E così è stato. La profezia si è avverata. Sono qui, nella Napoli “nera a metà”, che nonno Pasquale mi portò a scoprire alla fine degli anni ’70 mentre dai balconi della Bagnoli di allora si udiva la voce del primo Pino Daniele.
A ciascuno una “terra mia”. A me toccò quella alle falde del Vesuvio, dove il blues di Pino Daniele fu tappeto per srotolare dense storie di denuncia attraverso la Napoli appena uscita dal tunnel dello zarismo populista di Achille Lauro.
La mia generazione fu “nera a metà” quando il blues napoletano e il contrappunto melodico del “mascalzone latino” fecero della world music l’apogeo del Mediterraneo; quando le strofe di Pino Daniele trasfigurarono in musica la poesia di Salvatore Di Giacomo e la teatralità del vico di Raffaele Viviani; quando il suo canzoniere ci diede le chiavi dell’inquietudine per raccontare il mondo attraverso gli occhi di Napoli; quando uscimmo sconfitti dalla grande illusione e delusione bassoliniana perché capimmo che i “mille culure” di Napule è… vendemmiavano l’amaro destino della nostra città, abbandonata dagli dei: “Napule è ‘na carta sporca e nisciuno se ne importa e ognuno aspetta a’ ciorta.”
E forse ‘a ciorta è toccata a noi napoletani, popolo condannato a vivere tra speranza, dolore e malinconia, perché altrimenti Dio non avrebbe mandato quaggiù lo scugnizzo Pino Daniele, le cui canzoni resteranno l’unico specchio in cui è riflessa l’intimità della nostra storia contemporanea.
E se si avverasse la profezia apocalittica dell’anziana mendicante conosciuta da studente a piazzale Tecchio – “Guagliò, ‘nu juorne Napule schiatterà sotte ‘a lava d’o Vesuvio” – rinasceremo da sotto la lava del vulcano buono grazie a questi versi che faranno da mantra per riacquistare la memoria: “Chi tene ‘o mare ‘o ssaje porta ‘na croce, chi tene ‘o mare ‘o ssaje nun tene niente.”
Oggi contano solo le lacrime di Napoli, perché noi napoletani abbiamo il pregio di essere carnali e fatalisti strafottenti.
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