Diario di viaggio: Elia e Rocco, gli angeli custodi del rifugio Longoni che mi fecero alpino
Aveva ragione Albert Camus a scrivere che “anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”. Questo non è stato un viaggio come gli altri. Sono state 30 ore che hanno segnato il mio percorso di viaggiatore. Mi sono tenuto alla larga dalla montagna del trekking turistico, quello che va tanto di moda oggi, imbalsamato nei sorrisi delle foto che raccontano la passeggiatina in un angolo del Trentino o un’abbuffata in una trattoria montana. Di mezzo ci sono le Alpi e per arrivare in cima mi aspettava una prova che non avrei mai pensato di affrontare.
Sono in Valmalenco, in un angolo della Valtellina e si parte da Chiareggio per arrivare fino al rifugio Longoni. Non era il percorso che immaginavo, non era per me, non ero preparato. Le prime tre ore di cammino vanno dal bosco ad una meravigliosa piana dell’alta via della Valmalenco. Perdo il gruppo, ma in compenso avvisto un’aquila. Sono sfinito e mi siedo su un sasso. Incrocio un signore di Lecco con la famiglia.Mi offre una barretta di cioccolato, un mucchio di noci. Prende il mio zaino, mi libera da un grosso peso e lo porta agli altri. Vado avanti, ma gli ostacoli non finiscono mai. L’ultima tratta non è percorribile tra sassi e tanta neve sparsa. Ecco che spunta all’orizzonte un ragazzotto occhialuto. Rocco entra in sintonia con me, mi incoraggia, mi invita a non gettare la spugna. E quando le gambe finiscono intrappolate nella neve, il sangue si ferma, non le sento più, sembro paralizzato. Rocco scava due fosse e mi aiuta a tirarle fuori. Mi accascio sui sassi, con l’ultimo fiato tiriamo avanti come due vecchi amici. Mi sembra di sentire la voce del Villani, il carabiniere della Valmalenco che insegnò al figlio Leo a rispettare la montagna e a scioglierlo in un atto d’amore.
Salgo a carponi su quelle rocce. Non è uno scherzo, sono in cima alle Alpi. Si intravede il tetto del rifugio, ma gli ultimi dieci passi sono sui sassi ghiacciati. Sotto c’è il vuoto. Rocco diventa il mio angelo custode, mi indica di seguire la traccia, di poggiare bene i piedi, faccio l’equilibrista e raggiungo il traguardo. Cosa ci facevo a 2450 metri d’altezza sopra il cielo? Da lì forse non sarei sceso più, sarei rimasto al rifugio Longoni se al ritorno non mi avesse guidato Elia, l’altro angelo custode che mi ha fatto alpino.
Legato ad una corda gli sto dietro, seguo le sue indicazioni in quelli che sono stati i quarantacinque minuti più mozzafiato dei miei vagabondaggi. Cammino sul vuoto, intorno a me ci sono le cime che mi sussurrano il risveglio dell’anima. Elia ci crede, sa che posso farcela. La mia gamba destra non tiene, scivolo verso il burrone. E’ questione di secondi, il precipizio è lì. Elia tira la corda e urla: “Non mollare. Muovi i piedi. La montagna è tua, riprenditela”. Nell’istante in cui mi passano per la testa brutti pensieri, lo spirito della montagna soffia le parole di Karol Wojytila: “Queste montagne suscitano nel cuore il senso dell’infinito, con il desiderio di sollevare la mente verso il sublime”.
Alzo gli occhi verso Elia, mi spingo sopra e risalgo pian piano. Ho il cuore in gola, l’ho scampata. Sono seduto di nuovo con le gambe nel vuoto. La guida alpina del rifugio Longoni mi sorride. Il vento spettina il mio ciuffo brizzolato. Mi alzo in piedi, mi faccio forza, non ho più paura. Guardo avanti e riprendo. Avvisto il sentiero e sento una mano sulla spalla: “Adesso puoi continuare da solo. Vai e non voltarti indietro”. Mi sembra di risentire le parole di mio padre, quando da bambino mi liberò dalla prigionia delle rotelle della bicicletta. Elia Negrini va via, torna nella sua tana. Per alcuni resterà il gestore del rifugio Longoni, per altri il papà di Rocco, per tanti una grande guida alpina. Per me l’angelo custode delle Alpi che mi ha fatto diventare uomo tra le montagne, indicandomi il sentiero per arrivare con serenità ai miei 40 anni, nell’ultimo grande viaggio che chiude il primo ciclo della mia vita.
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