Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Storie di casa mia: Antonio, il guerriero su due ruote

Rosario PipoloQuando alla fine degli anni ’80 i miei genitori cambiarono condominio e quartiere, entrarono nella mia vita nuove persone. Sono i volti che nascondono storie e solo in apparenza sembrano comparse della nostra vita. In realtà alcuni di loro ne diventano incosapevolmente coprotagonisti, dando consistenza alla “nostra esistenza da mendicanti”.

Sì, perchè siamo luridi mendicanti tutte le volte che viviamo sotto il ricatto della distrazione. Durante gli anni del liceo scoprii che dietro il sorriso di Antonio si insidiava la sclerosi multipla: minacciosa, lenta, improvvisamente aggressiva. Furono la strada e il nuovo quartiere a farmi affacciare nella sua vita.
Nei giorni a ridosso della maturità era Antonio che mi incoraggiava, lì sulla sua carrozzella. Con Antonio non si facevano discorsi banali da macchinetta del caffè: si parlava di progetti, di sogni, di politica, di Dio, di filosofia spicciola infusa di quotidianità. Antonio era più grande di me ma aveva tanti bei sogni sul comò.

Mi piacevano di lui la sana ironia e il sarcasmo, perchè fanno di un giovane intelligente anche un uomo di buona fede. In un pomeriggio di maggio, a pochi mesi dalla mia laurea, mi chiese di spingerlo in carrozzella fino al supermercato. Tappai limbarazzo, io avevo l’uso delle gambe e lui no. Antonio lo capì e mi spiazzò, dandomi una bella lezione: “Prestami le gambe, spingi, spingi, non avere paura”.
In quell’istante presi coscienza del fatto che Antonio fosse un guerriero impavido e coraggioso, che con la sua passione per la vita metteva a tappeto giorno dopo giorno la sclerosi multipla. Antonio aveva da dare tanto a tutti noi “mendicanti distratti dalla routine”.

Dopo il trasferimento a Milano, io e Antonio ci siamo persi di vita. Ci siamo ritrovati la scorsa notte quando, fuori da un supermercato, è sbucato un carrello vuoto e abbandonato. L’ho afferrato, ho iniziato a spingerlo furiosamente tra rabbia e dolore, nel buio della notte tra i semafori lampeggianti, come se fosse la carrozzella di Antonio. Sapevo che il guerriero su due ruote non poteva rispondermi più.

Vent’anni fa prestai le gambe ad Antonio. La scorsa notte ha ricambiato il prestito altrove, a pochi passi da dove vivo oggi: il ricordo del sorriso del guerriero su due ruote ha schiaffeggiato mie lacrime da quarantenne bagnate dalla pioggia, ricordandomi che la bellezza di Dio sedeva accanto ad Antonio, amico di quartiere, su quella carrozzella.

Il runner sulla carrozzella riscatta Milano nella domenica della Stramilano

Ci sta che Milano vista dalla sella di una bicicletta tiri fuori la sua vera anima, che non è di certo il clichè che le hanno incollato addosso i disadattati anti-metropoli. E se una domenica ecologica – avrebbero potuto bandire dalla circolazione anche i tassisti – è stata l’occasione per far tornare la gente a parlare con le strade segrete del capoluogo lombardo, i runner della Stramilano hanno allungato il verso di una canzone di Lucio Dalla: “Un vincitore vale quanto un vinto”.

Questo può accadere in una competizione sportiva – il verso dedicato ad Ayrton ce lo rammenta – ma non nella vita, dove i vincitori sono coloro che trasformano il nichilismo della sopravvivenza nello slancio dell’esistenza. Il vero vincitore della Stramilano l’ho visto intorno alle 11.30 dalla sella della mia bici, all’angolo di corso Buenos Aires: era un giovane sulla carrozzella che correva spedito. La forza delle gambe immobili si era riversata nei battiti del suo cuore e i palmi delle mani agguantavano la carrozzella come se fosse il prolungamento del corpo.
Quando il podista si è riversato in direzione di Porta Venezia, non ho avuto neanche il tempo di guardare la sua pettorina per capire chi fosse quel piccolo eroe.

Mi ha convinto che nella vita un “vincitore non vale quanto un vinto,” perché il podista paraplegico è riuscito a riscattare Milano dalle solite tartine stantie degli happy-hour; dai clamori delle passerelle; dai ritmi frenetici del luna park stacanovista, dalla nebbia riversata nei palazzi che non fa più distinguere cosa sia una mazzetta o una tangente; dalla multi-etnicità soffocata negli angoli dei ghetti; dal terrore di chi pensa che occorre possedere tanto per tornare a vivere questa città; dall’orrore degli arruffoni convinti che la matita di un Crepax, un verso della Merini o una canzone di Gaber siano soltanto scolorita memoria. Milano è tornata a correre con “le sue gambe”.