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La domenica, l’arbitro e il bambino

Foto di Antonio D'Alessandro

Foto di Antonio D’Alessandro

Rosario PipoloLa mia prima stagione calcistica fu quella 1977-1978. Ero seduto sugli spalti di uno stadio di periferia in una domenica pomeriggio. Agli occhi dei tifosi apparivo come un bimbo strano. Non tifavo per nessuna delle due squadre in campo, ma per l’arbitro.

Il ragazzotto baffuto sulla ventina andava sù e giù per il campo, fischietto alla mano, maglietta e pantaloncino nero. Appena era a pochi metri da me, non perdeva l’occasione per farmi l’occhiolino. I tifosi capirono che tra me e l’arbitro c’era un rapporto di complicità. Al termine della partita, mi spiegarono che l’arbitro sarebbe uscito da tutt’altra parte.
Gli andammo incontro mentre lo scortarono fuori dallo stadio. Appena mi vide, non mancò all’appuntamento: tirò fuori dalla sacca un piccolo snack e l’aranciata in una confezione speciale per la federazione e me li cedette come sempre.

Quella domenica ci fu un premio aggiuntivo. Il mio primo viaggio con l’arbitro. Salimmo sul treno e ci sedemmo. Mi sbottonò il montgomery marroncino e mi aprì l’aranciata. Mentre la sorseggiavo, lui accese una radiolina per ascoltare i risultati delle altre partite. Tirò fuori un taccuino per appuntare.
Poi mi fece divertire scendendo le scale mobili della metropolitana. Ci infilammo nelle gallerie ma quella volta non eravamo all’Edenlandia. Pensando che l’arbitro era diventato papà a vent’anni, scaravento nel tempo i versi di una canzone di oggi: “Un giorno ti dirò che ho rinunciato alla mia felicità per te; un giorno mi dirai che un padre non deve piangere mai”.

Usciti dalla metropolitana, io e l’arbitro attraversammo mano nella mano viale Cavalleggeri d’Aosta. Non c’era nessuno per strada, all’orizzonte, in direzione del mare di Coroglio, gli ultimi fili di luce. Fu la prima volta che lo chiamai per nome, io che lo aveva titolato “zio” con la mia nascita e lui fu il più giovane della famiglia ad esserlo.

Non ho mai creduto nei rapporti di parentela. I parenti sono un’imposizione sociale dell’umanità di cui mi sono disfatto nelle piccole rivoluzioni cosmiche. Credo nei legami che ciascuno di noi costruisce singolarmente con l’altro.

Io e l’arbitro mano nella mano per quarantadue anni, nell’istante di una domenica, nella conquista dell’attimo che ricomincia. Accade ancora oggi che nuota nel mare di Coroglio, alla ricerca del suo canotto a remi ormeggiato a largo del’isolotto di Nisida. Finché il buio non ci separi.

L’11 luglio della Spagna campione: “Nonno, adesso non ci prendono più!”

Le date tornano e i calendari fanno i loro giri. L’11 luglio del 1982 l’Italia di Bearzot vinceva il Mondiale in Spagna. L’11 luglio di 28 anni dopo la nostra Nazionale consegna la sua coppa del mondo alla Spagna, per la prima volta campione del mondo. La furia rossa è entrata nella storia del calcio e adesso è giusto che questa fiesta vada avanti senza sosta, da Madrid a Barcellona.

Eppure quell’11 luglio era anche il mio primo Mondiale, stavo per spegnere nove candeline. Quando Alessandro Altobelli tirò dentro la porta della Germania il terzo goal, mi colpì il sussulto del Presidente della Repubblica Sandro Pertini: “Adesso non ci prendono più”. Nonno Pasquale mi abbracciò e mi prese in braccio, dicendomi: “Nel campo come nella vita è tutto un gioco fatto di rigori, punizioni, illusioni, sconfitte, vittorie, calci d’angolo”. Poi aggiunse: “Vedrai che quando tuo zio Massimo arbitrerà a livello internazionale, altro che una confezione di Orangina, ti porterà sul quel campo assieme a lui”. Poi arrivò il fischio finale e fu una grande festa.

Eravamo in vacanza a Fondi, in provincia di Latina. Nonno mi aveva regalato una bandiera a misura di bambino, plastificata, acquistata nell’unico bazar della zona: Peticone. Eravamo in aperta campagna. Mi prese per mano e corremmo giù, attraversammo i campi, ci nascondemmo per fare uno scherzo agli altri. Fu allora che mi ricordai della frase del Presidente e gridai: “Nonno, adesso non ci prenderanno più”. In quell’urlo c’era l’illusione infantile che nessuno ci avrebbe separati mai, che avrei condiviso con lui chissà quante cose ancora.

Da allora mi ostino a seguire ogni Campionato di Calcio, nonostante sia uno sportivo distratto perché dietro quel pallone i ricordi diventano più lucidi, costanti. Chi non ha memoria è solo un “morto vivente”. Ieri, dopo la vittoria della Spagna, a casa mia è tornata ad essere domenica. Il Dolby surround sparava al massimo l’euforia dei tifosi ed io sono corso alla finestra con una consapevolezza. Il Mondiale è un momento di condivisione, fatto di incontri, di persone che ritornano per farci ritrovare l’essenza della condivisione.