Questo può accadere in una competizione sportiva – il verso dedicato ad Ayrton ce lo rammenta – ma non nella vita, dove i vincitori sono coloro che trasformano il nichilismo della sopravvivenza nello slancio dell’esistenza. Il vero vincitore della Stramilano l’ho visto intorno alle 11.30 dalla sella della mia bici, all’angolo di corso Buenos Aires: era un giovane sulla carrozzella che correva spedito. La forza delle gambe immobili si era riversata nei battiti del suo cuore e i palmi delle mani agguantavano la carrozzella come se fosse il prolungamento del corpo.
Quando il podista si è riversato in direzione di Porta Venezia, non ho avuto neanche il tempo di guardare la sua pettorina per capire chi fosse quel piccolo eroe.
Mi ha convinto che nella vita un “vincitore non vale quanto un vinto,” perché il podista paraplegico è riuscito a riscattare Milano dalle solite tartine stantie degli happy-hour; dai clamori delle passerelle; dai ritmi frenetici del luna park stacanovista, dalla nebbia riversata nei palazzi che non fa più distinguere cosa sia una mazzetta o una tangente; dalla multi-etnicità soffocata negli angoli dei ghetti; dal terrore di chi pensa che occorre possedere tanto per tornare a vivere questa città; dall’orrore degli arruffoni convinti che la matita di un Crepax, un verso della Merini o una canzone di Gaber siano soltanto scolorita memoria. Milano è tornata a correre con “le sue gambe”.
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