Quando sono passato a casa tua a Fairbanks, mi è sembrato di entrare in un luogo fatato e non perché la tua tana scodinzoli gnomi e fatine. E’ magica perché c’è l’anima appassionata e determinata di chi, a mio modesto parere, è diventata senza saperlo uno dei simboli dell’emancipazione femminile americana. Nella tua valigia di cartone di ragazza di provincia venuta in Alaska nel 1965 c’erano i sogni di una donna qualsiasi, pronta a difenderli a denti stretti.
Mentre sorseggiavo il caffè americano guardandoti diritta negli occhi, pensavo che quando sei arrivata in mezzo ai cani da slitta, l’American Dream era già evaporato con i proiettili conficcati a John F. Kennedy e che di lì a poco, dentro il pantano della sanguinosa guerra del Vietnam, sarebbero state confiscate persino le utopie agli americani che avevano riposto fede nelle urla antirazziali di Martin Luther King.
Cara Mary, non è che i tuoi bellissimi cani hanno segreti poteri da “stregoni”? Sono riusciti a farmi vedere davanti agli occhi i momenti cruciali di quella gara, la tua conquista di aver liberato i cani da slitta dal pregiudizio della schiavitù, rendendoli copratogonisti della tua vittoria per la libertà.
La nostra chiacchierata mi ha fatto ritrovare la bellezza di tutte le donne libere come te, libere di pensare e sognare, libere di essere sé stesse, anche quando temi di essere finita tra una banda di bifolchi.
Cara Mary, mi hai fatto felice e quando me ne sono andato, senza fartene accorgere, ho inghiottito il magone della prima e ultima volta insieme alla signora che dall’Alaska schiaffeggiò il becero maschilsmo americano.
Ti voglio bene.
Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita. (William Shakespeare)
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