Mano a mano che crescevo, vivevo il doloroso distacco da alcune persone che avevano attraversato o sfiorato la mia vita. Il 1 e il 2 novembre me ne andavo da solo a visitare le loro tombe e condividevo i miei pensieri con ciascuno, sperando che non si riducesse tutto ad una lapide, ma che altrove ci fosse uno spazio che accogliesse lo spirito dei miei cari.
Mi importava poco di ciò che dicevano ai miei genitori: “Un ragazzetto non dovrebbe andarsene a zonzo in un cimitero”. Qualcuno sospettò che mi mettessi a caccia di fantasmi. Una volta, il 2 novembre ritardai l’uscita, perché capitai in un lato del camposanto a me ignoto. Non c’era più luce del sole, neanche le lapidi si distinguevano. Per un attimo ebbi paura. Lo sguardo si posò sull’immagine di un mio coetano, scomparso prematuramente.
La paura scemò appena notai che non vedevo più gli ornamenti sfarzosi dei sepolcri o le cappelle bunker, che evocavano stupidamente l’atteggiamento classista dinanzi alla morte.
Ad illuminare la strada verso l’uscita furono tutti quei lumini, che mi restituirono la sobrietà della morte, calpestando la volgarità e il folclore umano. Da allora i morti non mi fanno più paura e mi lasciano indifferente i vivi che strascicano l’arte dell’apparire oltre la soglia del camposanto.
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