e Sud. A pagarne il prezzo è stata soprattutto la scuola pubblica locale, che nel film non è di certo quella frequentata da me negli anni ’80.

Prima di dare ospitalità alle riprese, chi ha letto la sceneggiatura – o forse è legittimo avere il dubbio che  mai sia stata visionata – avrebbe dovuto mettere in secondo piano quel “divismo” di cui siamo tutti vittima. Questo per non infangare la memoria degli “insegnanti di frontiera” che, nelle aule della Scuola Pubblica alla periferia di Napoli, donarono l’anima pur di essere seconda casa e punto di riferimento per tanti ragazzi provenienti da contesti familiari disagiati, oggi stemperati nello stereotipo del film di Luca Miniero.
Ed io ho avuto la fortuna di crescere nella scuola pubblica con gli insegnanti, che mi tennero alla larga dai bamboccioni e polli d’allevamento dei banchi della piccola scuola privata di paese, inclusa quella delle graziose suorine, dove si ovattava il disagio sociale.

All’alba del cinema, la scivolata su una buccia di banana era il motore per una fragorosa risata. Oggi invece, nella cornice del Renzismo “a bordo piscina”, la scivolata su una buccia di banana è un fallimento riconoscibile e la risata è di cattivo gusto.

Just Married al Castello di Bevilacqua e l’artigianato locale per gli sposi

Rosario PipoloNon mi piacciono le fiere dedicate ai matrimoni. Le trovo noiose, a volte volgari, con quel prurito che contraddistingue il mercante, disposto a venderti qualsiasi cosa. Perciò credo che sia riduttivo definire Just Married, la domenica di novembre che il Castello di Bevilacqua dedica ai futuri sposi, come evento o fiera matrimoniale.

Mi sembra piuttosto il raduno di artigiani appassionati che, sulla frontiera veneta tra il veronese, il vicentino e il padovano si incontrano in una cornice incantata – quella di un vero castello appunto – per provare a dare al matrimonio un tocco di autenticità. Per me è artigiano chiunque contamini il proprio lavoro con le radici che lo legano al territorio.

Da questo punto di vista lo sono anche Roberto Iseppi e Miresi Cerato, padroni di casa al Castello di Bevilacqua, portatori sani dell’artigianato nello stile che fa essere questa location del Veneto un punto di ritrovo e riferimento di memoria per tutta la comunità locale.
Mi infiltro a Just Married, mescolandomi tra quelli dello staff, per capire se l’organizzazione di un matrimonio affoghi soltanto nel becero business.

Cambio idea quando vedo la matita magica di Giulia Gazzani disegnare la coppia – scelta come immagine di questo post – che, con lo stesso garbo dei fidanzatini di Peynet, incornicia lo spirito di Just Married: i sogni di Ester e Ime guariti nel loro inconfondibile cake design; il make up di Chiara dallo slogan “il trucco c’è ma non si vede”; la serigrafia di Valentina e Alice tra idee eleganti; l’occhio fotografico di Vinicio, il flauto traverso di Chiara o l’esuberanza di Giorgia che farebbe ballare anche la coppia di sposi più ingessata.

Valorizzare la creatività e l’unicità dell’artigiano locale è il piccolo grande valore aggiunto di Just Married. Ed è giunta l’ora che lo riconoscano anche le istituzioni provinciali e regionali, perché non basta canticchiare all’occorrenza “Oh che bel castello, Marcondiro ndiro ndello”. E scusate, se insisto.

90 anni di Radio con storie e voci, vicine e lontane

Rosario Pipolo90 anni di Radio in Italia non sono noccioline. Nonostante l’imperialismo di Internet e social media, la radio è viva, anzi sembra ringiovanita. Ognuno di noi ha una storia da raccontare per condividere questo compleanno.

La radio ha scandito il tempo della mia infanzia: il buongiorno di nonna Lucia nel lettone ad ascoltare i radiodrammi trasmessi dalla RAI, nella seconda metà degli anni ’70, o le domeniche di nonno Pasquale a rincorrere le radiocronache calcistiche del suo Napoli.  Ai tempi Twitter era fantascienza e l’unico uccellino di mia conoscenza era quello con il cinguettio che indicava il passaggio da una stazione all’altra.

La prima radio toccata con le mie mani? Quella che nel ’71 papà aveva regalato a mamma per il fidanzamento, con il sospetto che quella “scatola parlante” fosse oggetto di stregoneria. Le trasmissioni delle prime radio libere napoletane, inclusa SpaccaNapoli, diluivano il tempo dei pomeriggi  tra mamma che completava le faccende domestiche e le dediche romantiche fatte a telefono dagli ascoltatori.

Il primo autoradio invece non si scorda mai. Lo infilai nella mia Panda nel 1995 e feci credere alla mia ragazza di allora che stavano dando in diretta una trasmissione tutta per lei. In realtà, feci partire un’audiocassetta su cui avevo registrato con un mixer una vero e proprio programma. Non impiegò tanto a capire che lo speaker fossi io.

La mia prima volta in uno studio radiofonico fu nei primi anni ’90: ero a Radio Kiss Kiss per un’intervista. Fu lì la resa dei conti. Si dissolse la magia “solo voci” e fui costretto ad associarle ad un volto. Perciò non amo i ricatti del digitale terrestre, che ha costretto la radio a rifarsi un alterego dinanzi alle telecamere.

Solo voci, punto e basta. Voci che, dopo 90 anni, continuano ad aprirci un mondo ovunque ci troviamo. Voci che fanno vibrare minuscole storie infilate tra una canzone e l’altra. Voci che, dentro o fuori dal coro, confermano i versi cantati dal saggio Eugenio Finardi: “Amo la radio perché arriva dalla gente, entra nelle case e ci parla direttamente. Se una radio è libera ma libera veramente, piace anche di più perché libera la mente”.

9 settembre 2014: l’emozione di ascoltare in mono come allora il vinile dei Beatles…

Rosario PipoloFatevelo raccontare dalle nonnine di Liverpool cosa accadde nei negozietti di musica ai tempi del Mersey Beat quando apparve Please Please me, il primo album dei Beatles. Più di mezzo secolo fa la musica si ascoltava in mono e, oggi 9 settembre 2014, tocca capirlo anche alla generazione che divora canzoni in formato digitale. The Beatles in Mono, il lussuoso cofanetto dei Fab Four che ripropone i vinili orginali in versione mono, è più di un capriccio feticista.

Nell’agosto del 1990, in occasione della mia prima fuga a Liverpool ancora minorenne, incrociai un venditore di musica degli anni ’60. Mi raccontò delle file di ragazzine che si appostavano nel retrobottega alla vigilia dell’uscita di un nuovo album di John, Paul, George e Ringo. La Universal non è riuscita neanche a consegnare i Mono Box nei grandi store musicali di Milano. Segno che i tempi sono cambiati, che le file sono diventate flussi di acquisto su Amazon, che la crisi ci costringe a vedere un LP come superfluo.

Negli anni ’60 la musica era pura “monofonia” e le prime apparecchiature in  “stereofonia” erano davvero lusso. Ricordo quando da Liverpool mi portai una delle prime stampe di With the Beatles in mono e provai a metterla sul mio giradischi e percepirne le variazioni d’ascolto. Non si restaurano solo i film, ma anche la musica. Rispetto agli errori fatti sui remasters dei Pink Floyd, per i Beatles la faccenda è diversa. Tuttavia, la versione CD di the Beatles in Mono del 2009 aveva solo una pecca: il suono mono aveva come fonte i master digitali, perdendo fragranza e spontaneità.
Su questi vinili 180 grammi di oggi i Beatles tornano a cantare “nel mono di allora” grazie agli ingegneri del suono. Questa volta hanno lavorato al mastering sull’analogico.

A cosa serve tutto questo? A ricordare che un disco allora non era fatto soltanto di ascolto ma anche di tatto:  l’artwork, la copertina apribile, i testi delle canzoni. A ricordare che, lungo il marciapiede dei vent’anni dei miei genitori, bastava un disco per essere felice, lontano dall’ingordigia dei giorni nostri. A ricordare che sono in tanti quelli come me che hanno calcato i passi della propria vita sulle canzoni dei Beatles.
A me succede dall’età di 14 anni. Allora chiesi a mia madre i soldi per comprare tutti gli album dei Beatles. Fu un prestito mai restiutito che si trasformò in un regalo: quello di aver messo una passione legittima sul piedistallo della mia vita.