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Cartolina di agosto: quando il compleanno va in vacanza

Rosario PipoloMetti che hai un papà appassionato di foto. Metti che mancano pochi giorni al tuo compleanno e apri l’album di famiglia.  Ecco che spunta fuori questa magnifica foto dei tempi dei rullini, quando non vivevano l’affanno di accumulare immagini e scaraventarle su un Pc. Mi ricorda i compleanni vacanzieri. Anche a me è toccata la stessa sorte della festeggiata qui ritratta, oltre quella di essere “occhialuto”: i nati come noi nei mesi estivi non si sono mai ritrovati a far la festicciola con gli amichetti, perché o loro o noi eravamo in vacanza.

I miei sono stati sempre compleanni nomadi da una località balneare ad un’altra. La bimba occhialuta in questa foto assomiglia alla piccola Daniela a Scalea, la mia compagna di giochi d’estate, l’unica che avrei voluto accanto al festa improvvisata dai miei.  Puntualmente era assente, perché la famiglia terminava le vacanze nello stesso giorno in cui spegnevo le candeline!

Questa immagine, che ho scelto come cartolina per dare il benvenuto al mese di agosto, mi solletica una riflessione. Dovremmo tirar fuori più spesso dal cassetto le nostre vecchie foto, senza però farci prendere da quella odiosa nostalgia canaglia.
Sarebbe un modo per catturare in un dettaglio  il bello che ci portiamo dentro, proprio come l’autenticità di questa bimba nascosta dentro una smorfia. Ci ostiniamo a fare i grandi, a giocare a nascondino, per difenderci da questa aggressività sparsa ovunque.

Troppo spesso siamo distratti per accorgerci di chi ci passa accanto. Solo colpa della routine che ci schiaccia sotto il peso delle corse e rincorse? Il prossimo 6 agosto quella bimba forse tornerà a soffiare le candeline nello stesso posto, ricreando il magico remake di questa foto. Come in suggestivo fuorionda, tornerà il brusio delle voci che allora erano intorno a questo scatto.
Noi invece vi aggiungeremo, attraverso i trilli di un carillon, “Martha my dear” dei Beatles come colonna sonora e replicheremo: “I compleanni vanno in vacanza, noi continuiamo a restare qui per essere noi stessi”.

Selfie e privacy in spiaggia: il Garante ha visto mai gli italiani sotto l’ombrellone?

Rosario PipoloApprezziamo lo sforzo del Garante della Privacy per la pubblicazione delle “buone regole in spiaggia a difesa della nostra sfera privata“, ma con le pinne, fucile ed occhiali ci viene un dubbio: ci siamo mai guardati noi italiani sotto l’ombrellone? Con questa smania vanitosa dei social network sarà davvero dura metterci a regime in materia di discrezione o riservatezza.
Figuriamoci se rinunceremo mai al selfie di turno per far vedere a tutti la nostra meta vacanziera. Basta buttare gli occhi nei feed di Facebook per catturare il trash di questa  ingordigia nazional popolare, di cui le maggiori vittime sono i bambini. E se nel nostro selfie finirà il vicino d’ombrellone, per giunta “incazzoso”, il povero Garante si troverà sulla scrivania una pila di lettere di protesta.

Correremo volentieri il pericolo di trovarci  i ladri in casa, pur di non rinunciare al check-in che  compone la lista di ristoranti e locali “fighi” che frequentiamo. L’epidemia del food è così contagiosa che prima o poi dovrà toccare pure a noi finire su Real-Time? Questa è la massima aspirazione delle vecchie massaie del Belpaese in bianco e nero, oggi trasformate dalla globalizzazioni in nevrotiche donne bioniche.
Alcuni hanno la sveltezza di geocalizzarsi persino alla toilette o nella location creata ad hoc su facebook “A casa mia”. La sfiga ci mette del suo e, a furia di scroccare Wi-Fi da un lido ad un altro,  beccheremo pure il virus nello smartphone che ci farà sentire sconnessi dal mondo. Se non abbiamo fatto il backup dei dati prima di partire, possiamo dire addio ad una buona parte della nostra vita, destinata ormai a finire spiaccicata sull’isolotto dell’icloud.

Morale della favola sotto l’ombrellone: il Garante ci suggerisce di “gestire le nuove tecnlogie con cautela”, soprattutto di non essere sbadati a lasciare password e accessi a destra e sinistra. Ah, ecco dimenticavo. Mia moglie, incallita spendacciona in questi giorni di saldi, me lo aveva detto che in fondo il pin del mio bancomat è più al sicuro se lo impara a memoria lei. Perché memorizzarlo su uno smartphone?

Tempo scaduto e non perché sia finito il numero di battute a mia disposizione. Devo andare a fare il selfie di questa mia giornata vacanziera, altrimenti poi dicono che sono poco “social”. Lo dite voi al Garante?

 

 

 

Diario del testimone della sposa: le sorelle sono un dono di Dio

 

Rosario PipoloMentre l’auto della sposa corre spedita sul lungomare di Napoli, mi torna in mente una sera del ’76 in cui sedevo in una Cinquecento rosso corallo. Mamma sedeva davanti con il pancione. Il posto accanto a me era vuoto. A quei tempi pensavo che una sorellina si ordinasse al supermercato. Quando nonno Pasquale, in quella domenica del 3 ottobre, mi tirò giù dal letto di prima mattina, pensai: “I supermercati non sono chiusi a quest’ora?”. In clinica, attraverso un muro di vetro, osservavo una nidiata di neonati piagnucoloni. Pensavo potessi sceglierla come al supermercato. Puntai il dito verso quella più pacioccona. Era proprio lei, mi era andata bene. Si avvicinò Nonna Lucia e mi disse sottovoce: “Si chiama Rossella, è tua sorella e devi prenderti cura di lei”.

Pochi mesi dopo mi ricordai delle parole della nonna. Nel condominio dove vivevamo erano tutti preoccupati, perché dal palazzo vicino si sentivano spesso colpi di pistola. Nessuno osava dire niente, tutti erano ammalati di omertà. Mamma andò a fare la spesa e mi disse di badare a lei. Fuori era maltempo. Sentii un boato forte. Pensando avessero sparato, mi lanciai sulla culla della piccola Rossella e la strinsi forte a me come un piccolo soldato in trincea. Per fortuna, era solo un tuono.

Ricordo questo episodio come il punto di partenza della mia vita condivisa con mia sorella. Il più delle volte sono stato un fratello distratto, prepotente, poco premuroso. Nonostante tutto, ho maturato la consapevolezza che avere una sorella ha significato per me vivere a pieno la mia esistenza. Mia sorella è stata la continuità di ciò che non sono stato; si è rivelata il significato che la vita mi ha donato, attraverso il pancione di mia madre; è stata punto di riferimento per il mio futuro. E in questa Napoli, che ci ha partoriti ed ha custodito i ricordi più belli sulla zolla dei Campi Flegrei, oggi ritroviamo memoria e storia della nostra famiglia.

Ho finalmente imparato la lezione. Le sorelle non si scelgono al supermercato, ma sono un dono di Dio, anche per i fratelli “mascalzoni” come me. E nel giorno in cui sono proprio io “il testimone della sposa” posso urlare sottovoce: “Grazie per esserci stata a pieno, nella mia vita”.

Berlinguer, ti voglio bene

Rosario PipoloBerlinguer ti voglio bene, perché l’11 giugno del 1984 rubai a papà un giornale. Sulla copertina primeggiava un sorriso, il tuo, e la scritta “Ciao, Enrico”. Cosa si poteva chiedere ad un ragazzino, a ridosso degli esami delle Elementari, a cui gli anni del riflusso avevano messo in mano i robot giocattolo di Goldrake e Jeeg Robot? Conservare quelle pagine di carta e sfogliarle quando sarebbe cresciuto.

Berlinguer ti voglio bene perché, quando malavitosi e criminali nascondevano sotto le acquasantiere delle chiese “i pizzini” con le istruzioni per votare i papponi democristiani, l’Italia fetida abbassò lo sguardo davanti al sequestro di Aldo Moro: “da una parte l’uomo inserito, che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana, e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo. Perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo”.

Berlinguer ti voglio bene, perché in quella chiacchierata con Giuseppe Bertolucci ritagliai tante piccole storie accadute sul set che trasformarono un film con Roberto Benigni nel manifesto di una generazione.
Ed io, allevato da un operaio e una casalinga al tempo dei misfatti del Pentapartito, me la giocai all’università tanti anni dopo, durante l’esame di Storia Contemporanea. Da dilettante azzardai in quella seduta le orme di una partita scacchi per un confronto di crescita con il compianto Aurelio Lepre, non in qualità di professore della Federico II di Napoli ma di uno dei più grandi storici marxisti del nostro Mezzogiorno.

Berlinguer ti voglio bene, perché la classe politica di questa Seconda Repubblica sembra uscita dal deposito di un burattinaio, confermando il presagio che “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela”.
“Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona”,
canticchiava Gaber sulle note della sua chitarra. E chi non era comunista allora – aggiungerei oggi – era un sognatore, perché Berlinguer era una brava persona.

Berlinguer ti voglio bene, perché le ideologie prima o poi finiscono in pasto al revisionismo, a differenza delle persone che si sono messe di traverso al destino, facendo dei sogni la profezia per avere un mondo più giusto, umano, equo, vivibile, in cui l’essere protagonisti non riguarda una ristretta minoranza.

Caro Paperino, ti scrivo per i tuoi 80 anni…

Rosario PipoloCaro Paperino,
oggi compi 80 anni
e sei l’eroe più ribelle delle storia dei fumetti. Anzi no, sei l’antieroe. Chi nasceva negli anni ’30 sul pianeta Disney era condannato a fare la parte del “buonista”. Per fortuna a Paperopoli  le cose vanno diversamente da Topolinia, la metropoli asfissiata nel cellofan odioso del “va tutto per il meglio”, quando poi non è così. La blusa da marinaio dal bon ton sbarazzino sembra fregata a Braccio di Ferro ma becco e zampe arancioni ti rendono riconoscibile da adulti e bambini.

Chi si cala le brache, denigrando il potere dell’immaginazione, pensa tu sia un papero da bambini; chi invece si alza incazzato ogni santo lunedì, tenta di tenersi alla larga dalla sfiga, è un arruffone e scansafatiche verso i legami affettivi imposti, mastica nevrosi ed è in fuga perenne dello stess metropolitano , sa bene che nessuno è più papero per adulti di te.

Nel giorno del tuo ottantesimo compleanno, invece di finire per strada ammalato e con il bastone, sei ringiovanito. Nel tuo sguardo c’è un so che di  “modernità”, come il tratto della matita di Don Rosa, che mi lasciò una dedica su un albo a fumetti di seconda mano. Se la sfiga che ti accompagna fa ritrovare la tua Paperina con una scatola di cioccolatini scaduti come regalo di anniversario, la generosità che veste il tuo caratterino ti ha concesso la meritata longevità.

Mi hai contagiato con la tua vena polemica e hai riempito con un misurino di inchiostro la mia penna. Non mi sono limitato a rincorrerti nelle classiche storie a fumetti, destinate, con l’avanzare dell’età, a finire impolverate in soffitta. Sei stato per me lo specchio dentro cui riflettere lo squilibrio di follia sovversiva, che schiaffeggia quella che per gli altri è noiosa e insignificante routine.

Sei così pigro che non leggerai questa lettera. Lo so. Io però ho fatto una furbata. Te l’ho riposta sotto il cuscino. La troverai appena ti sveglierai dai tuoi sogni che vanno avanti da ottant’anni, il doppio degli anni della mia generazione.

Divorzio all’italiana 40 anni dopo: lampo o non lampo?

Rosario PipoloIl cinema aiuta la memoria a non rifarsi la tinta ma a mantenere la propria capigliatura brizzolata. Non fa mai male riguardare un vecchio gioiello in bianco e nero come Divorzio all’italiana di Pietro Germi. E’ nitido il riflesso del Belpaese provinciale, dove il bello e il cattivo tempo lo facevano i feudatari della vecchia Democrazia Cristiana, rattoppata nello scudo crociato che in tanti oggi vedono cucito sulla vestaglia di Matteo Renzi.

Quando quaranta anni fa il referendum fece varcare al divorzio la soglia di legge, l’Italia annebiata dai fumogeni degli anni di Piombo visse l’illusione dell’emencipazione nel passaggio dal bigottismo alla laicità. Prima che il divorzio diventasse fenomeno del costume del BelPaese, facendo gola a tutta la ciurma di avvocati che ti spillava quattrini per mettere fine allo sfortunato matrimonio, fu il tempo della dolorosa discriminazione. Se eri un divorziato ti tiravano le pietre e se per giunta eri cattolico dovevi dire addio alla comunione con il benestare delle malelingue.

Oggi viviamo il rovescio della medaglia, tra divorziati e famiglie allargate, nell’Italia modernizzata che si avvia alla legge del divorzio lampo. Manca solo il semaforo verde del Senato e così impiegheremo più tempo a sposarci che per mandare tutto all’aria. Ops, dipende sempre dai punti di vista, perché in tanti casi mandare all’aria un matrimonio significa liberarsi degli orchi cattivi. La generazione dei miei nonni ne sa qualcosa.

Riguardare il film con Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli, prodotto dal lungimirante Franco Cristaldi, aiuterebbe anche i più scettici a fare un passo avanti: qui non si tratta di legge o non legge da “divorzio breve”. E’ semplicemente una questione di buon senso.

 

Backstage di Milano Marathon 2014 nel jumping di Giulio Tolli

Rosario PipoloQuando ritagliavo tramonti sulle spiagge di Montesilvano nella prima vacanza da fresco diplomato, Giulio aveva a malapena quattro anni. Il suo Abruzzo appartiene in parte anche a me, su quel litorale che da Pescara si spinge verso Nord, nelle casette di Manoppello dove era cresciuto mio zio Mimmo o tra le pagine del mio romanzo, pubblicato da un editore di Teramo. La vita è fatta di cerchi concentrici in cui frame di vita di generazioni diverse si sovrappongono.

Io e Giulio Tolli della community degli Instagramers siamo in giro per raccontare la Milano Marathon 2014 in stile social, nella cornice del backstage di un documentario in video. Eppure tra foto postate su Instagram e twittate scattanti nella rincorsa dei rimbalzi febbrili dei social network, restano brevi momenti per soffermarsi nel backstage del nostro privato. Le scorribande universitarie di Giulio ad Ancona mi restituiscono i vagabondaggi nelle mie adorate Marche.

Buttando l’occhio su Instagram e soffermandomi su uno dei tanti jumping fotografici di Giulio mi sembra di riconoscere la mano che lo tiene sospeso nell’aria. E’ quella di Anisa, che nel suo sguardo luminoso raccoglie i contorni dei paesaggi dell’Albania. Io faccio l’impiccione e Giulio sta al gioco. Ripenso al mio viaggio a Tirana, alla generosità degli albanesi sul posto e a tutta quella generazione arrivata in Italia con le tasche dei pantaloni zeppi di sogni.

I runner corrono e i volti si deformano nello spirito di squadra della Staffetta, mentre io e Giulio ci sediamo sul marciapiede della complicità, che va al di là dei ciuffi della nostra capigliatura. Rovistando nel backstage di due generazioni, infatti, troviamo la stessa modalità di accarezzare la vita: una scanzonata leggerezza che fa delle passioni l’involucro delle emozioni per catturare i dettagli, che sfuggono ai frenetici e ai distratti.

Io scatto, Giulio salta, il jumping della Milano Marathon è fatto, proprio sotto il traguardo. Qualcuno avrà pensato che “i salti indiavolati” di Giulio Tolli siano una stravaganza. Quando Giulio scompare per tornare a casa nel suo Abruzzo e, in lontananza il suo ciuffo assomiglia alla cresta scapigliata di Beep Beep, rifletto. I jumping di Giulio invitano le nostre generazioni a  tagliare i traguardi della vita “con le gambe sospese all’aria”, perché con i piedi per terra, come cantava anche Lucio Dalla, “un vincitore vale quanto un vinto”.

Il finto incentivo di 25 mila euro per il matrimonio: sull’altare mi sposo con un Pesce d’Aprile!

Rosario PipoloFino a ieri pensavo che il Pesce d’Aprile più simpatico fosse quello architettato dalla Casa Bianca: Robby, il Presidente Obama in formato kid, che con la sue smorfie alla “Arnold” ha fatto sorridere mezzo mondo. Mi sono ricreduto quando mi hanno segnalato la news di un fantomatico Giornale del Corriere: 25 mila euro di incentivo da parte della Comunità Europea a chi si sarebbe sposato entro il 2015.

Una volta per sposarsi bastava un prete, invece oggi davvero vale il detto della nonna: “Senza soldi non si cantano messe”. La notizia bufala ha fatto venire “la voglia dell’altare” persino agli indecisi, perché il contributo non sarebbe stato malvagio visto i costi esorbitanti di un matrimonio al giorno d’oggi. Ho pensato subito al “mio caro Sud” dove vince il detto “Cumpà, facimme a chi mette ‘a copp!”. In vista delle nozze gli sposini subiscono lo stress dei costi e la minaccia del business gonfiato intorno al “fatidico sì”. Dalle parti mie non provate a far incazzare ristoratori, fotografi, parrucchieri e fioristi che hanno imparato a memoria la solita filastrocca: il giorno più bello per gli sposi si paga.

Venticinque mila euro di incentivo ci farebbero comodi per soddisfare anche il divimo modaiolo dei fioristi, che oggi marciano in passerella e propongono cifre da capogiro per tappeti di fiori che dalla casa della sposa arrivano fino alla chiesa. Bisognerebbe avere il coraggio di dire no a tutto questo tam tam. Non per puntiglio, bensì per la dignità che ci hanno donato i nostri “nonni contadini”.

Il matrimonio felice della contrada, in una cartolina in bianco e nero del Secondo Dopoguerra, con il monello di mio padre e i suoi amichetti che passavano da una festicciola all’altra per mangiare qualche dolcetto. La sposa era bellissima con l’acconciatura fatta dalla vicina; lo sposo era radioso nell’unica foto in posa che veniva scattata; gli invitati erano soddisfatti del banchetto nunziale preparato in casa; la festa era indimenticabile nella cornice dei fiori del giardino tra petali profumati.

Lo scherzo dell’incentivo di 25 mila euro è stato un Pesce d’Aprile utile a farci riflettere. Svendere la magia di un giorno speciale calza la stessa taglia della meschinità.

Tutto il resto è noia: via in fretta da Sanremo 2014 senza né vinti né vincitori

Rosario PipoloAbbiamo smaltito già il colpo basso del televoto del Festival di Sanremo. Neanche più ci ricordiamo chi è arrivato in cima all’Ariston. Non ricordiamo né vinti né vincitori di questo Sanremo 2014, riflesso del Belpaese in una pozzanghera che vorrebbe sotterrare “contro vento” la musica sotto la melma.

Dimenticheremo in fretta le canzoni dei Big – che poi BIG non sono stati – nonostante Spotify e Deezer si facciamo la guerra ai tempi della “musica liquefatta” e isolino la singola canzone dalle compilation sanremesi a cui eravamo abituati ai tempi di cd e vinile.
Dimenticheremo in fretta le canzoni di questo Sanremo che si è ostinato a cercare la bellezza tra la puzza dei vagoni della cronaca, della storia televisiva del Servizio Pubblico, negli sketch noiosi che scimmiottavano i bei tempi del varietà.

“Grazie dei fior” che non abbiamo ricevuto perché anche le rose e le margherite sanremesi sono state epurate dal Festival così come le canzoni che non hanno avuto tempi e spazi giusti. Siamo un paese governato dal giovanilismo di cartone politico e poi all’Ariston i giovani vedono un microfono dopo mezzanotte. Per fortuna le Nuove Proposte hanno energia e spaccano lo schermo.
Dimenticheremo in fretta le canzoni di questo Festival di Sanremo. A far rimbalzare questa volontaria smemoratezza ci sono un inatteso flashmob musicale, la triste notizia della scomparsa del “Grande Joe” del Banco o la poetica ninna nanna di un songwriter americano convertito all’Islam. Salviamo almeno queste tre polaroid.

Dimenticheremo in fretta il rapper, che ha rivestito “la terra dei fuochi” di “terra del sole”, se nel giro di qualche anno il suo pubblico lo trasformerà da ranocchio nel bel principe dei “neomelodici”.
Dimenticheremo in fretta il buonismo o l’acidità social che gironzola sui tacchi a spillo nei giorni festivalieri. Tanti sono convinti che per giudicare una canzone basta essere ciò che non siamo.

Non ci resta che piangere? No, perché Sanremo è Sanremo. E se tutto il resto è noia? Ci siamo fregati con le nostre stesse mani, perché non c’è Franco Califano a cantarci il refrain.

La mia playlist di Sanremo: quando le canzoni possono cambiare la nostra vita

Rosario PipoloGrazie alle canzoni del Festival di Sanremo i nostri nonni hanno canticchiato il Boom del Belpease; i nostri genitori hanno rimpatriato i clamori sessantottini; la mia generazione ha bucato i palloni gonfiati degli anni del riflusso; quella successiva ha lasciato scivolare sui sui social media l’anima canterina in vetta ad un cinguettio. Per molti il palco dell’Ariston è la culla di fenomeni da baraccone; per tanti è la zona franca dove poter tirar giù la playlist musicale della nostra vita.

Una playlist degna di essere menzionata è fatta da una selezione di brani, che mette al tappeto l’euforia del momento. Spesso ricordiamo l’interprete e centrifughiamo la melodia. Raramente inseriamo il significato delle parole nel dizionario della nostra vita.

Nilla Pizzi cantò con Papaveri e papere (1952) il sopruso dei potenti verso i deboli; Mimmo Modugno trasfigurò l’arte di Chagall con Nel blu dipinto di blu (1958), santificata come “Volare” a furor di popolo; Tony Dallara urlò l’irrequietezza di Renato Rascel con Romantica (1960); Pino Donaggio sfoggiò la melodia degli “anni che verranno” con Io che non vivo (senza te) (1965); Don Backy affisse la modernità sul retrogusto classico con L’immensità (1967); Luigi Tenco fu precursore dei tempi dei grandi cantautori con Ciao, amore, ciao (1967); I Delirium di Fossati strapparono il siparietto dei soliti accordi con Jezahel (1972); Lucio Dalla contribuì a stilare un manifesto post ’68 con Piazza Grande (1972); Angela Luce rivestì la canzone classica napoletana con Ipocrisia (1975); Rino Gaetano sfilò via i tabù con Gianna (1978).

Alice sparse incenso dagli aromi di Battiato con Per Elisa (1981); Vasco vomitò il rock grezzo di Vado al Massimo (1982); Lenia Biolcati portò la melodia tra garbo e stile con Grande grande amore (1986), Sergio Caputo mescolò il sound alle falde del Vesuvio con Il Garibaldi innamorato (1987); Luca Barbarossa contò lo stupro con L’amore rubato (1988); Mia Martini rinacque dai graffi di Mimì con Almeno tu nell’universo (1989); Enzo Jannacci indosso i panni del cantastorie con Se me lo dicevi prima (1989); Giorgio Faletti si fece penna di un fatto di cronaca con Signor Tenente (1994); Elio e le storie tese anticiparono l’Italia di questi giorni con la Terra dei cachi (1996); Gli Avion Travel smascherarono la teatralità con Sentimento (2000). Elisa retroilluminò un nuovo stile con Luce (2001), Daniele Silvestri si mise di traverso con Salirò (2002); Tricarico sgretolò quella smisurata compostezza con Vita Tranquilla (2008); Roberto Vecchioni cantò la densità dei sentimenti con Chiamami ancora amore (2011); Samuele Bersani mise in campo la metafora con Un pallone (2012).

Concedersi il privlegio di una playlist sanremese “alternativa” può farci pensare che l’Ariston non sia stato solo il palco dei “trottolino amoroso dudù dadadà”. C’è una zona, lasciata nell’ombra del tempo che getta polvere di stelle, in cui alcuni autori hanno urlato sottovoce piccole rivolte. Il Festival di Sanremo di Fabio Fazio dovrebbe farsi carico dello spessore della memoria musicale. E non sono di certo le Carrà o le Kessler a farlo.