Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Diario d’estate: “Si’ vo’ Ddio” perchè il Padreterno ha voglia di folk!

Non si sa bene perché il folk nelle notti d’estate se la dia a gambe e arrivi al di là delle montagne. Eccomi nell’ennesimo viaggio per acchiappare ad oltranza i Terrasonora, band campana prodigiosa, in un paese montanaro della provincia di Benevento. Ci risiamo con i soliti ed immancabili luoghi comuni: il folk è la musica da consumare in compagnia di un panino e birra nella cornice di una sagra. La gente mormora, mostra diffidenza all’inizio – si aspetta magari il solito neomelodico da piazza – e poi invece si lascia prendere dalla tribalità e sensualità di quel ritmo. Quello è l’unico sound con “i piedi per terra”, attaccato ai sogni delle radici.
Eppure finita la sagra paesana, si torna con nonchalance sui propri passi, senza capire che il folk andrebbe vissuto anche alla fine del concerto: spiando da un angolo i musicisti che mettono via gli strumenti, parlottano tra di loro, adocchiano il fonico per capire se qualcosa sia andato storto.

Ne vale la pena fare tanti chilometri per corteggiare la musica popolare, soprattutto in un viaggio che vorresti fosse solo d’andata. Ed ecco che ti capita un viandante. Mi ferma, mi riconosce. Piuttosto, avrei dovuto riconoscerlo io: il musicista è lui, io sono solo uno scrivano. Sebastiano “Miciariello” Ciccarelli entrò nella mia vita attraverso un vinile di ‘E Zezi, il gruppo operaio folk che tatuò nella mia adolescenza un’altra mappa per raggiungere gli scantinati dell’eternità popolare.
Allora mi è tornata in mente quella vecchia canaglia indiavolata di Marcello Colasurdo, che all’ombra del Vesuvio, portò il folk sopra gli altari, facendo ballare preti e suorine. E così gli stessi sacerdoti che mezz’ora prima sussurravano l’Alleluja, appena potevano se la svignavano di nascosto ad ascoltare la musica di ‘E Zezi.

E poi diciamoci la verità. Persino il Padreterno sbadiglia appena sente il pop parrocchiale alla maniera di Giuseppe Cionfoli – ve lo ricordate il finto prete cantautore dei primi anni ’80? – perché dopo tutto l’arte cantautoriale non sta né in terra né in cielo, ma per la strada, nei vicoli. “Si vvo’ Ddio”, come recita il titolo dell’ultimo album dei Terrasonora: Perciò nei miei viaggi c’è sempre il raggiro della speranza. Diamo alla memoria ciò che è della memoria, diamo a Dio ciò che è di Dio: il folk, appunto, perchè questa musica il Padreterno vorrebbe ascoltare.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=Xj5Rlj0ygcU]

50 anni di Rolling Stones: da un’audiocassetta al concertone con 15 euro!

Negli anni ’60 o stavi con i Beatles o con i Rolling Stones. Non esistono le mezze stagioni, nella musica come nella vita. Per la mia generazione è stato diverso. I Beatles si erano sciolti da un bel pezzo, mentre Mick Jagger e compagni con alti bassi continuavano a darci dentro, anche in maniera pesante.
I Rolling Stones festeggiano 50 anni in questo afoso 12 luglio. Per me questo non è il solito anniversario nostalgico, annacquato dal marketing della discografia musicale, ma la solita scusa per propagandare che certi brani balzano di striscio nella nostra vita e ci cambiano dentro.

Ho conosciuto gli Stones attraverso un’audiocassetta Maxell 60 che mi fece ascoltare Bob Bridger nel 1988. Succedeva proprio in questi giorni: era il mio primo viaggio in Inghilterra, a Ramsgate nel Kent. Sul lato A c’erano i Beatles e su lato B gli Stones. Ero un adolescente irrequieto e romantico, mi attaccai alla gonnella delle canzoni dei baronetti di Liverpool. Eppure Mick Jagger e compagni non mollarono mai la presa, me li ritrovavo sempre, soprattutto quelli degli anni ’70, che nel mio ciclo universitario fecero da scudo a chi invece, tifando per il rock grezzo e potete del Vasco di Zocca, diceva che le canzoni andavano ascoltate in italiano.
Cavolo, figurati se uno studente come me di Lingue Straniere si sarebbe sottomesso ai ricatti linguistici. Io la pensavo in tutt’altro modo: anche se non conoscevi l’inglese, certe canzoni aggressive dei Rolling Stones si scioglievano dentro di noi come l’acido. Per loro rischiai l’ultimo esame di Inglese all’Università: dinanzi ad una mini partitura tra le prime pagine dell’Ulisse di Joyce, me ne uscii con questa affermazione: “Se Joyce fosse venuto parecchi decenni dopo, forse qui ci avrebbe piazzato una canzone dei Rolling Stones per esprimere lo smarrimento di Leopold”.

Forse il prof. fece finta di non sentire e non mi buttò fuori dall’aula. Quando li ho visti dal vivo a Milano l’11 luglio del 2006, acquistando il biglietto a 15 euro e beffeggiando chi voleva far passare la musica live come roba da ricchi – scrissi alla fine della recensione: “Fuochi d’artificio, lapilli di luce, schegge irrazionali per dirci che l’incantesimo è finito, che per una volta ci siamo sentiti invincibili perché abbiamo varcato la soglia dell’eternità. E se questo è stato un sogno, un sogno collettivo adesso appartiene a tutti. Teniamocelo stretto”. Mezzo secolo ce lo siamo fatto scivolare dalle dita con errori e mostruosità. I sogni e le canzoni però teniamoceli stretti e non solo nel giorno di un compleanno.

Paul McCartney a Milano 19 anni dopo: sogni bagnati su quell’Espresso da Napoli

Sì, è stato così. Treno espresso notturno da Napoli a Milano, trentamila delle vecchie lire in tasca, un primo quadrimestre da schifo. Sono partito in queste condizioni 19 anni fa. Milano per me non rappresentava niente, a parte la scuola Paolo Grassi, santuario per chi sognava di diventare un bravo attore di teatro. Sapevo soltanto che a Milano c’era Paul McCartney, mi bastava questo.
Papà si arrabbiò, ma avrei mandato all’aria anche l’esame di maturità: non ne potevo più dei classici latini e greci. Le mie poesie erano state le canzoni dei Beatles, punto e basta. La sera ne recitavo una prima di andare a letto.

Milano mi spaventò: immensa, dispersiva, una macchina ad orologeria. Il Forum di Assago mi deluse, non era nient’altro che un palazzetto sportivo. Né più né meno. L’attesa dal primo pomeriggio assieme a tanti sconosciuti mi fece condividere la passione sfrenata per quelle canzoni. Allora non c’era Facebook o Twitter. Scarabocchiavo su un taccuino, volevo mettere nero su bianco le emozioni. E’ una parola!

Tra una chiacchiera e l’altra si mangiucchiava, poi l’entrata e ancora attesa. Mi avvicinai all’area ospiti e mi colpirono un uomo e una donna, mano nella mano. Erano Fabrizio Frizzi e Rita Dalla Chiesa. Lei mi sorrise, con Frizzi attaccai bottone e gli dissi che i miei compagni di liceo notavano una somiglianza tra me e lui. Parlammo delle canzoni di McCartney, dei Beatles, gli svelai qualche sogno e Fabrizio mi consigliò di accorciare i capelli se volevo assomigliarli di più.

Si spensero le luci, cominciò lo show. Mi lasciai travolgere per l’ennesima volta e mi convinsi che la musica univa e annientava i pregiudizi sociali, cultuali, religiosi, politici. Quando alla fine tutti esplodemmo sul coro di Hey Jude, finii disteso per terra sotto una pioggia di coriandoli. Per una volta pioveva a catinelle sui miei sogni di allora, gli stessi di oggi. I sogni hanno bisogno di essere bagnati perché chi apre l’ombrello è l’ultimo stupido che si priva di esistere, con o senza le canzoni di Macca.

Paul, 18 anni dopo!

La vita di Harrison in cineteca aspettando Macca a Bologna

 The Beatles Fans Italiani

paul mccartney e nancy shevell: il terzo matrimonio non seppellisce il dolore

Nell’estate del 1991 mi presentai al Marylebone Register Office di Londra, e richiesi una copia del certificato di matrimonio di Paul McCartney e Linda Eastman. Gli addetti mi guardarono stupiti quando si accorsero che si trattava dell’ex-Beatles. La spuntai e quella bravata di un ragazzotto incuriosì qualche anno dopo Red Ronnie. Mi invitò ad una sua trasmissione e lo mostrai per la prima volta in pubblico.

Col passare del tempo mi sono reso conto di non aver vissuto il documento come un cimelio, ma come il sigillo di una gran bella storia d’amore. Persino quando ascoltavo i primi album da solista di McCartney respiravo l’affiatamento della coppia. La mia visione infantile della fiaba d’amore si era trasferita in una casa di campagna inglese, dove il marito e la moglie condividevano amore, famiglia, passione per la vita e per il proprio lavoro. Ne ebbi conferma quando li vidi assieme sul palco la prima volta il 24 ottobre del 1989.

E’ complicato capire il dolore per la vedovanza, per la perdita della compagna di una vita. Nonostante il muro di vetro mediatico, abbiamo percepito il disorientamento dell’ex Beatles dopo la scomparsa prematura di Linda. Tuttavia, si fatica a guardare lo scatto di Paul McCartney invecchiato dopo la celebrazione del  terzo matrimonio con la ricca ereditiera Nancy Shevell, nello stesso posto dove si unì alla prima e adorata moglie. La mia non è né la sindrome di possessività del passato né l’attacco di panico nostalgico che potrebbe tornare riascoltando dal vivo  My Love. McCartney dovrebbe ricantarla il prossimo 27 novembre nella tappa italiana del suo tour al Forum di Assago.

E’ piuttosto il tentativo spicciolo di capire quale sia l’ultima strada da percorrere per un comune mortale o una rock star nell’amaro tragitto della vedovanza: seppellire sotto terra il dolore o restare da soli per condividerlo con il resto dei proprio giorni?

 Macca sposa Nancy

  McCartney in Italia: due date a Novembre

 Paul e Linda, Just married!

 

ATM di Milano: aumenti assurdi, servizio scadente e attese inaudite per il Forum di Assago

Se esiste ancora un barlume di democrazia in questo Paese, possiamo dirlo con il megafono. L’ATM di Milano, fiore all’occhiello dell’(ex) capitale economica d’Italia (la Borsa continua ad andare a picco!), è diventata l’oltraggio al pudore di chi si sposta con i mezzi pubblici. Aumento del biglietto urbano a 1,50€, previo contentino dell’allungamento della validità oraria di 15 minuti in più, al ritorno dalle vacanze. C’è un ricatto morale di fondo: o tagliamo le corse e magari licenziamo, o aumentiamo il prezzo del biglietto. E’ chiaro che ci teniamo l’aumento, che si trasforma in un salasso per chi vive nell’hinterland milanese.
A tutto ciò si aggiunge un servizio sempre più scadente, in modo particolare sulla Linea 2 della metropolitana, dove chi attraversa Milano dopo le 21 impiegherebbe meno tempo con il passante ferroviario. Chi si reca ad Assago è meglio che si rassegni ad aspettare dai 20 ai 30 minuti. E pensare che gli agenti immobiliari, giù di morale in questi giorni di crisi, ne hanno fatto un business: hanno venduto buchi a peso d’oro, perché affacciavano sulla linea della “fantastica” metro.
Ieri sera l’esercito di teenager, accorso al concerto di Avril Lavigne al Forum di Assago, al termine dello show ha penato in banchina quaranta minuti prima di veder partire la prima corsa per il centro. In più, oltre all’acquisto del biglietto del concerto, gli studenti abbonati all’area urbana, si sono dovuti sobbarcare pure un costo aggiuntivo di 1,90€ per sole due fermate. Una volta c’erano gli autobus gratuiti in occasione dei live al Forum, adesso che fine hanno fatto? E smettiamola con la solita filastrocca che debbano essere i comuni o i management dei concerti a contribuire, a tirar fuori i soldi dalle proprie tasche. Un buon servizio pubblico dovrebbe tutelare il cittadino in piena autonomia.
Con l’ATM anche un capriccio è un salasso: prendete la metro per una sola fermata – da Assago Forum ad Assago Milanofiori – al costo di 1,50€. Chi saranno le prossime vittime? Gli abbonati annuali? Morale della favola: viaggiare in autobus o in metropolitana ormai è roba da ricchi. Il sindaco Pisapia si à già messo l’anima in pace?

Ringo Starr a Milano e Roma: Io scassinavo salvadanai per i tuoi dischi!

Sono una minoranza gli adolescenti che si fanno travolgere dalla musica fuori dal proprio tempo. Mi sentivo parte di questo branco ristretto quando alla fine degli anni ’80 me ne andavo nei paesotti di provincia a cercare i tuoi dischi, caro Richard. Una volta girando a Liverpool – ero ancora minorenne e lasciai i miei in preda alle palpitazioni – nei posti in cui sei cresciuto, mi sono detto: cosa avevamo in comune? Anche tu eriun ragazzotto di periferia e non penso che, picchiando forte sulla tua batteria, avresti mai immaginato di attraversare il mondo.
La casualità, la mia compagna di viaggio prediletta, mi portò allora ad incontrare alcune persone a te particolamente legate, quelle che bussando alla porta di casa tua trovavano il cognome Starkey. Beh, rovistando in un negozietto di anelli poco distante da Penny Lane, mi sono chiesto come facessi ad andarne matto. Quella non era robetta da femminucce? Perlomeno ti sei trovato un buffo nome d’arte, Ringo, che ti confonde con un pistolero del Western.
L’epopea del vecchio West era passata da un pezzo, ma non quella delle navi che trasportavano sogni verso l’oltreoceano. E’ lo stesso tragitto che fanno i sogni incollati alle parole e alle note delle canzoni, formando i piccoli segreti della vita: “Every soul has a secret, give it away or keep it”.
Io l’ho tenuto il mio segreto: quello di aver fatto lo scassinatore di salvadanai per acquistare i tuoi dischi e sentire dal profumo del vinile l’ebbrezza del tempo che non passa mai. Avevo fatto la maturità quando sei venuto in Italia l’ultima volta. Mi dicevano che ero un matto ad assistere ad un concerto alla vigilia della prima partenza per gli Stati Uniti. Che rabbia, quando gli organizzatori fecero saltare la data di Roma!
Sono passati quasi vent’anni, ma resto la “capa tosta” di allora. E con lo spirito di chi si batte affinché la musica sia una gioiosa “festa sociale”, sono sicuro che in questa domenica e lunedì di luglio restituirai a Milano e Roma una carica di energia, mancante in questo momento. Gioco a fare il finto tonto: più invecchi, più assomigli un sacco a Ringo Starr, il batterista del Beatles!

Caro Francesco, c’eri pure tu quella sera in cui Baccini cantava Tenco?

C’è una foto del mio album che mi piace particolarmente: è quella che ci ritrae assieme cinque anni fa, quando hai trasformato un’intervista in interminabile e intelligente divagazione. Entrambi eravamo emigrati a Milano da due città di mare, Genova e Napoli, in tempi diversi, eppure in modalità simili. E’ stato per questo motivo che sei riuscito a farmi sentire come un tuo ex compagno di merenda?
Ricordo il nostro dibattito sui soliti cliché e pregiudizi che inquinano l’immaginario collettivo dai toni nazional-popolari. E spesso si mettono pure le scelte infelici dell’industria discografica. Osservandoti sul palco dello Smeraldo di Milano a cantare Tenco e a riportare in vita una vittima di quei pregiudizi, ho fatto una riflessione : sei stato così testardo in tutti questi anni da reinventarti ogni giorno, anche quando c’era chi voleva associare Francesco Baccini a un repertorio scanzonato, che invece era tutt’altro. Del resto quella targa Tenco che ha tenuto a battesimo Cartoons dovrebbe dirci tutt’altro.
C’è chi vuole ostinatamente definire un cantautore per “contorni”, mentre sono i suoi “dintorni” a distinguerlo dai tanti canzonettari che si spacciano per musicisti o cantastorie. Quante coincidenze ti legano a Luigi Tenco, ma queste non sarebbero bastate a creare una serata musicale emozionante se non si fosse fatto avanti ciò che sei veramente: il genovese strafottente dei luoghi comuni, dell’establishment, delle formalità idiote, curioso e appassionato, sentimentale e intelligente, con quella punta di istrionismo clownesco che avrebbe amato Federico Fellini.
Che strane coincidenze. Hai cantato Luigi Tenco nel giorno del sessantacinquesimo compleanno di mia madre, che purtroppo era lontana. Mi hai permesso di soffiare assieme a lei le candeline attraverso quelle canzoni. E’ stata lei più di trenta anni fa a farmi conoscere il repertorio di Luigi, spiegandomi che “i tempi non erano maturi per capirlo”. Forse i tempi non sono mai maturi per nessuno, ma lo diventano quando ci ritroviamo a condividere. Allora diamoci appuntamento a Genova: tu porti la chitarra e noi che eravamo l’altra sera lì portiamo birra e foccaccia genovese. Sarà un modo per continuare a raccontare Luigi, che è morto soltanto per gli stolti benpensanti, quelli che De André aveva fatto diventare lo zimbello del circo della vita e tu, Francesco Baccini, hai messo a tacere per sempre.

60 volte Zero, senza essere un sorcino

Sorcino si nasce o si diventa? Legittimo dubbio davanti una torta con 60 candeline accese. Roma si scompone per il suo “Renato”, mentre chi non ne ha mai voluto sapere dell’etichetta di “sorcino” se ne va su YouTube a fare l’archeologo. C’è poco degli inizi, c’è poco dell’uomo mascherato alle prese con abiti sgargianti e variopinti, c’è poco di quello “Zero” che aveva fatto arrossire l’Italia democristiana degli anni ‘70 col sotterfugio dell’ambiguità. In giro non c’è più niente di Renato Fiacchini, a parte qualche traccia all’ufficio anagrafe.
Eppure ancora avverto un senso di liberazione: nell’estate del 1981 riuscii a fare a meno di quelle “maledette rotelle” della mia bicicletta. Scorazzavo bimbo in un viale di Paestum a due ruote, mentre da un juke-box si sentiva una voce cantare Più su. Cominciai ad interrogarmi, proprio quell’estate, su chi fosse la “madre che si arrende e un bambino non nascerà” e perché “un drogato fosse un malato di nostalgia”. L’anno successivo, salutando la bimba a cui facevo il filo, versai lacrime amare sotto l’ombrellone perché ascoltai da una radiolina “Spiagge dipinte in cartolina, ti scrivo tu mi scrivi, poi torna tutto come prima”. E nel sabato sera invernale, guardando Fantastico 3, mi illusi davvero con Viva la Rai che a viale Mazzini ci fosse “una fabbrica dei sogni”, prima di aver scoperto i ricatti censori che si fanno oggi come allora. Mi era bastata qualche marachella da pianerottolo con il mio compagno di giochi Alessandro per lanciare nel futuro le profezie di Amico, ovvero il flashback di oggi “E ti ricorderai… del morbillo e le cazzate, fra di noi”. Ci sono modi e modi per annotare la data di un compleanno, perchè ora il trucco si è sciolto e le rughe si vedono una per una. Per fortuna una bella canzone può farci fare lo stesso giro per 60 volte,senza invecchiare mai, come il primo repertorio di Renato Zero. Ed è con quella musica che dovrebbe essere guarnita la torta del signor Fiacchini.

Senza candeline tra le luci e le ombre della Laguna

Spegnere le candeline d’estate aveva un suo perché: dimenticare il tuo compleanno perché eri preso dalla magia vacanziera fatta di secchielli, palette e castelli di sabbia. Oggi non è così. Basta aprire la tua pagina di Facebook e una sfilza di messaggi sulla tua bacheca te lo ricordano. Quel senso di nomadismo che mi porto dietro era già segnato dagli astri. Per me non c’era la solita festicciola a casa, ma ogni anno i festeggiamenti si spostavano da un luogo ad un altro, con persone diverse. E’ lo svantaggio di chi è nato nei mesi estivi. Eppure prima di soffiare ed esprimere il desiderio di rito, avevo sempre la smania di salire sulle spalle di mio padre. Lui pensava fosse il solito capriccio, ma io mi sentivo in groppa a quel gigante che poteva aiutarmi ad acciuffare la linea di confine che divideva l’orizzonte dal mare.
La laguna di Venezia mi ha riportato a quella scena, forse perché quando condividi una serata di luglio con un anziano signore è più o meno facile tornare a sentirti bambino. Non era stata questa o quella canzone di Charles Aznavour che si era dileguata su piazza Sam Marco, piuttosto il mio desiderio irrequieto di farmi raccontare da lui i particolari di quella lunga tournèe con Edith Piaf. Un desiderio che è finito tra le luci e le ombre della laguna, in piena notte, nel silenzio più totale.
Questo netto contrasto tra il buio notturno e la luce del giorno che stentava ad arrivare mi ha riportato a quella scivolata – che mi sforzo di ricordare invano – che avevo fatto dal pancione di mia madre verso la vita. In quel momento mi sono ricordato che era il mio compleanno, sebbene attorno a me non ci fosse una torta con le candeline, ma solo il ronzio di quelle canzoni che non mi hanno fatto dubitare della generosità della vita. 

 

1 maggio, quale Festa del Lavoro?

Per chi se ne ricorda il 1 maggio è la Festa del Lavoro. Nonostante le urla dei sindacati, la tarantella finisce con i soliti bla bla bla. Del resto pure chi un lavoro ce l’ha, non ha tutta questa voglia di stappare lo spumante. L’aria che tira è deprimente tra disoccupazione, incertezze, precarietà e le morti bianche dimenticate. Come fai a confortare chi ti viene incontro, di qualsiasi età, e ti racconta la sua triste storia? Ci siamo passati un po’ tutti. C’è chi ha perso il posto di lavoro; c’è chi passa il giorno ad inviare curricula e si vede sbattuta la porta in faccia; c’è chi non ce la fa ad arrivare a fine mese; c’è chi a 50 anni si sente dire che è troppo vecchio per reinventarsi (Fabio Concato docet nel suo bel pezzo Oltre il giardino) o c’è chi vive lo stress per la scadenza  di quel maledetto contratto a tempo determinato. Il lavoratore di casa nostra  era mio padre e il 1 maggio a modo nostro gli facevamo festa. Nonostante la sua attività ce lo sottraesse continuamente, da ragazzo credevo che il lavoro fosse un diritto di tutti. Banalmente mi sono reso conto che non è così. L’unica consolazione di questo 1 maggio è il concertone di piazza San Giovanni a Roma, che quest’anno ci trasmette “il malumore dell’incertezza”, nel senso che a pochi giorni non conosciamo il programma definitivo. Nel 1998 ero di passaggio a piazza San Giovanni, ma quello fu un concerto piovoso. Nel backstage incrociai  Julian Lennon, il figlio di John, che ad un certo punto mi disse: “Quanta gente sotto al palco. Tutti fanno festa per il lavoro”. L’erede dell’ex Beatles non aveva capito che quell’entusiasmo nascondeva altro, rabbia e amarezza, che oggi sono le stesse intraviste nel mio ultimo anno da spensierato universitario, in quella piazza. Il volume alto della musica stordisce e la speranza non è mai abbastanza.