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Cartolina da Varanasi: sul sacro Gange ho sentito le sue mani tra vita e morte

Rahul mi accompagna nel mio alloggio che affaccia sul Gange. Sono arrivato a Varanasi dopo una nottata di treno.  Indicandomi la scrivania, mi fa cenno come per dire “le sarà utile per scrivere”.
La mia vicina è Amita, figlia di una coppia indiana trasferitasi a Londra. Chiacchieriamo, le racconto del mio on the road in India e lei del ritorno al suo Paese d’origine.

Prima del tramonto, l’autista mi porta dal barcaiolo. Gli ultimi scorci di sole, in un tramonto di pastelli  che non potrò cancellare, accompagnano la mia navigazione sul Gange. Tra una remata  e l’altra sento in lontananza i canti provenienti dal Dasaswamedh Ghat che tutte le sere mettono a letto il fiume sacro dell’India.

Scende la sera, di fronte a me lampeggiano dei falò incandescenti. La barca si accosta alla riva, all’altezza del gath della cremazione. I corpi vengono bruciati, il tanfo di cadavere si mischia ad uno strano odore che non saprei descrivere. Un branco di cani mette la testa nel Gange all’altezza dei corpi bruciati. Tre grosse mucche si spostano lentamente avanti e indietro.

La foschia del fiume avvolge il bagliore del fuoco. Faccio cenno al barcaiolo di riprendere a remare. Sono sconvolto. Comincio a pensare intensamente a lei, perchè perdere la tua migliore amica quarantenne è l’affronto peggiore che il dolore possa farti.
Mi alzo in piedi sulla barca, lancio nel Gange una coroncina di fiori con una fiammella accesa. Man mano che il cuscino di fiori si allontana, sento due mani sulle spalle. Le riconosco, sono le sue.

Provo a voltarmi indietro, le sue mani bloccano il mio capo come per dire non girarti, non serve, “sono qui, ti aspettavo, sapevo che saresti venuto perché questo viaggio lo hai fatto anche per me”. Singhiozzo, si appannano gli occhiali e le sue mani arrivano all’altezza dei miei occhi, provando ad asciugare la colata delle mie lacrime.

Quella notte mi butto giù dal letto per riaffacciarmi sul fiume Gange dal mio balcone. Avevo capito che non avevo sognato, perchè i morti ci restano accanto per sempre.
Nel silenzio di quella notte di dicembre mi è stato svelato il motivo di questo viaggio: ritrovarla sulle acque del fiume sacro dell’India senza tempo.

 

Chi ha un vero amico, non ha bisogno di uno specchio. (Proverbio indù)

Cartolina dalla Barcolona 2015: nella bora io posso sognare la vela di Isabelle

barcolana_2015_trieste

Rosario PipoloPer me la bora era confinata tra le suggestioni letterarie e cinematografiche. Perlomeno fino al mio ultimo ritorno a Trieste, che mi ha accolto con le carezze convulse di questo vento catabadico.

Nel sabato precedente al “dì di festa” della Barcolana, la storica regata che da 47 anni rende Trieste la culla internazionale delle vele, è stata la bora il direttore d’orchestra. Travolto da questo dondolio sfrecciante del vento mi sentivo come Mary Poppins, mentre i triestini mi rassicuravano sguinzagliando aneddoti sulla convivenza ventilata.

Trieste mi regala da sempre suggestioni, ispirazioni, incontri in un crocevia di culture: Emanuela e Sonia mi inondano di triestinità; Angela mi riporta ai miei reportage in Polonia alla ricerca delle tracce di Wojtyla e Walesa; Isabelle mi ricongiunge ad un pezzetto della mia famiglia che vive nel Sud della Francia.

Fuori soffia la bora, dentro si condividono piccole storie, come quella di Isabelle, velista vestita dalla semplicità, perchè i veri sportivi delle onde del mare schiacciano l’odioso divismo. La salsedine del mare triestino mischiata alla bora stropiccia la nostalgia per le passeggiate sulla spiaggia di Coroglio a Napoli. Così tento di spiegare a Isabelle uno slang partenopeo ereditato da nonno Pasquale.

Poco dopo la mezzanotte attraverso il salotto scapigliato di piazza Unità d’Italia. La bora è fortissima, all’altezza di Canal Grande, mi scaraventa contro la statua del mio amato Joyce. Mi tengo stretto, i ricordi della vita privata si mescolano a quelli lavorativi: in lontananza il mare agitato mi illumina.
La velista franco-tedesca, con cui avevo condiviso la vigilia della Barcolana, era la famosa Isabelle Joschke, “la Solitaire, une école de l’humilité” che appariva così in uno dei titoli del quotidiano Le Monde.

E’ come se la bora avesse strappato a Hugo Pratt la matita con cui creò Corto Maltese per disegnare nuovi paesaggi, uno sconfinato scenario di viaggio. L’indomani la bora è destinata ad assopirsi e il mare di Trieste a raccogliere le 1.667 vele della Barcolana. Io resto qui, perchè nella bora posso sognare la vela di Isabelle.

La profezia del “Titanic” di De Gregori nella tragedia del barcone in fiamme a Lampedusa

Un disegno di Maurio Biani

Rosario PipoloChissà se tutte le imbarcazioni chic che la scorsa estate ciondolovano nel mare della Sicilia avrebbero fatto a gara per prestare soccorso allo yacht di un sultano che andava in fiamme. E’ quasi sicuro che la signora in topless avrebbe interrotto la sua tintarella per raccattare un binocolo e capire cosa stava accadendo al panfilo da un milione di dollari. Chiedere aiuto, lanciare un SOS è un diritto di ognuno e soccorrere è un dovere inespugnabile in un Paese civile.

Francesco De Gregori in un memorabile brano, Titanic, cantava la volgarità classista e tornava a metterci la pulce nell’orecchio: “La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento”. Per “la terza classe”, a cui appartengono quei disgraziati che sono morti ieri sull’imbarcazione in fiamme a largo di Lampedusa, rettificherei in “rabbia, dolore e spavento”. Ce lo ha ricordato il commento di ieri di Papa Francesco – “Viene la parola vergogna: è una vergogna” – in visita lo scorso luglio proprio a Lampedusa, per commemorare anche i tanti migranti morti durante le traversate.

Il mancato soccorso da parte di chi c’era ed ha fatto finta di non vedere non si estingue questa volta nella solita indignazione da copertina di rotocalco: siamo sì o no un Paese razzista? “A noi cafoni ci hanno sempre chiamato”, continuava a cantare De Gregori. Non si tratta di puntare il dito contro i pescherecci che erano nei paraggi. Piuttosto di capire quanto poco abbiano fatto i Governi che si sono alternati in Italia negli ultimi venti anni, per tutelare coloro che restano vittime innocenti nei flussi di migrazione dalle coste nordafricane. Ha tutto il diritto di urlare Giusi Nicolini, Sindaco di Lampedusa, e ribadire: “Questi uomini, queste donne e questi bambini non sono clandestini, ma profughi”. L’Unione Europea, che fa finta di guardare dall’altra parte, si assuma le sue responsabilità. Chi glielo ha messo tra le mani il Premio Nobel per la Pace?

“Su questo mare nero come il petrolio ad ammirare questa luna metallo” c’erano donne incinte che portavano in grembo con orgolgio le loro bimbe. Non volevano per loro un futuro da “Cenerentola”, ma le custodivano nel pancione come in un castello, affinché in una nuova terra incontrassero chi le avrebbe fatte diventare delle principesse, rispettando la loro dignità di esseri umani.

“Per noi ragazzi di terza classe che per non morire si va in America”. Ahimé, si va in Italia, per morire e non per ricominciare. Oggi lutto nazionale. Ficchiamocelo bene in testa però. I due minuti di silenzio non bastano.