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Diario di viaggio: In silenzio con PierPaolo Pasolini

Rosario PipoloOstia me la ricordavo in bianco e nero. Saranno stati tutti quei film italiani girati lungo il litorale ostiense a partire dagli anni ’50. Ostia è a colori invece, anche se dal pontile del lido Plinius vedo la stessa spiaggia di “Una domenica di agosto” di Luciano Emmer: le facce della borgata romane sono cambiate, lo spirito è quello. Le lambrette che arrivavano lì dal centro di Roma sono una foto ingiallita così come i juke-box che sparavano ad alto volume le canzoni di Califano.

Il caffè è rimasto lo stesso. Al bar me lo servono in un bicchierino di plastica perchè, come mi spiega Eva, “er romano vero” lo sorseggia in riva al mare. L’accento colorito della cantante di jazz tra i locali della capitale mi fa ricordare che devo spingermi oltre il mare dell ‘Idroscalo. Ci sono i ragazzi delle borgate che seguono la traiettoria del pallone; le case popolari; gli anziani su una panchina; le aiuole abbandonate, senza neanche un fiore sopravvissuto. Io cerco altro. È lì, in mezzo alla desolazione dell‘Idroscalo, lungo uno stradone che sembra non finire mai. C’è un una scultura che ci rinfaccia le contraddizioni della memoria. Impugno con rabbia il cancello che mi separa da quella zolla di terra, che raccolse il corpo trucidato di PierPaolo Pasolini.

Ci sono pochi modi per dare un significato profondo ad un viaggio disorganizzato. Tornare ad essere noi stessi e rimetterci alla ricerca della nostra coscienza civile, sputando fuori i rospi che ci hanno fatto ingoiare. Ostia me la ricordavo in bianco e nero. Adesso so per certo che è a colori.

Roma e l’addio al suo Califfo: “Tutto il resto è noia.”

Rosario Pipolo“Ciao, Franco. Ora senza te, tutto il resto è noia” non ha l’aria del solito striscione di un concerto allo stadio. E’ l’epigrafe che la borgata romana dedica al suo cantore, Franco Califano, con un vezzo da balera che mischia l’esistenzialismo di un Moravia agli eroi della borgata pasoliniana.

Franco Califano è stato la controindicazione della voce nazional-popolare degli anni ‘70 o l’anti-divo della discografia italiana d’autore, con la spavalderia di un teddy boy della Fontana di Trevi. Dicevano che nella vita privata il Califfo ancheggiava tra la fama di sciupafemmine e quella di legami con brutti ceffi, per giunta dalla “sniffata” facile. Sul palco, dietro gli occhiali scuri, diventava il neomelodico da fotoromanzi popolari con la romanità sotto la lingua, capace di sciogliere il cuore di chi popolava il quartiere.

Nonostante ciò, senza falsi moralismi né intellettualismi sofisticati, il Califfo aveva preferito legare la sua storia privata e pubblica a quella dei farabutti da borgata, i quali nell’urlo “maledetta noia” si erano fatti traduttori dell’esistenzialismo. “Tutto il resto è noia” non è un vecchio brano dimenticato in cantina ma il manifesto di uno stato d’animo che può far sprofondare la vittima negli abissi.

Esistere vuol dire anche osare per rincorrere le vittorie e le sconfitte dei giorni fugaci. Franco Califano intraprese più di quaranta anni fa una crociata contro quella “maledetta noia”. Si è dovuto ricredere chi lo accusava di nascondersi dentro un paio di occhiali scuri. La borgata romana però è andata oltre l’irrisoria apparenza. Il Califfo li metteva per capire di che forma fosse fatto il cuore del suo pubblico, che non lo hai mai lasciato solo, neanche quando la solitudine ha tentato di divorarlo e farlo a pezzetti.

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