Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

L’Inghilterra della Brexit battuta ai rigori dall’Italia europeista

Questa di Italia-Inghilterra, finale degli Europei 2020, resterà la partita di calcio “più politica” degli ultimi 39 anni. Non è sicuramente l’11 luglio del 1982 della Nazionale di Bearzot campione del mondo in Spagna, ma è l’11 luglio del visionario Mancini e dei suoi ragazzi che hanno castigato gli inglesi nel tempio di Wembley.

L’Inghilterra, dopo aver alzato la cortina di ferro della Brexit, è stata beffeggiata dall’Europa di Ursula von der Leyens sul campo di calcio dove Freddie Mercury cantò The Show Must Go On.
Per noi anglofoni che tradimmo Dante per convertirci a Shakespeare fino alla morte e, dalla fine degli anni ’80, facemmo dell’Inghilterra la nostra seconda patria per viaggio, studio e non solo, ora è il momento di fare un passo indietro: chi osa riconoscersi più nella terra cafona di Boris Johnson tra rampolli di Tory ammuffiti, visioni antiquate delle economie dei dazi, obblighi di visti e passaporti anche per noi italiani dal sudore emigrante?

Non sarà di certo una partita di calcio a cambiare le regole del gioco, ma glorifichiamo la compostezza “democristiana” del nostro Presidente Mattarella – che non è l’esuberanza del partigiano socialista Pertini alla finale di Italia-Germania dell’11 luglio dell’82 – e spazziamo via la muffa dei nuovi influencer Reali di Buckingham Palace William e Kate, le puzzette di baby George, le racchettate di merda d’oltreoceano del debole Harry e dell’arrivista Meghan.

L’11 luglio ci porta bene e, grazie alla promozione degli Azzurri di Mancini a Campioni d’Europa, ci togliamo il sassolino dalla scarpa mentre torna a suonare un vecchio disco di Bennato e della Nannini tra “il vento che accarezza le bandiere e sciogli in un abbraccio la follia”.
Winston Churchill, sbuffando l’inseparabile sigaro da Primo Ministro del Regno Unito, amava ripetere:

Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio.

Dopo quasi un secolo smentirlo su un campo di calcio equivale a dare una paccata sulla spalla alla storia, canticchiando con orgoglio nazionalista, spesso sbiadito dalla nostra antipatica esterofilia:

Notti magiche
inseguendo un goal
sotto il cielo
di un’estate italiana

e negli occhi tuoi
voglia di vincere
un’estate
un’avventura in più.

Manchester, il “Bataclan” del Regno Unito di Theresa May

La Gran Bretagna ha il suo Bataclan, la Manchester Arena, trasformata lo scorso 22 maggio dall’ISIS in una piscina di sangue innocente. C’è un orrore che viene prima di tutto: l’abitudine ai colpi bassi del terrorismo islamico, che ferendo a turno l’Europa, imbastisce la routine con l’orrore.
Ce ne accorgiamo con un groppo in gola appena apprendiamo la notizia e, dopo qualche minuto, riprendiamo normalmente la quotidianità, seppellendo dentro noi la spina nel fianco egoista che ci rasserena, perché abbiamo scampato il pericolo.

L’ondata emotiva dei social network non basta più, la duplicazione e omologazione dell’hashtag #JesuisCharlie si è svuotata dall’8 gennaio 2015, le solite frasi preconfezionate in rimbalzo da una bacheca all’altra di Facebook sono muffa, le foto dei teenager ammazzati e fan della musa teen Ariana Grande sono l’album di figurine accompagnate dalla didascalia “sono morti innocenti, sono soltanto dei ragazzini!”, come se poi essere vittima di un attacco terroristico sia una questione anagrafica.

Il viso pallido della Premiere Theresa May assomiglia a quello della signora Thatcher dopo le bombe dell’IRA, nel ricordo della mala gestione della questione irlandese, o meglio il filo spinato del regno conservatore della Lady di Ferro.
L’attentato di Manchester ha un precedente che non può essere offuscato neanche dalla tenera visita della Regina Elisabetta ai sopravvissuti: il video pubblicato poche ore dopo l’attentato di Westminster dal tabloid The Sun, in cui si vedeva la signora May fuggire incerta verso la sua auto, mostra le crepe di Scotland Yard e dei servizi segreti britannici.

La scomparsa di sir Roger Moore, l’attore inglese che ha prestato la faccia al James Bond dal ’73 all”85, a poche ore all’attacco di Manchester sembra davvero beffarda nel tempo dell’Inghilterra della Brexit, in cui gli 007 hanno fatto un buco nell’acqua e per niente al mondo sembrerebbero figli del Bond nato dalla penna di Ian Fleming.

La voragine dell’Inghilterra post-Manchster, trascorsi i giorni di lutto e dolore, segnerà il cammino del Regno Unito della Brexit che, pur avendo voltato le spalle all’Unione Europea, si troverà a condividere con il resto del Vecchio Continente le minacce dell’ISIS.
Mentre soffia il vento europeista sul patto d’acciaio Macron-Merkel, la signora May si avvia alle elezioni dell’8 giugno.
Dopo il prologo di Westminster, comincia un periodo buio per la Gran Bretagna, lontana anni luce dall’isola felice scoperta dalla mia generazione nelle vacanze studio d’oltremanica, protratte nell’illusione collettiva di aver trovato la terra promessa del nostro futuro.

SalvaSalva