Cartolina da Sarajevo
Ho fatto colazione in compagnia di un giovane serbo. Lui parlava qualche briciola di spagnolo. Ci capivamo, ma poi è finita a paccate sulla spalla come se ci conoscessimo da una vita, tra capuccini e una scorpacciata di burek. Non succede tutto per caso: lavorava come giornalista presso un’emittente televisiva serba. E’ iniziato così il mio viaggio a Sarajevo, la città flagellata da una sporca guerra raccontata dai nostri media come un videogioco. Bisogna entrare nel cuore della capitale della Bosnia-Erzegovina per non fare a meno di pensare che il conflitto serbo-bosniaco abbia lasciato i suoi segni. In centro è tutto normale, Sarajevo è meravigliosa perché è vitale dalla mattina a notte fonda, e sa come essere cordiale con gli stranieri. Il quartiere ottomano di Bascarsija ti porta altrove, verso Oriente e non ti aspetti una Turchia in miniatura accanto agli edifici da cartolina. Basta fare fare pochi passi fuori e lo sguardo si posa sulle lapidi gelide dei cimiteri che raccolgono le salme delle vittime. Accompagnato da una jeep, mi sono spinto nei pressi dell’aereoporto dove c’era quel tunnel costruito per mettere in contatto la gente con la città assediata. Adesso c’è un museo ed è emozionante. La domenica pomeriggio ho passeggiato per quattro ore lungo il fiume Miljacka e mi soffermavo sui visi delle persone. Mi sembrava di essere tornato a Belfast, in Irlanda del Nord, tra le facce giovani e anziane che nascondevano piccole cicatrici. Sarajevo sa come sorprenderti. Prima di partire, Alen mi ha scorazzato in città. Gli ho chiesto una semplice indicazione, ma poi ho attaccato bottone. Mi ha raccontato della sua visita ad amici a Seregno, a pochi passi da Milano, e del suo Ramadan. Mi ha mostrato la foto della sua deliziosa bimba, manifestando il desiderio di rivedere musulmani, cattolici e ortodossi vivere in pace. A Sarajevo c’era un tramonto rosso quando ci siamo salutati con un forte abbraccio. Mentre il mio autobus si allontanava, ho capito che la voglia di cambiare può cancellare le atrocità del passato e tenerci alla larga dalla nostalgia o dai sensi di colpa.