Questa di Italia-Inghilterra, finale degli Europei 2020, resterà la partita di calcio “più politica” degli ultimi 39 anni. Non è sicuramente l’11 luglio del 1982 della Nazionale di Bearzot campione del mondo in Spagna, ma è l’11 luglio del visionario Mancini e dei suoi ragazzi che hanno castigato gli inglesi nel tempio di Wembley.
L’Inghilterra, dopo aver alzato la cortina di ferro della Brexit, è stata beffeggiata dall’Europa di Ursula von der Leyens sul campo di calcio dove Freddie Mercury cantò The Show Must Go On.
Per noi anglofoni che tradimmo Dante per convertirci a Shakespeare fino alla morte e, dalla fine degli anni ’80, facemmo dell’Inghilterra la nostra seconda patria per viaggio, studio e non solo, ora è il momento di fare un passo indietro: chi osa riconoscersi più nella terra cafona di Boris Johnson tra rampolli di Tory ammuffiti, visioni antiquate delle economie dei dazi, obblighi di visti e passaporti anche per noi italiani dal sudore emigrante?
Non sarà di certo una partita di calcio a cambiare le regole del gioco, ma glorifichiamo la compostezza “democristiana” del nostro Presidente Mattarella – che non è l’esuberanza del partigiano socialista Pertini alla finale di Italia-Germania dell’11 luglio dell’82 – e spazziamo via la muffa dei nuovi influencer Reali di Buckingham Palace William e Kate, le puzzette di baby George, le racchettate di merda d’oltreoceano del debole Harry e dell’arrivista Meghan.
L’11 luglio ci porta bene e, grazie alla promozione degli Azzurri di Mancini a Campioni d’Europa, ci togliamo il sassolino dalla scarpa mentre torna a suonare un vecchio disco di Bennato e della Nannini tra “il vento che accarezza le bandiere e sciogli in un abbraccio la follia”.
Winston Churchill, sbuffando l’inseparabile sigaro da Primo Ministro del Regno Unito, amava ripetere:
Dopo quasi un secolo smentirlo su un campo di calcio equivale a dare una paccata sulla spalla alla storia, canticchiando con orgoglio nazionalista, spesso sbiadito dalla nostra antipatica esterofilia:
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