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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Caro vecchio divano…

Quando mi sono disfatto del vecchio divano e sono venuti a ritirarlo per far spazio a quello nuovo, ho visto un pezzo della mia vita andarsene via. Direte un divano?
Nessun attaccamento tipico del feticismo da amante d’arredamento. Anzi, se ci ripenso gli arredi della mia vita sono stati le fermate d’autobus, le panchine, gli angoli delle stazioni, le vecchie cabine telefoniche perché da viaggiatore mi hanno fatto conoscere altri viaggiatori della vita.

Quando ero piccolo il divano era rinchiuso nella lontana stanza-salotto che noi gente del Sud usavamo aprire soltanto nelle grandi occasioni. Otto anni fa mi trasferii nella nuova casa e volli il divano nel cuore del soggiorno con una penisola che il più delle volte finiva per ridursi a scrivania.
Per carità non sono un pantofolaio e i divani mi hanno sempre dato l’aria di quella pigrizia e noiosa indolenza da cui sono stato alla larga.

Per questo è stato diverso, la fodera è stata una sorta di moviola di condivisioni: ci sono passate decine e decine di persone che all’inizio lo scambiavano per un divano letto. Invece no, non era trasformabile, era un divano punto e basta.
E chi ci ha dormito in questi anni si è adattato con uno stato di provvisorietà che faceva dei cuscini presi a Londra, la città dove sono rinato da adolescente, e della coperta dell’ospite un barlume di provvisorietà che ti faceva  sentire in un mini accampamento fatto in casa.

Quel divano, se ci ripenso, è stato l’isola che mi ha fatto viaggiare stando fermo: migliaia di vinili ascoltati, letture, film rivisti e poi bivaccato con le dita sulla tastiera del pc a scrivere, correggere, riscrivere, sbobbinando interviste, imbastendo i capitoli del mio romanzo, cacciando i biglietti per i nuovi viaggi, appuntando itinerari, scarabocchiando sogni della mia nuova vita in una terra che non era la mia. Chiacchierate e segreti condivisi con i miei interlocutori come se fosse la seduta di un talk show intimo per svelare la nostra specie in estinzione, avvinghiare aspettative, raggomitolare progetti futuri, cambiando magari posto perché la penisola ti permetteva di stendere le gambe.

Il divano era lì fermo e immobile a raccogliere vita su vita, pattumiera di sconfitte o sputafuoco di successi, notizie belle o brutte, il dolore immenso per la notizia di persona cara scomparsa, come una puntura endovena; la gioia nel vedere la tua nipotina, per la prima volta a casa, riconoscere nello spazio del divano la libertà negata da una minuscola culla.
E poi lo smaltimento di coccole e tenerezze tra lei che guardava la televisione nella zona della penisola ed io che puntualmente mi addormentavo sulle sue gambe senza mai riuscire a ricordare il finale del film.

Il pavimento è vuoto ora e c’è ancora il segno del vecchio divano. Spero che ritardino la consegna del nuovo. Non fraintendetemi, non è nostalgia per un pezzo d’arredo. E’ piuttosto la consapevolezza che un divano sa essere cantastorie ed io ho imparato ad usarlo come un tappeto volante sulla mia esistenza.

Ciao Antonio, amico e dono della “strada” di periferia

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rosario_pipolo_blog_2Ci ho messo mezza vita per bollare la consapevolezza che la strada mi ha donato la maggior parte delle persone che hanno abitato la mia esistenza. Non ho detto un condominio, un appartamento, il terzo piano di un palazzo. Ho detto la strada, una strada di periferia, punto. L’infanzia ti dona gli amici, ma poi con il passare del tempo te li sottrae.
La strada no, li spinge tra le braccia della quotidianità e li lascia vivere lì, in un angolo, anche quando te ne vai, anche quando sei dall’altra parte del mondo, illudendoti che nei posti in cui sei cresciuto tutto resti immobile e la memoria sia protetta da una forzuta campana di vetro.

Quella con Antonio è stata un’amicizia fiorita per strada, lì alla periferia di Napoli, anche se con suo fratello minore c’eravamo conosciuti tra i banchi dell’asilo. Con il passare degli anni mi divertiva il fatto che io e Antonio avremmo potuto comunicare con i segnali di fumo, perché i nostri balconi erano dirimpettai in linea d’aria.

Il posto dove lo rincorrevo era un polveroso campetto di calcetto, soprannominato da noi ragazzini “campetto dell’Avis”, perché si trovava a pochi passi dall’associazione dei volontari donatori di sangue. Io con il pallone non c’entravo nulla, ero assolutamente imbranato e l’unica scusante era il destino da piccolo occhialuto “quattr’occhi”. Antonio era sempre garbato in occasione di quelle poche partitelle in cui mi tiravano dentro.
Quando anni dopo lo ritrovai con i fratelli a gestire un negozio di noleggio video – lì respiravo l’atmosfera del film indipendente Clerks – me ne uscii con questa battuta per cui mi attribuirono un futuro da pubblicitario: “Altro che Warner Bros, tutt’altro cinema con i Cerbone Bros”.

Antonio prese in sposa una mia adorata compagna delle scuole elementari ed io mi convinsi che “la strada” era capace di cucirti addosso una nuova famiglia, fatta da quelle stesse persone che costellavano la tua quotidianità e soltanto in apparenza erano delle comparse.
Le amicizie da strada,
come quelle tra me e Antonio, non hanno niente a che fare con queste odierne misurate tra i mi piace convulsi di Facebook o le logorroiche chat di WhatsApp. Erano tutt’altra storia, avevano il tanfo dell’asfalto, il rialzo di un lungo marciapiede, il recinto di una panchina dove ritrovarsi a chiacchierare e spingere i sogni di quelli della nostra generazione.

Il dolore e la rabbia ti assalgono quando ripensi all’ultima volta che lo hai incontrato, qualche anno fa, senza immaginare che quella sarebbe stata l’ultima. Nessuno ti avverte quando un’amicizia da strada finisce lassù, perché nessuno immagina quanto conti ancora davvero per te.

Adesso chi glielo dice ad Antonio che non ho mai smesso di volergli bene? Gli ho fatto un bel dispetto per questo doloroso scherzo, ho fregato una sua bella foto. La guardo e me lo ritrovo accanto in una notte milanese. Piango lacrime di marzo. Sono sempre io, l’amico di strada con i capelli brizzolati, occhialuto come allora.

Il mio Capodanno 2017 nell’alba della Patagonia

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rosario_pipolo_blog_2Mi stropiccio gli occhi. Apro le tendine dell’autobus. Fuori c’è una distesa immensa di deserto. La Patagonia fila l’alba ed è subito un sussulto. L’Argentina prende la mia anima e la scaraventa tra le persone, lungo la strada principale che attraversa Neuquén.
I viaggi sono fatti prima di tutto di persone, di incontri, di abbracci inattesi che mettono insieme i pezzi della nostra vita, lontani dai bagordi rituali e banali della Notte di San Silvestro.

Ho un tetto in Patagonia, la casa di Beti. Non è un bed & breakfast o un ostello, è l’abitazione a due piani che mi riporta nel Sud della mia Italia. Negli occhi di Beti c’è la Patagonia con le sue mille sfumature e la voglia di stare ad ascoltare le storie di noi viaggiatori che abbiamo percorso più di 1.500 chilometri da Buenos Aires.
Il sole picchia forte a Neuquén e mi fermo in un piccolo bar di una stazione di rifornimento carburante. Daniel mi offre una bottiglia d’acqua, mi fa festa, è colombiano e conoscitore del mio Sud, sua sorella ha sposato un ragazzo di Bari. Squilla il telefono, è la voce della sorella di Daniel, mi sembra di essere tornato a casa.

Sì, sono tornato a casa a Neuquén con questa gente che non è diversa da me: negli occhi di Veronica c’è il taglio della luna di Buenos Aires che restituisce al viaggiatore le sopracciglia dell’amore custodito in sordina; nel sorriso di Lujan c’è il sole della Patagonia che danza liberamente senza afferrare i ritmi del cielo sopra di noi; nella generosità di Victitor, che mi offre un passaggio in auto, c’è il ritrovamento della strada come luogo privilegiato di incontro e della costruzione di un’amicizia come si deve.

Sbuco nella parte alta di Neuquén, sotto chilometri di steppa, sopra di me c’è un Cristo in croce che volge lo sguardo verso il nord della Patagonia, mi sembra di essere finito in Terra Santa.

C’è una strada sotto il deserto della Patagonia, quella che fila diritto in Argentina, lontano dal rumore dei tappi di spumante; dal frastuono dei botti che vorrebbero dare il benvenuto all’anno nuovo; dal fondotinta e dai cappellini rossi che ingombrano selfie a destra e sinistra; da tavole strapiene di cibi e bevande. E’ la strada dell’essenzialità, mappata dalla barba incolta sulla mia pelle da viaggiatore, illuminata da una delle albe più belle della mia vita.

La mia rinascita. E’ già Capodanno in Patagonia, il mio.

Il mio legame con la Francia in dieci anni di lavoro in Europ Assistance

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Martin Vial, CEO del Gruppo Europ Assistance dal 2003 al 2014.

rosario_pipolo_blog_2La Francia mi appartiene da sempre, prima della nascita, fin dai tempi in cui parte della mia famiglia paterna si era trasferita nel Sud del Paese. Questo legame fu sigillato quando mi iscrissi a Lingue Straniere all’università e il francese fu il passe-partout per le porte d’oltralpe.
Furono viaggi continui, fughe che mi spinsero tra Tolone e Marsiglia, facendomi diventare parte di quella comunità; furono canzoni, quelle di Gainsbourg, Brassens, Dalida, Ferré, Brel, Piaf, Pagny; furono quintali di romanzi e chilometri di pellicole cinematografiche francesi tra Cannes e Venezia; furono chili di pain au chocolat a colazione e litri di Perrier; furono interviste a Charles Aznavour e Juliette Greco; furono scarpinate a Parigi e la mia prima volta nel ’96 da giornalista accreditato al Moulin Rouge; fu la mia penna che firmò un articolo sul quotidiano francese Le Corse-Matin.

Quando dieci anni fa Europ Assistance, la compagnia d’assistenza di Generali fondata da Pierre Desnos nel 1963, spalancò le sue porte al mio percorso professionale, mi sembrò una beffa del destino: la Francia tornava nella mia quotidianità.
In questo lungo tempo di attività tra le file della comunicazione digitale, c’è uno scatto inedito che oggi tiro fuori dal mio archivio e mi ritrae con il CEO del Gruppo Martin Vial, in carica dal 2003 al 2014. In vent’anni e passa di attività giornalistica le mie frequentazioni sono state personaggi dello spettacolo e della cultura e non di certo grandi manager della portata internazionale.

Ebbi modo di conoscere Vial in occasione di un viaggio a Parigi nella sede del Gruppo per il lancio  di NetGlobers, primo portale online sulla sicurezza in viaggio. Mi colpì l’attenzione data anche a “risorse invisibili” come me, che per ruolo e mansione restavano lontane da vetrine e riflettori, passando  del tutto inosservate.

Ritrovai allora la Francia luminare, quella della Quinta Repubblica guidata da François Mitterand, capace di cogliere nel talento di un manager umanista come Martin Vial l’equilibrio tra Pubblico e Privato, la congiuntura tra l’alta carica istituzionale e le sfide di un grande gruppo aziendale. La Care Revolution dell’ex numero uno delle Poste d’oltralpe ha rappresentato la visione lungimirante per trasformare il brand francese di Europ Assistance, inventore assoluto dell’assistenza, in patrimonio dell’umanità.

Questa è una polaroid che conserverò dopo dieci anni di lavoro in Europ Assistance. Al di là di quelle che saranno le mie scelte future, la Francia, in quel viaggio di ritorno da Parigi, mi restituì la piena consapevolezza che sul posto di lavoro non ci saranno intelligence artificiali o algidi algoritmi che rimpiazzeranno mai il valore di una risorsa umana. 

Cartolina dalla Corea del Sud

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Rosario PipoloNel profondo Sud del Giappone la tentazione è forte e legittima. Tre ore meravigliose di navigazione per arrivare a Busan, la seconda città più grande della Corea del Sud. Meno di due giorni non sono niente per scoprire un posto nuovo, ma bastano per capire i coreani di che pasta sono fatti: accoglienti e chiassosi come noi gente del Sud Italia. Persino quando non parlottano l’inglese, sanno come farsi capire per aiutarti.

Ho smantellato il pregiudizio di tanti che reputano Busan una tappa inutile, città troppo grande secondo alcuni. Busan è fatta di piccoli mondi, raccolti nei quartieri che mi hanno fatto ritrovare Napoli. Dopo una manciata d’ore dall’arrivo mi sento già a casa. Uno studente mi aiuta a trovare l’alloggio e di sera vago nella zona del mercato del pesce come se la conoscessi da sempre.
Niente guida, niente cartine. Tra le bancarelle dello street food ritrovo socialità e voglia di stare insieme, quelle che noi abbiamo svenduto ai social. Quanto vale una strizzata di messaggi su Whatsapp rispetto ad una lunga chiacchierata per strada?

Vale meno della voglia di stare con gli altri e condividere pezzetti di vita. Jeewon è una studentessa, conosce l’inglese, mi dà le dovute indicazioni per non perdermi in metropolitana. Percorriamo un tratto di strada insieme, ci raccontiamo e apprezza questa mia aria da vagabondo che vuole respirare l’Oriente senza i filtri del turista.
Poi la lunga scarpinata in montagna, incantato dalla spiritualità del Tempio di Beomosa. Poco lontano da lì fruscio di ruscelli  e famiglie coreane assiepate per una gita fuori porta estiva.

Il mondo è piccolo. Cosa ci fa Procida in Corea del Sud? Il Gamcheon è un villaggio nella parte alta, nucleo della vecchia Busan tra chioschetti, case dipinte, bucato steso, vicoli stretti. Mi sembra di essere tornato nell’isola campana in cui Elsa Morante narrò le vicende letterarie di Arturo. Su e giù per le stradine e poi mi al tramonto mi spingo nella Busan balneare.

L’atmosfera mi riporta alle estati cilentane della mia infanzia,  la musica, i bagnanti, anche se poi il paesaggio evoca Alicante in Spagna, tana di una vacanza dei miei vent’anni. Mangiucchio pesce fritto nel “coppetiello” – sarò mica passato per Napoli? – poi mi siedo sui gradini che fronteggiano la spiaggia. Il sole è sparito, è sbucata la luna, il mare è orientale, davanti a me un paio di musicisti da strada sulla sabbia che dedicano canzoni a tutti noi, come per dire restate qui e raccontateci di voi.

Prima di risalire sulla nave che mi riporterà in Giappone, faccio amicizia con la piccola Jiyu. La mamma ci fa da  interprete. Le improvviso un buffo disegno e lei apprezza. La bimba coreana mi chiede: “Tu in Italia ce l’hai una casa?”. Io senza esitare replico: “No, non ho una casa. Ogni incontro che faccio nei miei viaggi mette un nuovo mattoncino alla mia casa in costruzione. Grazie Jiyu, il tuo mattoncino la renderà amcora più bella e confortevole”.

Jiyu e la mamma scendono a Fukuoka, in Giappone, trascorerranno le vacanze lì. La bimba mi saluta e mi avverte che vuole essere avvisata quando la casa sarà pronta. La Corea del Sud è dall’altra parte del mare, non la vedo più, scompare dentro il sorriso di Jiyu e gli occhiali di Jeewon.
A Busan ho lasciato un pezzo della mia essenza di uomo del Sud, distante dal meridionalismo che ti vuole per sempre nello stesso posto. A Busan ho lasciato la mia voglia di sentirmi uomo del Sud, in qualsiasi angolo del mondo.

Cartolina da Kyoto: lettera sussurrata a Mamechika, una vera Geisha

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rosario_pipolo_blogSono le 8 di sera e il sole è calato da un pezzo. Sono in questa viuzza di Kyoto, città custode della memoria del vecchio Giappone. Ti aspettavo, sapevo che saresti passata prima o poi. I turisti ficcanaso sono dall’altra parte e ti cercano solo per rubare uno scatto e fare gli spavaldi al ritorno, come se poi tu fossi un souvenir.

Io, no. Sono qui per condividere con te un pezzo di questo mio viaggio frastagliato, tra memorie orientali e futuro, tra spiritualità e ricerca di me stesso, tra imprevisti e vagabondaggi che elogiano il tempo dell’interiorità.
Rallenta il passo, cara Mamechika, ti resto accanto così posso sussurrartelo in inglese: i pregiudizi di noi occidentali sono maschere di cemento sul muro delle nostre coscienze. La maschera di trucco bianco, che incarta il viso da geisha, è invece il velo che protegge la tua essenza, ricomponendo la tua radice che ti  riconduce alle origini della vita, il teatro e danza nella mescita che strappa l’eternità all’esistenza terrena.

Nessuno può conoscerti meglio di te stessa, neanche gli occidentali illusi dalle parole di carta di Memorie di una geisha, o gli americani che, per sbiancarsi la coscienza dall’orrore dell’atomica, ti misero ai piedi i geta di una prostituta.
Sei troppo giovane per ricordare, i tuoi vent’anni raccolgono le foglie sparse dal vento e allontanano rancori stantii, perché le bombe della storia fanno ancora un gran male, quanto dolore taciuto, quante lacrime sommerse.

Ho raccolto per te questo fiore in cima al tempio di Otowasan Kiyomizudera. Che fai rincasi senza neanche un cenno di saluto? (Mamechika sorride) Te lo lascio qui sull’uscio di casa. Stai tranquilla, non dirò a nessuno dove abiti.
In questi pochi minuti di passeggiata insieme al chiaro di luna abbiamo sfilacciato qualcosa sepolto dentro di noi, in bilico tra la mia sfrontatezza logorroica e la tua compostezza taciturna.

Nel caso non fossi Mamechika, prima che spunti l’alba a Kyoto, il profumo d’Oriente di questi petali scriverà il nome con cui ti battezzoJunko 笋子, che in giapponese vuol dire piccolo germoglio.

La domenica, l’arbitro e il bambino

Foto di Antonio D'Alessandro

Foto di Antonio D’Alessandro

Rosario PipoloLa mia prima stagione calcistica fu quella 1977-1978. Ero seduto sugli spalti di uno stadio di periferia in una domenica pomeriggio. Agli occhi dei tifosi apparivo come un bimbo strano. Non tifavo per nessuna delle due squadre in campo, ma per l’arbitro.

Il ragazzotto baffuto sulla ventina andava sù e giù per il campo, fischietto alla mano, maglietta e pantaloncino nero. Appena era a pochi metri da me, non perdeva l’occasione per farmi l’occhiolino. I tifosi capirono che tra me e l’arbitro c’era un rapporto di complicità. Al termine della partita, mi spiegarono che l’arbitro sarebbe uscito da tutt’altra parte.
Gli andammo incontro mentre lo scortarono fuori dallo stadio. Appena mi vide, non mancò all’appuntamento: tirò fuori dalla sacca un piccolo snack e l’aranciata in una confezione speciale per la federazione e me li cedette come sempre.

Quella domenica ci fu un premio aggiuntivo. Il mio primo viaggio con l’arbitro. Salimmo sul treno e ci sedemmo. Mi sbottonò il montgomery marroncino e mi aprì l’aranciata. Mentre la sorseggiavo, lui accese una radiolina per ascoltare i risultati delle altre partite. Tirò fuori un taccuino per appuntare.
Poi mi fece divertire scendendo le scale mobili della metropolitana. Ci infilammo nelle gallerie ma quella volta non eravamo all’Edenlandia. Pensando che l’arbitro era diventato papà a vent’anni, scaravento nel tempo i versi di una canzone di oggi: “Un giorno ti dirò che ho rinunciato alla mia felicità per te; un giorno mi dirai che un padre non deve piangere mai”.

Usciti dalla metropolitana, io e l’arbitro attraversammo mano nella mano viale Cavalleggeri d’Aosta. Non c’era nessuno per strada, all’orizzonte, in direzione del mare di Coroglio, gli ultimi fili di luce. Fu la prima volta che lo chiamai per nome, io che lo aveva titolato “zio” con la mia nascita e lui fu il più giovane della famiglia ad esserlo.

Non ho mai creduto nei rapporti di parentela. I parenti sono un’imposizione sociale dell’umanità di cui mi sono disfatto nelle piccole rivoluzioni cosmiche. Credo nei legami che ciascuno di noi costruisce singolarmente con l’altro.

Io e l’arbitro mano nella mano per quarantadue anni, nell’istante di una domenica, nella conquista dell’attimo che ricomincia. Accade ancora oggi che nuota nel mare di Coroglio, alla ricerca del suo canotto a remi ormeggiato a largo del’isolotto di Nisida. Finché il buio non ci separi.

Non insegnate ai bambini: Date fiducia all’amore, il resto è niente.

Rosario PipoloBuon compleanno, Zoe. Io e il tuo papà ci alleammo al terzultimo banco in un liceo della periferia di Napoli contro l’irrefrenabile nozionismo che voleva la recita a memoria di Natalino Sapegno. Scalpitavamo per percorrere altre strade e trapiantare nell’anima la letteratura italiana.

“Non insegnate ai bambini, non insegnate la vostra morale. È così stanca e malata, potrebbe far male. Forse una grave imprudenza, è  lasciarli in balia di una falsa coscienza. Non elogiate il pensiero, che è sempre più raro. Non indicate per loro, una via conosciuta. Ma se proprio volete, Insegnate soltanto la magia della vita”*.

Buon compleanno, Zoe. Ci pensi, Io e il tuo papà in piedi su una sedia, a fine lezione, in quello che fu scambiato per l’irriverente sfottò di due eccentrici e arroganti maturandi.
Invece no, fu la nostra protesta. Non ne potevamo più di inghiottire come rospi a quantità industriale versi latini e greci, per riempire i buchi dei programmi ministeriali della scuola miope e strabica dei nostri tempi.

“Non insegnate ai bambini, non divulgate illusioni sociali, non gli riempite il futuro di vecchi ideali. L’unica cosa sicura è tenerli lontano dalla nostra cultura. Non esaltate il talento che è sempre più spento, non li avviate al bel canto, al teatro, alla danza, ma se proprio volete raccontategli il sogno di un’antica speranza”.*

Buon compleanno, Zoe. In una mattina di primavera io e il tuo papà trasformammo l’odioso “filone” del liceale radical-chic in un viaggio a corto raggio: parlammo, condividemmo, sbottonammo  sogni futuri azzannando un panino caldo e mortadella, ci staccammo una volta e per sempre da quel provincialismo che premia i bagordi del vivere per apparire anzichè la sostanza dell’essere.

“Non insegnate ai bambini. ma coltivate voi stessi il cuore e la mente. Stategli sempre vicini, date fiducia all’amore, il resto è niente”.*

Buon compleanno, Zoe. Alzati da quella sedia, proprio come facemmo io e il tuo papà, svestendoci del pregiudizio di chi diceva che non potevamo farcela con le nostre forze. Giro giro tondo, cambia il mondo.

*Giorgio Gaber – Sandro Luporini, Non insegnate ai bambini, dall’album “Io non mi sento italiano”, CGD, Italia 2003

Cartolina dalla Barcolona 2015: nella bora io posso sognare la vela di Isabelle

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Rosario PipoloPer me la bora era confinata tra le suggestioni letterarie e cinematografiche. Perlomeno fino al mio ultimo ritorno a Trieste, che mi ha accolto con le carezze convulse di questo vento catabadico.

Nel sabato precedente al “dì di festa” della Barcolana, la storica regata che da 47 anni rende Trieste la culla internazionale delle vele, è stata la bora il direttore d’orchestra. Travolto da questo dondolio sfrecciante del vento mi sentivo come Mary Poppins, mentre i triestini mi rassicuravano sguinzagliando aneddoti sulla convivenza ventilata.

Trieste mi regala da sempre suggestioni, ispirazioni, incontri in un crocevia di culture: Emanuela e Sonia mi inondano di triestinità; Angela mi riporta ai miei reportage in Polonia alla ricerca delle tracce di Wojtyla e Walesa; Isabelle mi ricongiunge ad un pezzetto della mia famiglia che vive nel Sud della Francia.

Fuori soffia la bora, dentro si condividono piccole storie, come quella di Isabelle, velista vestita dalla semplicità, perchè i veri sportivi delle onde del mare schiacciano l’odioso divismo. La salsedine del mare triestino mischiata alla bora stropiccia la nostalgia per le passeggiate sulla spiaggia di Coroglio a Napoli. Così tento di spiegare a Isabelle uno slang partenopeo ereditato da nonno Pasquale.

Poco dopo la mezzanotte attraverso il salotto scapigliato di piazza Unità d’Italia. La bora è fortissima, all’altezza di Canal Grande, mi scaraventa contro la statua del mio amato Joyce. Mi tengo stretto, i ricordi della vita privata si mescolano a quelli lavorativi: in lontananza il mare agitato mi illumina.
La velista franco-tedesca, con cui avevo condiviso la vigilia della Barcolana, era la famosa Isabelle Joschke, “la Solitaire, une école de l’humilité” che appariva così in uno dei titoli del quotidiano Le Monde.

E’ come se la bora avesse strappato a Hugo Pratt la matita con cui creò Corto Maltese per disegnare nuovi paesaggi, uno sconfinato scenario di viaggio. L’indomani la bora è destinata ad assopirsi e il mare di Trieste a raccogliere le 1.667 vele della Barcolana. Io resto qui, perchè nella bora posso sognare la vela di Isabelle.

Cartolina d’estate: insieme a Luca sulla collina di Posillipo

Rosario PipoloSapevo che ti avrei trovato qui. Luca, sei proprio un milanese dal cuore napoletano: niente Navigli, niente Darsena, ma la cima della collina di Posillipo. Aspetta che mi siedo più vicino così riesci a sentire questo mio farfugliare.

Te lo avevo raccontato una volta e forse è accaduto negli stessi anni in cui hai vissuto nella mia Napoli. Nonno Pasquale mi portò qui da bimbo indicandomi questo posto come finestra spalancata su uno scorcio della città, lontano dalla solita cartolina con il Vesuvio intascata da chi vorrebbe questa Napoli culla del chiasso.
Proprio questa immensa terrazza, che affaccia sul parco sommerso della Gaiola, è il luogo più appropriato per appartarsi con i pensieri della propria anima.

Posillipo non appartiene ai napoletani radical chic, soffocati dalla goffaggine della loro finta signorilità, ma a Dio. Luca, non ridere: dai tempi dell’infanzia sono convinto che Dio non sa nuotare.  Secondo te se il Padreterno fosse stato un abile nuotatore, avrebbe lasciato annegare pescatori e marinai che da questo golfo non sono più tornati?

Pure nonno Pasquale assecondava, ridendo sotto i baffi, la mia stralunata idea. Dio usa la collina di Posillipo come materassino per galleggiare in acqua e puntualmente torna qui, lasciandoci innamorare.
Luca, la senti questa brezza che ci accarezza ora? Sembra la mano di Dio, ci libera, ci fa sentire più leggeri. Basta davvero una manciata d’amore per seppellire il dolore, per zittire il tamburo di latta della solitudine.

Mi sono convinto che ad arrugginirci in fretta sui nostri posti di lavoro è il maledetto muro alzato tra una scrivania e l’altra e cementato dalle banalità che spopolano alle macchinette del caffè. Per fortuna io e te ci siamo spartiti un capo donna capace di ricordarci che soltanto la nostra umanità può valorizzare i successi e i fallimenti nel lavoro di tutti i giorni.

Perciò Luca, anche tra colleghi, non dovremmo vergognarci di ripeterlo. Sono ritornato a Napoli d’estate non per farfugliare questi pensieri bizzarri, bensì per dirti che ti ho voluto bene.
Luca, pianto un fiore qui così la prossima volta sapremo quale sarà il punto esatto dove rincontrarci, qui sulla collina di Posillipo.