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Diario di viaggio: #Pooh50 nel selfie d’amore di Giovanni e Antonella della Basilicata

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Rosario PipoloIl concerto della Reunion dei Pooh allo stadio San Siro di Milano può essere custodito nelle parole di Roby Facchinetti: “Vorremmo che la nostra musica continuasse a vivere al di là di noi”. Giovanni e Antonella, classe anni ’90, venuti dalla lontana Basilicata, testimoniano quanto sia vero che le canzoni prendano per i capelli generazioni diverse per farle diventare “strumenti della stessa sinfonia”.

Nel selfie scattato a San Siro da Giovanni sotto la pioggia di coriandoli, sull’ultimo brano dei Pooh,  ci sono tracce della loro tenera storia d’amore da ventenni: lei accompagnò un’amica a Corleto Perticara, nel potentino, e tra i due scoccò la scintilla. Da cinque anni sono inseparabili, fanno quasi 40 chilometiri in auto tutti giorni per stare insieme, lavorano sodo e mettono da parte i soldi per viaggiare e attraversare l’Italia a caccia di concerti da condividere.
Giovanni mi racconta di quando suo padre lo teneva in braccio ai concerti; Antonella conferma il segreto che annaffia le radici della vita: Viaggi, libri, musica, sono la benzina del motore della nostra esistenza”.

Li ritrovo seduti accanto a me, condivido con entrambi questo viaggio musicale, scacciando il luogo comune che vorrebbe la Millennial Generation lontana anni luce da gusti musicali di genitori o nonni: Chi era a ripetere questa filastrocca?
I tempi cambiano. Al concerto dei primi 25 anni dei Pooh rassicurai mia mamma infilando un gettone in una cabina telefonica; nel live del cinquantesimo Antonella tira fuori lo smartphone, aggiorna la mamma via Skype e le mostra la festa di San Siro come per dire che ne è valsa la pena fare tutti questi chilometri.

Quando Roby, Riccardo, Dodi, Red e Stefano cantano Chi fermerà la musica mi rivedo attaccato alla gonnella di mamma. Giovanni non era nato. Quando cantano Uomini soli  ritrovo i segni della mia adolescenza e del tragitto verso la maturità, ma Antonella non era ancora in cantiere allora.
Ci ricongiungiamo sui brani più recenti, strizzando la distanza anagrafica perchè un concerto sa come mettersi di traverso al tempo, farneticando tra sogni senza età.

“Domani… ci inventeremo che cosa faremo da grandi, domani…” canteranno un dì Giovanni e Antonella ai loro figli, penso tra me e me mentre loro sono già su un volo di ritorno verso la Basilicata. Chissà cosa penseranno tutti i lucani che li leggeranno da protagonisti di questo diario di viaggio, a tratti sfacciatamente sentimentale.

“Domani… forse sognare è un difetto ma chi lo conosce il domani”, canto io oggi da quarantenne mentre Pino, il papà di Giovanni, sta arrivando a Roma per il concerto all’Olimpico di stasera. Sono storie di vita allacciate alla cintura delle canzoni. Conserviamole con cura, senza sgualcirle.

Fottuto “cuore” ci porti via Mango, gran bella voce della musica italiana

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Rosario PipoloLa notizia di Mango stroncato da un infarto mi è apparsa come uno scherzo di cattivo gusto. Non volevo crederci. Forse ha ragione Enrico Ruggeri a tuonare dalla sua pagina Facebook: “Ora leggo belle frasi da giornalisti che non andavano da anni a un suo concerto, radio che non passavano le sue nuove canzoni e discografici che non avevano più voglia di investire su di lui”. Parto proprio da questo misto di dolore e rabbia.

Giuseppe Mango, una delle vocalità più interessanti del panorama musicale italiano, è rimasto l’outsider per eccellenza al tempo in cui la musica si è liquefatta e Lei verrà, che fece fare un botto di soldi ai potenti della Fonit Cetra, conserva nel suo isolamento musicale i canoni della ballata pop che si veste di world music.

Ho conosciuto Mango al Festival di Sanremo del 2007. Ci incrociammo per strada e mi restò impressa questa sua dichiarazione: “Devo molto al palco dell’Ariston. Penso che chi faccia il mio mestiere debba tenersi alla larga da ogni forma di snobismo”. In questo Mango aveva proprio la veracità dei lucani che sanno apprezzare le occasioni della vita. Mango si era portato con sé la Basilicata, proprio in quella vocalità capace di smuovere i sassi di Matera per fare della sperimentazione il punto di congiuntura con la voce che si fa strumento.

Detesto i famigerati “coccodrilli”, che fanno a volte di noi giornalisti, allevati nello spettacolo, dei viscidi avvoltoi. Lo tiravi fuori appena giungeva in redazione la triste notizia e ti affidavi a parole surgelate piuttosto che a riflessioni postume. Nel caso di Pino Mango il “coccodrillo” è stato utile a tutta quella ciurma, a cui Ruggeri in parte faceva riferimento, che lo ha dimenticato strada facendo.

Pino Mango non ha bisogno del rimorso post-mortem che scatta tra gli addetti ai lavori. Le dimenticanze si pagano e a caro prezzo. Perciò è giusto che le sue canzoni ora stiano alla larga dalle penne avvelenate dei giornalisti, dai microfoni delle radio distratte o dagli elogi funebri dei discografici che prima o poi ti lasciano crepare nella fossa dei leoni.

Le canzoni passano in eredità al pubblico che lo ha amato, che ha colto la spiritualità dietro la sua maniera di fare il musica, che ha legato gioie e dolori del privato ai versi di Mediterraneo, Oro, La rondine o agli atti di generosità come Io nascerò per la Goggi.

E pensare che Pino Mango il suo testamento lo aveva filato nei versi di questa poesiola musicata: “Nella mia città c’è una casa bianca con un glicine in fiore che sale, sale, sale su. Sulla mia città c’è un cielo grande che ti spalanca il cuore e non ti delude mai”. Ed è proprio in direzione di tale città che ricomincia il suo nuovo viaggio. Ci mancherà.