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Cartolina da Bahia de Todos os Santos: non tutte le “rapine” riescono con il buco

Su un barcone hai alle spalle Salvador tra gli ambulanti che ti danno una bottiglietta d’acqua per pochi real e il vocio dei bambini che si incantano davanti all’oceano: navigare la Bahia de Todos os Santos in Brasile ti riporta ai tempi dello sbarco dei portoghesi, quando il colonialismo con la scusa di portare progresso divorò le civiltà di questi luoghi.

Il tragitto fino a Morro de Sao Paulo, una delle isole più assalite dai turisti di Bahia, può superare le due ore. Ho il tempo per fare amicizia con Cata, insegnante cilena di inglese trasferitasi a Rio de Janeiro. Cata mi riporta ai miei giorni a Santiagio, al mio viaggio della memoria nel Cile dei Desaparecidos e alla profonda convinzione, maturata in giro per il mondo, che solo i viaggi possono farti toccare con mano le barriere ostili alzate dai regimi.
Io e la giovane insegnante cilena mettiamo sul piatto le esperienze di vita di generazioni diverse, le frulliamo e mescoliamo quei sogni comuni che ti farebbero superare qualsiasi ostacolo nella vita.

A Morro de Sao Paulo mi ritaglio il tempo per un fritto di gamberi e una capirinha con vista sulla spiaggia per poi andarmene a zonzo alla ricerca di scorci segreti, lontani dai turisti che attirano il sole per l’abbronzatura. Il vero cuore dell’isolotto è la parte dove abita la gente del posto, pacifica. Ci sono salite e discese, strettoie che fanno gola agli amanti del trekking, panorami fatti da collane di insenature.

Da lì non si avvista l’Ilha dos Frades, la vera meraviglia di Bahia che avrei visitato nei giorni successivi. Ci vogliono quattro ore su un catamarano per raggiungere quest’ultima da Salvador: l’acqua qui è così limpida che, grazie ai giochi di luce della sabbia, sembra di aver trovato un tesoretto. L’ilha dos Frades è semideserta e i ragazzi sul pontile, che mi indicano la scorciatoia per oltrepassare la scogliera, mi ricordano che siamo in bassa stagione.
Pousade e ristoranti chiusi mi fanno rinascere nel giro di una mattinata con il temperamento di Robinson Crusoe. L’incanto della passeggiata solitaria ti fa ritrovare te stesso distante dai luoghi comuni di chi lo ripete e poi, sotto lo schiaffo del rientro alla routine, lo rinnega con disinvoltura.

Itaparica invece resta una miniatura di Salvador in versione isolana. La attraverso su e giù in un paio d’ore di autobus, incantato dai suo sbalzi di vegetazione brasiliana tra zolle di foresta tropicale, gli ambulanti che vendono cocco e mango, case periferiche sparse lungo l’isola le cui finestre sono racconti sospesi di quotidianità. Poi finisco a mangiare in un ristorante alla buona accampato sulla spiaggia: un buffet, una birra ghiacciata, quattro chiacchiere con alcuni europei e poi all’uscita quattro passi sulla spiaggia.
La zona è isolata, a pochi metri da me ci sono due sbarbatelli ventenni che parlano in riva al mare. In Brasile mai abbassare la guardia, il pericolo sbuca quando meno te lo aspetti. Si avvicinano, farfugliano qualcosa in portoghese, faccio finta di non capire, vogliono derubarmi. Li guardo dalla testa ai piedi, indossano soltanto il costume, non hanno armi e non c’è nessuno che  faccia loro da “palo”, le case sono lontane. L’istinto mi suggerisce di pronunciare “Napoli”, la mia città natale,  e fare un gestaccio come per dire “non mi hanno fregato nella terra mia, vuoi vedere che adesso…”

Metto lo sgambetto, cadono a terra e io corro sulla spiaggia. La security fuori il ristorante nota la scena e si attiva. I due ragazzotti intanto se la sono già date a gambe perché, come sostengono due buttafuori, ci provano comunque. L’episodio increscioso non mi rovina lo spettacolare tramonto in barca sulla via del ritorno.

Cartolina da Salvador de Bahia: il Brasile dalla finestra della pousada del cugino Giovanni

Dalla finestra della pousada Suites do Pelo intravedo i colori di Salvador de Bahia: mi sento a casa. Giovanni, il proprietario della mia pousada preferita in Brasile, ha lo stesso cognome mio. Il papà era emigrato in Sudamerica da Salerno dopo il secondo Dopoguerra con un mucchio di sogni in groppa.
Io e Giovanni condividiamo le nostre storie private, è scintilla al di là del cognome Pipolo che ci spartiamo.  Ci inventiamo “una cuginanza” italo-brasiliana e quando gli altri ce lo chiedono, sorridendo sotto i baffi, noi riconosciamo una lontana parentela. Giovanni fa gli onori di un cugino maggiore e mi dà consigli utili, perché sa che degli itinerari dei turisti non me frega niente.

La mia perlustrazione di Salvador comincia con una scarpinata fino a giù a Barroquinha, dove di turisti non c’è neanche l’ombra. Gli occhi sempre aperti, mi raccomanda il parroco della chiesa della zona, perché i pericoli a Salvador ci sono, soprattuto quando dopo il tramonto le strade di quest’area si svuotano. Mi guardo intorno tra i meravigliosi edifici fatiscenti, le corriere piene di ragazzi al ritorno da scuola, scolandomi una bottiglia d’acqua gelata presa in una bottega che assomiglia ai rivenditori di bibite della mia Napoli.

Sì, Salvador ha tanti tratti comuni alla città che  mi ha dato i natali: mi arrampico tra le viuzze del Pelourinho, il centro storico della capitale di Bahia, e mi sembra di essere finito nei vicoli dei Quartieri Spagnoli di Napoli.  Le facciate colorate delle case si mescolano all’architettura delle chiese, i suoni degli artigiani che fabbricano gli strumenti musicali di Bahia si sciolgono nel vocio della gente, i dipinti degli artisti locali riflettono i colori del cielo, delle nuvole, del tetto che sovrasta Salvador.

Mi fermo nella casa di Jorge Amado e penso che, forse se non avessi letto e amato i suoi romanzi, neanche sarei qui. Assaggio la cucina locale nei ristorantini nascosti dove talvolta la voce e le note di un cantante mi riportano alla musica meticcia di Bahia, quella fatta dall’impasto nero, bianco e indios. Resto ore e ore in un negozietto di musica di Praça da Sè e mi chiedo come farò a portarmi tutti questi chili di musica fatti di cd, vinili, copertine prima che il digitale ci stordisse con i suoi bit e la liquefazione. Del resto Bahia è la terra di Caetano, Gilberto, Maria Bethania e forse senza le loro canzoni non sarei arrivato fin qui.

Prendo l’ascensore panoramico, bighellono sul porto, converso con gli artigiani del vecchio mercato, mi infilo in un autobus pubblico, attraverso Salvador per decine di chilometri, mi passa per un attimo la sottile paura che possa accadermi qualcosa. Sono a ridosso della spiaggia di Rio Vermelho in un sabato pomeriggio tra locali, la brezza, un buon piatto di carne che mi viene servito con gli occhi puntati sull’oceano, le cui onde travolgenti non risparmierebbero gli incauti naviganti.
Poi mi incammino verso Barra, l’altra spiaggia cittadina, mentre uno dei soliti acquazzoni di passaggio mi inonda e mi fa sentire parte dell’oceano. A Barra c’è un faro che solfeggia l’anima del romanzo di Virginia Woolf, le nuvole si mescolano con i colori di un tramonto pazzesco, lo struscio degli innamorati mano nella mano, il cocco venduto dagli ambulanti, mi sembra di esserci nato a Salvador.

Quattro giorni volano a Salvador e in quella pousada Suites do Pelo ci ho fatto la mia seconda casa con l’aiuto di Luciano, Daniele, Paulo e Anderson, i ragazzi che lavorano lì. Quando Giovanni mi riporta in aeroporto nel buio della notte, gli dico che un giorno dovrò ritornarci, magari con la mia futura moglie e i figli che verranno perché su una cosa insisto: noi viaggiatori abbiamo un mattone di una casa in ogni città in cui vi abbiamo lasciato l’anima.

Giovanni mi saluta regalandomi a sorpresa un suo vecchio vinile di Caetano Veloso. Il gesto mi commuove e da quel momento a chiunque mi avrebbe chiesto il perché di questo viaggio in Brasile, avrei risposto bonariamente “per mettermi alla ricerca del cugino italo-brasiliano”. Dopo i litri di musica e i chili di letteratura che mi hanno spinto fino a Salvador, da oggi c’è un amico: “mio cugino” Giovanni Pipolo.