Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Quel concerto di Paul McCartney insieme a Fabrizio Frizzi

Il 19 febbraio 1993 al Forum di Assago io e Fabrizio Frizzi sembravamo il fratello minore insieme al maggiore venuti a spartirsi il concerto di Paul McCartney. Avevamo due cose in comune: la montatura degli occhiali e la passione sfrenata per i Beatles.

Io ero arrivato a Milano da Napoli, dopo una litigata furibonda con mio padre, non ancora ventenne. Lui aveva superato da un pezzo la trentina e aveva accanto la sua Rita. Lei mi sorrideva, con Frizzi attaccai bottone e gli dissi che i miei compagni di liceo notavano una somiglianza tra me e lui. Parlammo delle canzoni di McCartney, dei Beatles, mi disse che la sua preferita era Penny Lane.

In quella mezz’ora, prima l’inizio del concerto di Macca, Frizzi mi apparve improvvisamente come un fratello maggiore che ti faceva venire voglia di aprirti senza timore di essere giudicato. Rassicurò le mie perplessità da neo studente universitario senza né arte né parte con una sagace riflessione: “Le passioni sane vanno alimentate perché ci aiutano a far venire fuori il meglio di noi stessi”.

Al termine del concerto con il suo bon ton Fabrizio Frizzi mi consigliò di accorciare i capelli se volevo assomigliargli di più. Ci stringemmo la mano e poi lui scomparve lungo un corridio del Forum tenendo per mano Rita Dalla Chiesa.
Stasera ho tirato fuori dal mio archivio il biglietto di quel concerto memorabile. Glielo dedico dopo venticinque anni esatti insieme a questa bella fiaba che tanti anni fa lesse in chiusura di una trasmissione televisiva:

Le quattro candele, bruciando, si consumavano lentamente.
Il luogo era talmente silenzioso, che si poteva ascoltare la loro conversazione.

La prima diceva:
“IO SONO LA PACE, ma gli uomini non mi vogliono:
penso proprio che non mi resti altro da fare che spegnermi!”
Così fu e, a poco a poco, la candela si lasciò spegnere completamente.

La seconda disse:
“IO SONO LA FEDE purtroppo non servo a nulla.
Gli uomini non ne vogliono sapere di me, non ha senso che io resti accesa”.
Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense.

Triste triste, la terza candela a sua volta disse:
“IO SONO L’AMORE non ho la forza per continuare a rimanere accesa.
Gli uomini non mi considerano e non comprendono la mia importanza.
Troppe volte preferiscono odiare!”
E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere.

…Un bimbo in quel momento entrò nella stanza e vide le tre candele spente.
“Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio!”
E così dicendo scoppiò in lacrime.

Allora la quarta candela, impietositasi disse:
“Non temere, non piangere: finchè io sarò accesa, potremo sempre riaccendere le altre tre candele:
IO SONO LA SPERANZA”

Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre.

CHE NON SI SPENGA MAI LA SPERANZA DENTRO IL NOSTRO CUORE…

…e che ciascuno di noi possa essere lo strumento, come quel bimbo, capace in ogni momento di riaccendere con la sua Speranza,

la FEDE, la PACE e l’AMORE.

La grande lezione di Nick Cave, esploratore sofisticato di dolore e sofferenza

Abbiamo un debito nei confronti di Nick Cave per averci ricordato che dolore e sofferenza sono un cosa seria e possono starci, senza pregiudizi, in un gomitolo di canzoni. La musica è specchio della nostra vita, delle notre scelte, di fallimenti e vittorie e i gusti personali ne sono latitanza da ciò che non ci appartiene, o meglio da ciò che ci illudiamo non ci tocchi.

Quando ero ragazzo Nick Cave & i Bad Seeds erano roba da “Dark”, quei ragazzetti vestiti di nero da cui negli oratori di perferia dicevano di stare alla larga.
Lì non ascoltavano il gospel ma il Gen Rosso, la band cattolica nata prima delle turbolenze sessantottine, il cui canzoniere era diametralmente opposto a quei “brutti ceffi vestiti di nero”.

Nick Cave ci ha ricordato, durante l’ultimo meraviglioso concerto di Milano, che dolore e sofferenza non hanno né colore politico né religioso perché appartengono all’esistenza umana. Nick aveva capito che per esplorarli non bastavano più la rabbia del rock o l’idiosincrasia del punk.
Un stupratore, un condannato a morte o un assassino non vanno raccontati più tra bagni di sangue splatter, piuttosto visti dal di dentro con l’occhio dell’anima del poeta.

Osservare Nick Cave per oltre due ore avvolto tra il suo pubblico, nella continua ricerca del contatto che riscrive lo psicodramma collettivo e misura gli stati d’animo sulla falsariga di un ritiro spirituale nella fuga dalla porta del tempo, ci convince che la poesia contemporanea giace nella parola che si fa performance, nella teatralità che scuote la musica.

Abbiamo un debito nei confronti di Nick Cave per averci ricordato che i poeti sono sul cammino di noi mutilati dalla merda spalata dalla globalizzazione.

C’è sempre dolore intorno. Questa è una cosa su cui puoi giurare nella vita: ci sarà sempre un eccesso di dolore. (Nick Cave)

Cartolina da Lignano Sabbiadoro: I fan di Vasco

livekom016_lignano_fan_vasco

Rosario PipoloI fan di Vasco li vedi sbucare all’alba a Lignano Sabbiadoro e pensi che siano lì semplicemente per essere i primi sotto il palco. In realtà sono lì perché si sentono tutti parte di una grande famiglia e il concerto non è un ridotto di un paio d’ore, ma è una sottile linea all’orizzonte che va dall’alba al tramonto: Si raccontano, strizzano ricordi, si conoscono, continuano a crescere insieme.

I fan di Vasco li riconosci. Sono le facce che non rinuncerebbero mai a rivedere il loro capitano. Non hanno il dono dell’ubiquità, ma riescono a saltellare da una città all’altra, ad attraversare l’Italia senza esitazione, ad abbandonarsi allo sfinimento pur di vivere un’altra storia.
Ogni concerto si sa non è clonato, è una storia raccontata, unica ed irripetibile.

I fan di Vasco non sono come quelli degli altri, i fan di Vasco sono di Vasco e basta, punto. Non è questione di questa o quella canzone appiccicata addosso, sfilacciata come un chewing-gum, sono parte di lui, vengono da tutt’Italia, come Simone, Ambra, Maurizio, Elisa, Madda e Remo di Sanremo, ritratti nella foto.
Guerreggiano a denti stretti alla maniera del Blasco perché, come ha ripetuto il capitano alla fine del Live Kom 016 a Lignano, “Non abbiate paura. La paura è il nostro nemico più grande”.

I fan di Vasco hanno ferite, cicatrici, lividi generazionali tra i cinquantenni dell’altro ieri, i quarantenni di ieri, i trentenni di oggi e i ventenni del futuro. I genitori che urlavano Siamo solo noi lo hanno tramandato ai figli che cantano Un senso: Il rock va vissuto senza compromessi, ovunque e comunque, con la radice di provincialismo, che deve battere duro a Zocca prima di scalpitare in ogni angolo della nostra penisola.

I fan di Vasco apparterranno per sempre alle generazioni a venire perché, come ha ribadito Simone di Sanremo, “Vasco ha una canzone per ogni stato d’animo”. A loro non interessa di certo la gloria perché il Blasco, colui che noi all’alba della sua storia musicale chiamavamo Vasco Rossi, riesce ancora a farli volare facendoli stare con i piedi per terra.

“Io che credevo alle favole e non capivo le logiche.” I fan di Vasco sono grandi ormai.

Diario di viaggio: #Pooh50 nel selfie d’amore di Giovanni e Antonella della Basilicata

selfie_pooh_50_sansiro_milano

Rosario PipoloIl concerto della Reunion dei Pooh allo stadio San Siro di Milano può essere custodito nelle parole di Roby Facchinetti: “Vorremmo che la nostra musica continuasse a vivere al di là di noi”. Giovanni e Antonella, classe anni ’90, venuti dalla lontana Basilicata, testimoniano quanto sia vero che le canzoni prendano per i capelli generazioni diverse per farle diventare “strumenti della stessa sinfonia”.

Nel selfie scattato a San Siro da Giovanni sotto la pioggia di coriandoli, sull’ultimo brano dei Pooh,  ci sono tracce della loro tenera storia d’amore da ventenni: lei accompagnò un’amica a Corleto Perticara, nel potentino, e tra i due scoccò la scintilla. Da cinque anni sono inseparabili, fanno quasi 40 chilometiri in auto tutti giorni per stare insieme, lavorano sodo e mettono da parte i soldi per viaggiare e attraversare l’Italia a caccia di concerti da condividere.
Giovanni mi racconta di quando suo padre lo teneva in braccio ai concerti; Antonella conferma il segreto che annaffia le radici della vita: Viaggi, libri, musica, sono la benzina del motore della nostra esistenza”.

Li ritrovo seduti accanto a me, condivido con entrambi questo viaggio musicale, scacciando il luogo comune che vorrebbe la Millennial Generation lontana anni luce da gusti musicali di genitori o nonni: Chi era a ripetere questa filastrocca?
I tempi cambiano. Al concerto dei primi 25 anni dei Pooh rassicurai mia mamma infilando un gettone in una cabina telefonica; nel live del cinquantesimo Antonella tira fuori lo smartphone, aggiorna la mamma via Skype e le mostra la festa di San Siro come per dire che ne è valsa la pena fare tutti questi chilometri.

Quando Roby, Riccardo, Dodi, Red e Stefano cantano Chi fermerà la musica mi rivedo attaccato alla gonnella di mamma. Giovanni non era nato. Quando cantano Uomini soli  ritrovo i segni della mia adolescenza e del tragitto verso la maturità, ma Antonella non era ancora in cantiere allora.
Ci ricongiungiamo sui brani più recenti, strizzando la distanza anagrafica perchè un concerto sa come mettersi di traverso al tempo, farneticando tra sogni senza età.

“Domani… ci inventeremo che cosa faremo da grandi, domani…” canteranno un dì Giovanni e Antonella ai loro figli, penso tra me e me mentre loro sono già su un volo di ritorno verso la Basilicata. Chissà cosa penseranno tutti i lucani che li leggeranno da protagonisti di questo diario di viaggio, a tratti sfacciatamente sentimentale.

“Domani… forse sognare è un difetto ma chi lo conosce il domani”, canto io oggi da quarantenne mentre Pino, il papà di Giovanni, sta arrivando a Roma per il concerto all’Olimpico di stasera. Sono storie di vita allacciate alla cintura delle canzoni. Conserviamole con cura, senza sgualcirle.

Addio prematuro a Prince, furia del pop che scheggiò funk e soul

prince_musica

Rosario PipoloCi volle la Svizzera, nei giorni a ridosso del mio compleanno, per farmi incrociare Prince dal vivo. Nel luglio del 2009 al Festival di Montreux ero stato spedito per un reportage tra viaggio e musica, e raccontare  l’atmosfera di una delle vetrine di jazz più prestigiose d’Europa.

Pensavo che il pop di Prince stesse stretto all’edizione numero 43 di Montreux. Dovetti ricredermi durante il concerto, completamente sold-out, quando mi resi conto che le acrobazie musicali dell’icona di Minneapolis sfregiavano il pop tout court per insidiarsi in lapilli di funk, jazz, con un falsetto che mi colse di sorpresa e mi ha lasciato come souvenir di viaggio Somewhere Here on Earth.

Alla fine dell’esibizione di Montreux compresi quanto Prince fosse legato geneticamente al jazz, quanto il suo pop, vagante sulla sponda opposta di Micheal Jackson, avesse scheggiato funk e soul con lamelle di rock.

Prince ha remato controcorrente nelle acque dell’omologazione culturale degli anni ’80, ha guerreggiato contro lo strapotere delle major, si è impadronito della libertà dell’artista a tutto tondo per mantenersi fedele alla pignoleria maniacale del vivere la musica.
Prince si è vestito con un abito ritagliato su misura, quello dell’artista controverso e pieno di contraddizioni che ha fatto dell’incoerenza la linea d’ombra tra presente e futuro.

E’ stato lui l’ultimo uno, nessuno e centomila di fine secolo, saccheggiando nel fluido rovente delle sue canzoni l’instabilità di una generazione dopo la legittima presa di coscienza: gli anni ’70 si erano barricati dentro con la grande musica che mai più sarebbe tornata.
Prince ne rimase fuori e provò a modo suo ad orchestrare per le generazioni avvenire sonorità pulp che resteranno comunque vive, anche nelle perline come Nothing compares to you, donata generosamente a una gran bella voce come Sinead ‘O Connor.

Il pop si è spento. Ecco tutto.

Per sempre Nomadi tra la passione dei fan e la bellezza dei disabili

Foto di Beppe Fusè Fucchio

Foto di Beppe Fusè Fucchio

I concerti spesso nelle grandi metropoli sfigurano l’intimità delle piccole piazze. Quando intervistai i Nomadi nel 2008, in occasione di un compleanno speciale al Blue Note di Milano, mi colpì un passaggio di Beppe Carletti: “La nostra vita sono le piazze, la nostra vita sono la gente, continuiamo a fare musica per loro”.

Ho voluto ritrovare Beppe e compagni proprio in periferia perché, dopo cinquant’anni e passa di musica, una delle band più longeve della musica italiana è riuscita a non spezzare mai il rapporto di empatia con chi gli sta di fronte. Una perdita incommensurabile come quella di Augusto Daolio ha trasformato il dolore in una forza di un ciclone e li ha spinti ad andare avanti, lasciando crescere il legame con il pubblico.

Mi sono distratto all’ultimo concerto dei Nomadi a guardare la bellezza dei disabili in preda alla felicità, avvolti dalle canzoni: lui sulla carrozzella che teneva per mano una ragazza. Gli schiaffi della vita tradotti in carezze sincere, come quelle dilaganti nel canzoniere di Guccini cantato da Carletti e compagni.

Mi sono distratto a sbirciare i fan, con gli occhi lucidi di chi rimpiange di non averci riprovato; gente normale che ha voglia di sentimenti robusti; uomini e donne che hanno tatuato sulla pelle la vita di periferia prima di cantarla a squarciagola. I fan dei Nomadi sono sparsi in ogni angolo del nostro Paese, nei piccoli centri ed è così che si ricongiungono regioni, province, piccole città.

Mi fingo autostoppista per ritagliare piccole storie tra i fan: Paola e la passione per Beppe e compagni; Battista e il primo concerto a metà degli anni ’80 con la voce di Augusto; Carla e la forza di tenere unito un piccolo fan club di una zolla di Lombardia; Yvonne convita che queste canzoni sanno come aiutarci ad affrontare e superare i dolori della vita.

I Nomadi sono una ricchezza per tutti loro, per tutti noi. Forse è ora che mi decida ad andare a Novellara, il piccolo paese che ha dato i natali a questo gruppo storico. Non per cercare cimeli, ma per bussare alla porta di casa di Beppe Carletti, fermarmi a mangiare un piatto di minestra con lui, perché ci sono pochi artisti e musicisti in Italia che custodiscono un grande pregio: sentirsi gente normale perché il segreto è tutto lì, lungo l’unica strada da percorrere per donare agli altri riflessi di umanità.

I Terrasonora e la lezione di umiltà dei “discepoli” nella Napoli musicale degli imperatori

Rosario PipoloNapoli è fatta di ghetti culturali, piccoli o grandi che siano, a teatro come nella musica. I “teatri di guerra” di Mario Martone, a distanza di anni dall’uscita di quel film, ci lasciano tanti spunti di riflessione. Nei primi giorni dell’anno nuovo continuiamo a chiederci se qualcosa cambierà. Poi puntualmente, presi dallo sconforto, lasciamo tutto così.
“I baci e gli abbracci” sul palco del Palapartenope, in occasione della reunion di Pino Daniele con i protagonisti della musica degli anni ’70 all’ombra del Vesuvio, contrastavano solo apparentemente questa polaroid cinica. In fin dei conti abbiamo assistito ad una bella serata musicale, ma eravamo mille miglia distanti dall’atmosfera di una vera Woodstock partenopea.

Gli arrangiamenti musicali possono essere identici a quelli di quaranta anni fa, ma le faide artistiche, le prese di posizione, le guerre fratricide, l’arroganza, le separazioni in casa, i divorzi o il ghigno diabolico del divo non si cancellano. Giocando con le parole di un aforisma di John Kennedy, potremmo metterla giù così: “Perdona i tuoi nemici, ma non dimenticarti mai i loro nomi. Anzi, per l’occasione trasformali in amici”.

Eppure qualche volta accade che le lezioni ce le diano i “discepoli” e non “i maestri”, spesso distratti dalla maschera dell’imperatore. Eravamo troppo presi a disintossicarci dalle grandi abbuffate natalizie per dedicare la meritata attenzione ad un happening musicale dell’hinterland napoletano: i Terrasonora, la band folk emergente esplosa a Musicultura 2010, protagonisti di un imperdibile gemellaggio musicale con la Nuova Compagnia di Canto Popolare.
Un gemellaggio vero, fatto di umiltà e riverenza, con la grinta di chi vuole guardare al futuro rispettando la memoria. Ascoltare l’intreccio di voci e musicisti di generazioni diverse mi fa insistere su un punto. Perché i pochi minuti su un palco non possono trasformarsi in un dialogo o in una collaborazione permanente?

Napoli è fatta di ghetti culturali, piccoli o grandi che siano, a teatro come nella musica. I maestri non sono tali se mostrano incertezza nel condividere la propria arte con i discepoli. E qualche volta si ripete l’illuminazione di Dàvila: “Le incertezze del maestro sono le certezze del discepolo”.

Diario di viaggio: la mia festa del Ringraziamento con Ronnie Jones

Rosario PipoloLa mia prima Festa del Ringraziamento. Pensavo di essere finito in un music club del Village tra i polmoni della Grande Mela. Invece mi sono infiltrato al Memo a Milano. Cena assieme a Ronnie Jones, voce black trapiantata In Italia una miriade di anni fa. Rigorosamente senza “tacchino”, ma tra un boccone e l’altro, mi faccio raccontare le atmosfere del ThanksGiving Day. Lui è stato troppo “vagabondo” per essere un cronista impeccabile della landa che lo ha partorito. Ronnie Jones è il tipico musicista randagio, ma gli brillano gli occhi quando ricorda la sua Springfield, sperduta nel lontano Massachusetts.
“Ringraziare sempre, tutti i giorni per il grande dono che abbiamo ricevuto: la vita”
, dice Ronnie. Sembra un ringraziamento laico, invece è la condensa dello spirito di un discjokey che, nell’Inghilterra degli anni ’60, non smise mai di flirtare con un il soul, spiaccicandolo sulle piastrelle incollate con il funk.

Mi va un boccone di traverso quando, prima di arrivare al secondo, mi racconta che, cinquanta anni fa, pure i Beatles andarono ad ascoltarlo. I quattro sbarbatelli di Liverpool, che avrebbero tatuato la pelle della musica, si fecero trovare in un locale dove Ronnie suonava. Era il 1963, lo stesso anno in cui fu fatto fuori JFK. Morì l’America quel 22 novembre? No. Per Ronnie anche John Kennedy fece i suoi errori, ma quel giorno fu doloroso per tutti, americani e non. Dove viveva allora si fermò tutto e sentiva come “se le gambe si fossero paralizzate”.

E la musica? Non va mai fuori moda. Ormai sono finiti i tempi della tutela della grandi case discografiche. I dischi si vendono durante i concerti in Italia come negli Stati Uniti. Mannaggia, il sorbetto lo mangiucchio da solo. Ronnie Jones è già sul palco. Si spengono le luci. Dal buio il primo sussurro della sua voce. Sono al Memo music club a Milano, ma mi sento a New York.

Felicità a Mosca: la canzone del Belpaese che ricongiunge Albano e Romina

Rosario PipoloIn un pomeriggio d’estate sul litorale domitio, Popy Minellono mi raccontò come nacque il testo della canzone Felicità. Il paroliere di origine piemontese, che consegnò ad Albano e Romina Power un inno degli anni ’80, si ispirò ai fumetti de Peanuts di Schulz. Ve la ricordate la poesia fumettosa La felicità è… un cucciolo caldo? Ecco, proprio quella lì.

Felicità è un acquarello musicale datato che evoca il benessere mordi e fuggi del Belpaese degli anni del Riflusso. In questi giorni se Albano e Romina la ricantassero sul palco dell’Ariston di Sanremo, altro che applausi si prenderebbero. Gli italiani, bastonati dalla nuova Trise e con le tasche vuote, mica crederebbero più alla filastrocca della felicità tra “un cuscino di piume e un bicchiere di vino”?

I Russi ci credono ancora invece. Sono disposti a pagare persino due stipendi di un nostro operaio, pur di rivedere cantare sullo stesso palco gli ex coniugi Carrisi. La reunion “artistica” fa notizia e così nella landa di Putin il Belpaese canzonettaro e disimpegnato fa colpo . Chissà se i moscoviti investirebbero gli stessi rubli per ascoltare brani che rinfrescano la memoria nazionale, a cavallo tra la rinuncia alla Perestrojka di Gorbachev e il dramma dei “decaparecidos” al di là dei monti Urali. Sempre meglio il revival musicale dell’omertà.

In Italia la canzoncina Felicità non gira più bene da un pezzo. Tuttavia, potrebbe sbarcare in una versione remixed in russo su iTunes. A patto che Vespa e Santoro facciano le scarpe a La vita in diretta e organizzino una diretta a reti unificate sulla reunion degli ex coniugi Carrisi. Daremo così un nome al ruggito del “C’eravamo tanto amati”.

Paul McCartney all’Arena di Verona: Quando le canzoni cambiano il finale di Romeo e Giulietta

Rosario PipoloUn concerto può fare quello che il tempo non ha saputo fare, forse per pigrizia interiore o mancanza di coraggio. Uno sciame di canzoni dei Beatles, eternamente in volo, è diventato una massa di fili di perle grazie a Paul McCartney all’Arena di Verona. I fan all’occorrenza si perdono sempre il più grande spettacolo emozionale. Lo hanno avvistato coloro che sono cresciuti con i concerti di Macca in Italia, come chi vi ha depositato negli ultimi 25 anni i sogni, le speranze, gli schiaffi del passato e le carezze del futuro.

Ci vuole costanza e determinazione per trasformare una passione musicale in sacrosanta verità: Let It Be sfila l’anello dell’anulare e mette in ginocchio la promessa; Hey Jude squarcia il velo del tempio nel coro che esplode e taglia le distanze; The Long and Winding Road ferma il dondolo del tempo nell’istante preciso che dà voce al silenzio; Live and Let Die è una scusa bella e buona per uno spettacolo pirotecnico; Yesterday non è il manifesto della nostalgia, ma la presa di coscienza della determinazione della memoria futura; Maybe I’m Amazed è lo stupore di fronte alla magia di come l’amore possa dare una svolta alla vita; The End è l’iniezione della fine nel principio di un solco verso l’eternità con l’epitaffio “l’amore che dai è uguale all’amore che ricevi”.

Vallo a dire alla luna che Paul McCartney a 70 anni suonati ha sbeffeggiato la Big Moon di domenica scorsa. La luna è esplosa martedì sera su Verona, non era un effetto ottico e la hanno vista tutti coloro che c’erano. Lo sciame di canzoni dei Beatles ha rimesso mano alle pagine shakespeariane di Romeo e Giulietta, cambiando il finale. McCartney sussurrava al piano My Valentine e Giuletta, che tutti credevano morta, volava come un angelo sull’arena di Verona. Sapeva che Romeo era lì, vagabondo su quelle note musicali, a scacciare i demoni della vita che vorrebbero irridere il potere miracoloso della musica.

Nella sera dei miracoli di Macca gli dei si sono dovuti ricredere su quell’accusa di chi vorrebbe che la musica fosse l’oppio dei sognatori. Se pure fosse, lasciateci sognare. Lasciateci ricordare gli amici di gioventù come John e George in nome di quelle schitarrate tra il tanfo del porto di Liverpool. Lasciateci continuare a credere che, in un misto di laicità e religiosità, queste canzoni cambieranno il nostro destino, senza essere più vittime o carnefici di rimorsi e nostalgie.
Nel coro finale di Hey Jude ognuno ci ha infilato la sua smisurata preghiera, come l’urlo più esteso per arrivare alle orecchie di Dio. Da qualche parte c’era l’adolescente che scappò di casa per ascoltare Macca nell’89 al PalaEur di Roma. Romeo e Giulietta lo hanno riconosciuto e lo hanno fatto alzare in volo sull’Arena di Verona, appendendolo ai fili invisibili dei suoi sogni per trasformarlo in un uomo dai capelli brizzolati. Quello ero io.