Cartolina dalla Corea del Sud
Nel profondo Sud del Giappone la tentazione è forte e legittima. Tre ore meravigliose di navigazione per arrivare a Busan, la seconda città più grande della Corea del Sud. Meno di due giorni non sono niente per scoprire un posto nuovo, ma bastano per capire i coreani di che pasta sono fatti: accoglienti e chiassosi come noi gente del Sud Italia. Persino quando non parlottano l’inglese, sanno come farsi capire per aiutarti.
Ho smantellato il pregiudizio di tanti che reputano Busan una tappa inutile, città troppo grande secondo alcuni. Busan è fatta di piccoli mondi, raccolti nei quartieri che mi hanno fatto ritrovare Napoli. Dopo una manciata d’ore dall’arrivo mi sento già a casa. Uno studente mi aiuta a trovare l’alloggio e di sera vago nella zona del mercato del pesce come se la conoscessi da sempre.
Niente guida, niente cartine. Tra le bancarelle dello street food ritrovo socialità e voglia di stare insieme, quelle che noi abbiamo svenduto ai social. Quanto vale una strizzata di messaggi su Whatsapp rispetto ad una lunga chiacchierata per strada?
Vale meno della voglia di stare con gli altri e condividere pezzetti di vita. Jeewon è una studentessa, conosce l’inglese, mi dà le dovute indicazioni per non perdermi in metropolitana. Percorriamo un tratto di strada insieme, ci raccontiamo e apprezza questa mia aria da vagabondo che vuole respirare l’Oriente senza i filtri del turista.
Poi la lunga scarpinata in montagna, incantato dalla spiritualità del Tempio di Beomosa. Poco lontano da lì fruscio di ruscelli e famiglie coreane assiepate per una gita fuori porta estiva.
Il mondo è piccolo. Cosa ci fa Procida in Corea del Sud? Il Gamcheon è un villaggio nella parte alta, nucleo della vecchia Busan tra chioschetti, case dipinte, bucato steso, vicoli stretti. Mi sembra di essere tornato nell’isola campana in cui Elsa Morante narrò le vicende letterarie di Arturo. Su e giù per le stradine e poi mi al tramonto mi spingo nella Busan balneare.
L’atmosfera mi riporta alle estati cilentane della mia infanzia, la musica, i bagnanti, anche se poi il paesaggio evoca Alicante in Spagna, tana di una vacanza dei miei vent’anni. Mangiucchio pesce fritto nel “coppetiello” – sarò mica passato per Napoli? – poi mi siedo sui gradini che fronteggiano la spiaggia. Il sole è sparito, è sbucata la luna, il mare è orientale, davanti a me un paio di musicisti da strada sulla sabbia che dedicano canzoni a tutti noi, come per dire restate qui e raccontateci di voi.
Prima di risalire sulla nave che mi riporterà in Giappone, faccio amicizia con la piccola Jiyu. La mamma ci fa da interprete. Le improvviso un buffo disegno e lei apprezza. La bimba coreana mi chiede: “Tu in Italia ce l’hai una casa?”. Io senza esitare replico: “No, non ho una casa. Ogni incontro che faccio nei miei viaggi mette un nuovo mattoncino alla mia casa in costruzione. Grazie Jiyu, il tuo mattoncino la renderà amcora più bella e confortevole”.
Jiyu e la mamma scendono a Fukuoka, in Giappone, trascorerranno le vacanze lì. La bimba mi saluta e mi avverte che vuole essere avvisata quando la casa sarà pronta. La Corea del Sud è dall’altra parte del mare, non la vedo più, scompare dentro il sorriso di Jiyu e gli occhiali di Jeewon.
A Busan ho lasciato un pezzo della mia essenza di uomo del Sud, distante dal meridionalismo che ti vuole per sempre nello stesso posto. A Busan ho lasciato la mia voglia di sentirmi uomo del Sud, in qualsiasi angolo del mondo.