Non essere africano significa aver vissuto i traumi dello zoo e del circo. Sì, oggi dico “trauma” perché, finché non li osservi nei loro habitat naturale, non puoi capire cosa hanno dentro. Non è questione di essere animalista sfegatato o non, è questione di prendere coscienza della loro anima.
Ti segna osservare da vicino una ciurma di elefanti passeggiare, raccogliere nella lentezza dei loro movimenti il senso della vita, oltre la buffa proboscite che ci aveva conquistato guardando Dumbo della Disney negli anni della nostra infanzia.
Quando di sbieco vedi l’elefantino inciampare e non riuscire a rialzarsi, sei abbagliato dalla bellezza suprema della maternità. Resta una delle sequenze più emozionanti di questo mio on the road sulla Garden Route la cucitura di istanti in cui mamma Elefante fa di tutto per aiutare il suo cucciolo.
Thandi e il suo piccolo grande mondo di elefanti hanno ancora tanto da insegnare a noi uomini assuefatti dalla ferocia. Ci sono gesti, come quello di una mamma che fa rialzare il proprio figlio, che non sono rimasugli degli animali addomesticati di un circo.
In quella parte del Sudafrica ho ascoltato la voce di una natura così armoniosa e di Dio capace di aver fatto dell’amore l’unico senso alla nostra vita.
E ricorda… un elefante non dimentica niente. (R. Kipling)
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