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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

L’ultima estate di Leopold, quarta puntata

Ai primi di luglio Leopold l’accarezzò con tenerezza e le disse: “Ho avuto un permesso a lavoro. Il pomeriggio è tutto nostro”. Beatrice non se lo fece ripetere due volte, lo stinse forte a sé e dimenticò tutti i suoi impegni. Lei stava per chiamare un taxi, ma lui fece in tempo a bloccare un autobus. “E’ una vita – esclamò Beatrice – che non prendo un mezzo pubblico”. Il respiro di Leopold inciampò tra i suoi occhi castani e mai come in quel percorso Berlino sembrò tutt’altra città. Un’anziana signora bisbigliò al nipotino: “Guarda che bella coppia. Lo capirebbe chiunque che sono due sposi innamorati”. I due sentirono e si donarono un bacio fuggiasco, quello tipico dei due fidanzatini adolescenti che hanno marinato la scuola.
Scesero alla fermata di Alexanderplatz. Si incamminarono fino al numero 12 della Max-Beer-Straße. Al terzo piano, di un tipico edificio della vecchia Berlino Est, Leopold aveva il suo regno, un delizioso monolocale di cui andava fiero. “Scusa il disordine, ma io convivo con le cianfrusaglie”. C’era un piccolo cucinotto, un arredamento minimalista, un letto con una seggiola accanto. Tra i tanti libri sparsi qui e lì a Beatrice balzò all’occhio Casa di bambola. “E’ un testo teatrale di Ibsen. Lo adoro – precisò Leopold – Te lo regalo con la speranza che la tua vita non finisca mai come quella di Nora”.
Bevvero una tazza di caffè caldo e poi il più audace fu lui: la strinse con galanteria, cominciò ad accarezzarla e le baciò i seni. Le lenzuola di quel letto si trasformarono nell’inquietudine di un oceano e la passione straripò in un atto d’amore. Si amarono come non era mai successo prima ad entrambi e si scambiarono vicendevolmente tante promesse: nessuno li avrebbe mai separati e non ci sarebbe stato un giorno che non avrebbero passato assieme.
Restarono a letto fino al tramonto, guancia contro guancia, abbracciati, finché Beatrice interruppe il silenzio: “Quando ho paura, ho un posto segreto dove rifugiarmi. La casa al mare dove vado in vacanza fin da piccola. C’è un terrazzino. Mi siedo, sorseggio un caffè e volano via le mie insicurezze”. Leopold annuì e si sentì assalito dalla paura quando il suo sguardo finì sul post-it che gli ricordava l’appuntamento dell’indomani. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, terza puntata

Ogni giorno che passava, Leopold si chiedeva se l’avesse conosciuta in un’altra vita, se si fossero amati in un altro tempo, in un altro spazio, o magari su un altro pianeta. Sì perché quei due si erano innamorati e se lo dissero senza preavviso in una mattinata d’estate.
Lui tirò fuori dalla tasca un’armonica e accennò ad uno strambo motivetto: “L’ho scritto per te – le disse – e volevo fartelo ascoltare”. Poi la prese tra le braccia e la fece danzare. A quel bacio Beatrice non seppe dir di no perché aveva riscoperto l’amore, seppellito sotto terra fino a quando Leopold non era entrato nella sua vita.
Beatrice tornò a ridere, scovò su quella panchina la gioia delle piccole cose della vita mentre quel giovanotto scanzonato strappava dal suo diario pagine della sua storia: l’irrequieta adolescenza nella Berlino comunista; il sogno da liceale di vedere finalmente il Muro frantumato dinanzi ai suoi occhi; l’entusiasmo per il teatro che non avrebbe barattato per nessuna cosa al mondo. E lei gli confessò i suoi piccoli segreti con l’aria di bambina e con il cuore in gola: non si slegava mai le scarpe prima di togliersele, adorava il rosa, non avrebbe mai detto no ad un piatto di tagliolini al tartufo, combatteva l’afa estiva con i ghiaccioli a limone e, quando era felice, si sentiva come un pastello di colore azzurro.
Su quella panchina Leopold e Beatrice dimenticavano chi fossero, almeno fino al giorno in cui quella bambina le saltò sulle gambe: “Mamma, chi è questo signore?”, chiese Klaudia con l’impertinenza tipica di una figlia di sei anni. “Un amico che vuole fidanzarsi con la mamma”, ironizzò Leopold. Klaudia, fulminandolo con lo sguardo, replicò: “Mamma non può fidanzarsi con te perché è già sposata”. Fu in quell’istante che Leopold si sentì crollare il mondo addosso e si ricordò dei tempi goliardici in cui predicava alla combriccola degli amici: “Il primo comandamento è uno solo. Non innamorarsi mai di una donna sposata perché non lascerà mai il marito per te”. (CONTINUA)


L’ultima estate di Leopold, seconda puntata

Quella mattina Leopold aveva mandato tutti al diavolo. Sapeva di essere l’ultima ruota del carro, lì al Volksbühne, ma la sua passione per il teatro non era una cattiva consigliera quanto gli suggeriva di resistere. Per pranzo aveva in mano le sue solite focacce e una bottiglietta d’acqua minerale che quella volta decise di mangiare al Volkspark Friedrichshain. Era così trasandato e distratto da non badare a chi gli stesse a fianco su quella panchina.
Eppure, quando si voltò, furono le sue lentiggini a farlo naufragare in una fragorosa risata: “Scusami – esordì Leopold – mi fai venire in mente una compagna di liceo che mettevo in croce per quelle bizzarre macchioline”. Beatrice fece una smorfia stizzita e per ripicca gli strappò di mano la focaccia: “A scuola rubavo il pranzo a chiunque mi prendesse in giro”. I due si guardarono e risero a lungo. Leopold e Beatrice erano troppo diversi per stare seduti sulla stessa panchina. Lui cresciuto nella Berlino Est in una famiglia operaia, lei allevata da genitori commercianti dall’altra parte del Muro; lui tecnico delle luci a teatro, lei pittrice mancata finita in moglie ad un noto antiquario. Senza farsene accorgere, Leopold si soffermò sui suoi occhi mandorlati e, nonostante un fascio luminoso malinconico, ne rimase incantato.
La pausa pranzo volò in fretta. Prima di andar via scoprì per caso che il giorno dopo era il suo compleanno. L’indomani Leopold si presentò alla stessa ora, sperando che lei fosse lì. Beatrice fece finta di niente, ma sperò fino all’ultimo che quel giovanotto stravagante ritornasse. “Buon compleanno – le disse – Oggi non ho portato la focaccia, ma una piccola torta per festeggiare”. Lei arrossì ed era incuriosita da come lo avesse scoperto. Leopold aveva l’occhio lungo e per caso era finito su un certificato dell’ufficio anagrafe che le era caduto dalla borsetta. Da quel giorno quella panchina li vide insieme dal lunedì al venerdì, ma loro non si accorsero di cosa stesse accadendo. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, prima puntata

Stranamente l’aereo era stato puntuale. Berlino non era cambiata dall’ultima volta che c’ero stato. Questa volta era diverso. Ritornavo per lavoro, dopo essere riuscito a strappare a quel taccagno del mio editore un servizio da piazzare sulla nostra rivista d’arte. Non erano neanche le nove quando il taxi mi fermò nei pressi del Volkspark Friedrichshain. Mi guardai intorno e nell’immenso parco verde c’erano solo pochi mattinieri.
La città sbadigliava ancora, ma io non mi smentivo mai. Ero in anticipo come al solito. I miei pregi si contavano sulla punta delle dita e la puntualità era uno di questi. Allungai lo sguardo fino alla fontana Märchenbrunnen e sulla terza panchina la intravidi. Aveva un vestito di raso bianco a pois, un cappello celeste che le copriva il capo e un paio d’occhiali da sole che avrebbero impedito a chiunque di riconoscerla.
Mi avvicinai, ma lei mi colse di sorpresa: “Signor Martino, un bravo giornalista italiano dovrebbe arrivare sempre qualche minuto dopo”, mi ammonì. Ed io, quasi imbarazzato, replicai: “E lei la signora Beatrice von Bernstein? Preferisco anticiparmi quando fisso un’intervista”. Mi sedetti accanto a lei che mi rassicurò: “Punti di vista. Leopold non avrebbe mai fatto così. Li ha visti i dipinti?”. “Sì – risposi – e mi hanno particolarmente colpito. E come se nell’insieme ci fosse la vita di una persona”. Restammo alcuni minuti in silenzio. Non avevo mai incontrato una donna che mi mettesse in soggezione. Tirai fuori il taccuino e la penna. Lei si lanciò in un lungo racconto e io mi smarrii nella mia scrittura. Il tempo si paralizzò. (CONTINUA)

Lo gnocco fritto di Ciano a Sabbioneta

Qualche settimana fa mi sono fermato a Sabbioneta per seguire the Lonely Planet Bike Party. Ho riscoperto il piacere di godermi quell’Italia casareccia fatta dai posti invisibili che non metteresti mai nei tuoi programmi vacanzieri. Internet e il turismo globale ci stanno abituando a l’idea che l’intensità di un viaggio si basi su i chilometri percorsi. Dovremmo tornare seriamente a pensare al contrario: agli itinerari non troppo lontani da casa, che ti fanno decidere di partire all’ultimo momento, lasciandoti al tuo ritorno una bella cartolina del Belpaese caciarone e sincero.
A Sabbioneta, deliziosa località a ridosso tra il mantonavo e il cremonese, ho scovato un personaggio che sembra uscito dal film Amarcord di Federico Fellini. Ciano – così lo conoscono tutti in paese – gestisce il delizioso bar Ducale all’angolo di piazza d’Armi. Lui sì che ti convince a sostare su i gusti tipici del posto: gnocco fritto e spalla cotta e chi si è visto si è visto. Alla faccia dei secessionisti che tentano invano di spaccare l’Italia, qui la posizione di Graziano Contesini (così è registrato  Ciano all’ufficio anagrafe) lo gnocco fritto è autentica perché per lui la vera regina è la pizza fritta. E così lungo tutto una sorsata di Lambrusco, l’accostamento con il calzone fritto napoletano è autentico e ci sta.
E cosa ci fa quel dipinto della Beata Vergine di Pompei all’entrata del bar? Un’icona in bilico tra religiosità popolare e folclore sta ad indicarci che Ciano è un “terrone” finito per sbaglio al di sotto del Po? A tutto c’è una spiegazione, anche quando il Sud fa il ficcanaso nel Nord Italia: “Mia madre restò viva per miracolo dopo il crollo di una casa – mi spiega Ciano – Attraverso una trave vide quell’icona religiosa che non conosceva. Chiamò un pittore e la face dipingere in segno di devozione”. Che strana coincidenza, era la stessa immagine che ritrovai stropicciata nel mio jeans nel 1994. Quello doveva essere il mio ultimo viaggio: colpo di sonno, auto fuori strada, vivo per miracolo. Per fortuna, non è stato così e sono ancora qui a scrivere. Qualche volta i viaggi brevi possono essere altruisti. Il Lambrusco mi ha stordito, lo gnocco fritto mi fa fatto leccare le dita, ma la bonarietà di Ciano mi ha accompagnato per tutta la strada del ritorno con una colonna sonora. Quella grezza e provinciale di Ivan Graziani, con l’immagine di Agnese, che da una vaporosa canzone è finita sulle mie ginocchia.

Paradiso di Stelle, un gelato sulla Route 66 del Sud Italia

Quella sera mi sono ritrovato con l’ultimo paio di dollari in tasca. Ero sulla Route 66 e l’autista del bus della Greyhound diretto in Arizona ci aveva concesso una breve pausa. Entrai in questo posto, afferrai un bicchierone di Coca-Cola e Louise, la ragazza di colore che mandava avanti la baracca, mi raccontò un pezzetto della sua vita. Prima di andar via mi lasciò un sacchetto con un paio di Donuts come a dire “il viaggio è lungo”. Entrando a Paradiso di Stelle, ho ritrovato la stessa atmosfera di quella sera americana. Non se ne sono accorte né Amalia e né Elisabetta, che dal 1996 gestiscono questa deliziosa gelateria-cornetteria, né Carmen, la ragazza che mi ha preparato una crêpe al cioccolato davvero intrigante. Carmen come Louise parla l’inglese fluentemente e ha detto basta alla solita aria ammuffita di provincia quando se n’è andata a vivere a Londra per cinque anni. Mentre guardavo i forni a forma di juke-box , mi sono detto: se Paradiso di Stelle fosse rimasto un franchising – sono ancora sparsi tra Rimini, Bologna e Messina – sarebbe una location anonima. Amalia ed Elisabetta le hanno dato una fisionomia e non può essere soltanto questione di gusti e ricordi. Se Marcel Proust si intromette tra un cornetto alla Nutella e un gelato al pistacchio, allora sì che sono guai. Forse guai per me: all’uscita non ho trovato la Route 66, ma il ricordo di Ada e di quella volta che l’ho vista sparire nel buio, raggiante come una stella cometa, ma nessuno se n’è mai accorto. Forse neanche io che mi nascondevo dietro Charlie Brown, aspettando che la “ragazza dai capelli rossi” capisse di che pasta fossi fatto davvero. La mia crêpe al cioccolato era finita e fuori avevo ritrovato la strada giusta per tornare a casa, casa mia. E questa volta a sparire nel buio sono stato io.

Arriva il 2010, Buon anno a te!

Quando sta per finire l’anno, mi guardo allo specchio e conto quanti capelli bianchi sono sopraggiunti. Sono ospiti inattesi, ma graditi: a 36 anni meglio essere brizzolato che calvo! Ops, il 2009 si porta via  un altro decennio e ci sono una serie di cose che vorrei portarmi dietro oltre il confine: il gusto della Birra Moretti, edizione speciale per i 150 anni; il viaggio on the road negli USA e le 20 capitali europee dove ho raccolto storie e ho fatto incontri incredibili; il film Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck; i concerti di Keith Jarrett, Rolling Stones, David Gilmour, Bruce Springsteen e AC/DC; il mio trasferimento a Milano e le tante avventure vissute qui; una foto assieme a miei zii Mimmo Palanza e Lilina Bazin; la colonna sonora di Once, album atipico da un film romanticissimo; la rosticceria di Gangi e la cassata del bar Alba a Palermo; l’intervista al drammaturgo Harold Pinter;  l’ultimo sorriso del sognatore polacco Karol Wojtyla; la canzone Non insegnate ai bambini del cantastorie Giorgio Gaber; Persepolis, il diario a fumetti di Marjane Satrapi; gli ultimi versi scarabocchiati da Alda Merini. E le persone speciali incontrate o ritrovate tra il 2000 e il 2009? Eccome se ci sono, si contano sulle dite di una mano, ma quelle preferisco nominarle a bassa voce! Mollo a terra la nostalgia e scappo via con un aforisma intelligente: “Il futuro è un mistero, ma le cose belle devono ancora arrivare”. E queste parole sagge le ritroverò negli occhietti di Alice, la mia nipotina che nascerà nel 2010. Non è  la figlia di mia sorella, ma di mio cugino Andrea. Per me i rapporti di parentela sono una stupida invenzione, perciò conta ciò che si è costruito gomito a gomito, come è successo con Andrea appunto. Quando guarderò Alice nella culla, troverò il futuro di cui parlo. Buon anno anche a te, caro lettore, con cui condivido parte di me!

Diario da Parigi, in tilt per una spruzzata di neve

Parigi è Parigi, anche sotto la neve. E così una toccata mordi e fuggi per lavoro è stata un’opportunità per godermi dal taxi la Ville lumière in piena atmosfera natalizia. Ho visto meno addobbi e illuminazioni del solito. Sarà mai una campagna di risparmio energico per evitare che i nostri cugini d’oltralpe si facciano le festività a lume di candela? I quotidiani francesi annunciano un possibile black out. Se giovedì scorso pochi centimetri di neve hanno mandato in tilt l’aeroporto Charles De Gaulle, figuriamoci la mancanza totale di elettricità! Chi viaggia mette in agenda i ritardi a causa del maltempo, ma non 6 ore di attesa per l’indecente gestione areoportuale. Poco prima di partire per Milano, non c’erano i bus per portarci all’aereo. Insomma, ho scoperto che, dopo una certa ora, non ci sono più autisti a sufficienza. E le emergenze? Ad un tratto la situazione è diventata surreale con gruppi di passeggeri, sballottati da un gate e all’altro. Mentre mi divertivo a guardare i più furiosi, raccoglievo qualche testimonianza. “Lo so che il mio nome in italiano è davvero buffo”, mi ha sussurrato Salma. Figlia di algerini emigrati trenta anni fa a Rouen (la città di Flaubert e Corneille!), io e questa simpatica studentessa universitaria abbiamo condiviso alcune sequenze della Battaglia di Algeri, il film del compianto Gillo Pontecorvo che osò per primo raccontare questa sanguinosa indipendenza. Abbiamo parlato di immigrazione nei giorni in cui il governo di Sarkozy si interroga sull’identità nazionale! Poi Salma si è dissolta in aereo col suo minuscolo bagaglio, dietro il desiderio di raggiungere al più presto l’Italia per un fine settimana con le amiche bolognesi. Su quell’aereo , in piena notte, eravamo tutti stravolti. Alla mia destra c’era il mio capo che dormiva, con quella stessa serenità che aveva trasmesso a telefono al figlio qualche ora prima. Il desiderio di riabbracciare il suo cucciolo mi ha dato la sensazione di trovarmi in una pallina di neve, il tipico souvenir con cui puoi sempre agitare un ricordo: mi sono rivisto tredici anni fa in un treno notturno che mi portava da Parigi nel Sud della Francia e mia zia Santina sull’uscio della porta lì a rimproverarmi: “Sembri uno zingaro, buttati subito nella vasca da bagno e restaci fino a domani”. I ritardi servono per smuovere i ricordi e farli scivolare su uno spruzzo d’inchiostro: “Cara zia Santina, mi manchi. Parigi è cambiata, ma io sono sempre lo stesso, un vagabondo in giacca e cravatta”.

Muro contro muro, Berlino 20 anni dopo

L'abbatimento del Muro di Berlino

Rosario PipoloIl 5 novembre gli U2 suonano gratis a Berlino per ricordare i 20 anni della caduta del Muro. Chi lo avrebbe detto il 9 novembre del 1989 che Bono e compagni, reduci allora dalla pubblicazione del loro primo album-documentario (Rattle and Hum), si sarebbero trovati a suonare anni dopo davanti alla Porta di Brandeburgo. Io mi ricordo le immagini in tv di quel giorno: un fiume di persone si spingeva lungo la Bornholmer Strasse. L’abbattimento fisico della cortina di ferro fu fiseologico, quel passaggio da Est a Ovest richiamò all’appello i misfatti della storia, e la gioia e gli abbracci tra le persone furono incontenibili.  Eppure nessuno ha saputo spiegarmi davvero cosa ci fosse dietro e davanti al Muro. L’ho capito soggiornando a Berlino, riflettendo alla Casa museo del Checkpoint Charlie, un luogo intimo per raccogliere storie, testimonianze raccapriccianti, soffermarsi sui particolari. Berlino, 20 anni dopo, ha lasciato in giro pochi brandelli di muro. In un sondaggio dei primi mesi del 2009 risulta che il 51% dei tedeschi rimpiange la cortina di ferro perchè dopotutto la massima vale ovunque: si stava meglio quando si stava peggio. Il muro del “disfattismo” sotto le vesti del rimpianto si scontra con l’altro muro religioso e ideologico, eretto in Europa tra l’89 ed oggi. La nostalgia non porta da nessuna parte, ma la spericolatezza di chi dovrebbe guidarci  è ancora più disastrosa. Vivrò questo anniversario con una punta di ironia, riguardando il bel film  di Wolfgang Becker Goodbye Lenin!.

Cartolina da Mostar

Il ponte di Mostar

Rosario PipoloCi sono posti che fai di passaggio, ma non è detto tu non abbia il tempo di scrivere una cartolina. Il percorso per andare a Mostar, nella profondità della Bosnia-erzegovina, è degno di essere filmato. Dopo una bell’alzata mattutina per prendere il primo autobus, neanche il sonno o gli sbadigli riescono a tenere a freno lo sguardo che si perde accostandosi al fiume Narenta. Avete presente il ponte in primo piano sulla copertina della guida Lonely Planet “Balcani occidentali”? Ebbene quello è il famoso ponte di Mostar, distrutto purtroppo durante la guerra in Bosnia e ricostruito per la gioia dei turisti! E’ difficile pensare che quella deliziosa città sia stata assediata per 9 mesi. I segni della guerra ci sono, ma si nascondono quatti quatti dietro la Stari Grad, la città vecchia, presa d’assalto dai viaggiatori di passaggio. C’è chi si ostina a fotografare il ponte da ogni angolo, c’è chi perde tempo a cercare un souvenir da portarsi a casa, senza spingersi oltre, nelle strade poco turistiche dove la vita normale ha voglia di raccontare altro.  Cosa c’è da aspettarsi da una città di passaggio? Che si svesta all’improvviso e ti faccia vedere le cicatrici. Mentre scrivo questo post, Lucio Dalla canta Ciao nel soggiorno di casa mia: “La spiaggia di Riccione, milioni di persone le pance sotto il sole, il gelato e l’ombrellone abbronzati un coglione, non l’hai capito ancora che siamo stati sempre in guerra anche il 15 a Viserba in guerra con noi stessi, tra video e giornali e noi sempre più lessi a farci abbindolare con la nostra indifferenza (…) Una canzone mentre la stai cantando di là qualcuno muore qualcun altro sta nascendo, è il gioco della vita la dobbiamo preparare che non ci sfugga dalle dita come la sabbia in riva al mare”.