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La rabbia di Scampia per Ciro Esposito, il tifoso ucciso dalla coppa della vergogna

Rosario PipoloLa lettera di Blatter, il numero uno della Fifa che si è scomodato per scrivere alla famiglia di Ciro Esposito, mi lascia indifferente. Provocano in me tanta rabbia i sermoni degli uomini delle istituzioni: si lavano la coscienza salutando come eroe dei nostri tempi il povero tifoso napoletano, ferito a morte prima dell’incontro della finale di Coppa Italia Fiorentina-Napoli.

Fa bene il Presidente del Napoli De Laurentiis a presentarsi ai funerali a “mani vuote”, senza quella “coppa della verogna”, che la società non ha avuto il coraggio di restituire alla fine della partita. Lacrime, rabbia, dolore, Nino D’Angelo che canta “Il ragazzo della Curva B”, striscioni, icone, fotografie giganti. E adesso cosa succederà? Quanto tempo passerà prima che dimenticheremo tutto?

Questa è l’Italia, il Paese in cui vivo. Tutti eravamo preoccupati a lanciare pietre ai Balotelli, ai Prandelli e agli Azzurri schiaffeggiati ai Mondiali in Brasile, dimenticando che questa “Seconda Repubblica” sul viale del tramonto non ha una legge che regolamenta gli stadi. Dopo lo scempio a Roma, in un Paese civile e democratico, sarebbero saltate teste ovunque. Facciamo a scarica barile perché nel DNA del Belpaese vige “l’immunità taciuta” per i vertici di qualsiasi piramide.

Ciro Esposito era andato a Roma per godersi una partita di calcio e non è tornato più. Noi ci siamo ancora per farci sentire dentro e fuori gli stadi con il megafono. Di tutta questa porcheria non ne possiamo più, perché il tifo è tutt’altro. Ciro ci ha rimesso la pelle, noi ci abbiamo rimesso la dignità, il calcio ha avuto la sua meritata sconfitta. Su uno striscione dovremmo appendere un pensiero saggio di Trapattoni: “Il pallone è una bella cosa, ma non va dimenticata una cosa: che è gonfio d’aria”.

La coppa della vergogna di Fiorentina-Napoli: “un vincitore vale quanto un vinto”

Bastardi Dentro.it

Rosario PipoloSe un trofeo deve finire sotto il letame per la violenza che ha incorniciato la finale di Coppia Italia Fiorentina-Napoli dello scorso 3 maggio, allora tenetevelo pure. All’occorrenza i social network sanno come piegarsi per essere amplificatori di vergognose giustificazioni, perché il motto è il solito, anche se ci scappa il morto: The show must go on.  Godiamoci lo spettacolo, pappiamoci la coppa, calcoliamo gli incassi, il dopo si vedrà.

Facciamo una premessa una volta e per sempre: il gemellaggio violenza e stadio non riguarda la tifoseria napoletana. E’ un problema di tutta l’Italia. Se il J’accuse si fermasse all’ombra del Vusuvio, peccheremmo di miopia, alla maniera becera dell’anglosassone The Guardian, che ha liquidato sulle sue pagine “Napoli come roccaforte della Mafia”.

Mentre la rabbia ci fa rimpiangere le misure che replicherebbero le ombre del thatcherismo contro gli hooligans in Gran Bretagna, il pressapochismo all’italiana ci fa ripetere a denti stretti: “Tiriamo a campare” . E dovrebbe saperlo anche il nostro Premier Renzi, che era sugli spalti dell’Olimpico a Roma a supporto della sua Fiorentina. Se le rispettive tifoserie non hanno avuto la dignità di far sospendere la partita, lo avrebbero dovuto fare le società calcistiche. Non è successo niente di tutto questo e siamo punto e a capo. Il solito copione, le solite frasi fatte, i noiosi slogan in vista della prossime elezioni e l’indifferenza dei “tifosi onesti” a cui interessava ammortizzare con lo show il costo del biglietto.

E se chi ci governa non è in grado di dare una bella lezione ai delinquenti del calcio italiano, intervenga la Comunità Europea. Questa volta però non ci accontentiamo di una multa salata e neanche della “daspo a vita” annunciata dal Ministro Alfano. Vogliamo la resa dei conti e qualcuno che ci aiuti a capire perché “i controlli prima di accedere allo stadio” non sono uguali per tutti: le bombe di carta sono alla portata dei soliti all’occorrenza.

La trattativa con gli ultras va verificata ma sia immediata la rimozione dei vertici del calcio italiano che strizzano l’occhio a questo scempio. Rubo dai versi di una canzone di Dalla: “un vincitore vale quanto un vinto” dopo questa “coppa delle vergogna”. Restituire il trofeo non sarebbe una vigliaccata così come disertare spalti e tribune per ammaccare il controverso business delle carogne e l’oltraggio alla memoria dei Raciti di turno.

La domenica e il riscatto del Sud con la Coppa Italia al Napoli

Erano troppi anni che la Coppa Italia non tornava alle falde dal Vesuvio. C’era arrivata l’ultima volta nel 1987 tra le mani di Maradona, con la buona parola di San Gennaro e prima che la città di Napoli entrasse nell’epoca del bassolinismo illuminista. Mentre la città risorgeva nella culla della più grande bolla di sapone degli anni ’90, la squadra calcistica finiva sotto terra per colpa di una cattiva gestione, che poi altro non era che il riflesso di chi amministrava lo stesso capoluogo campano.

De Laurentiis ci ha creduto e ha riportato il Napoli ad essere il grande Napoli, quello che sa farti traballare con l’ostinazione di un allenatore come Mazzari, che all’Olimpico però ha saputo fare. Il Napoli di Mazzari ha messo all’angolo la Juventus Campione d’Italia. Lo ha fatto purtroppo in una domenica in lutto per l’Italia: da una parte lo choc per la strage di Brindisi, dall’altra il timore che il maltempo complichi il disagio dei terremotati in Emilia-Romagna.

Tuttavia, sforando i perimetri delle curve antropologiche e sociologiche di una comunità, il pallone segna da sempre il riscatto dei popoli del Sud: accade a Napoli come a Buenos Aires o a San Paolo. I vincitori di questa Coppa Italia sono tutti i napoletani che tornano a riscattare, attraverso la loro squadra, la città dagli scempi della cronaca degli ultimi tempi. Sui volti di coloro che sfileranno sul lungomare Caracciolo fino alle luci dell’alba troveremo per l’ennesima volta la dignità del Sud, di chi riesce a fare di una “speranzella” – come avrebbe cantato Renato Carosone – il sellino per cavalcare il futuro.

Fa sempre un effetto strano pensare che “’O Surdato ‘Nnammurato”, composta quasi un secolo fa da Cannio e Califano, continui ad essere un inno di gioia e festa conosciuto in tutte le parti del mondo. Eppure il celebre brano racconta tutt’altro: la lontananza di una coppia nei giorni della guerra perchè lui è al fronte. I napoletani sono riusciti a stravolgere con la loro personale interpretazione persino il testo di Califano, forse in maniera legittima, perchè dopotutto una partita di pallone è la metafora più appropriata della vita: i vinti possono trasformarsi all’ultimo istante in vincitori, con la consapevolezza che solo il domani legittima la meritata vittoria di oggi.