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Benedetto, angelo nella mia vita caduto in volo

Rosario PipoloLe penne dei miei colleghi colano inchiostro avido di notiziabilità tra ritagli di giornale, bagnati di lacrime dopo la tragedia consumata. Del fatto di cronaca con il tempo resterà solo lo spettro agghiacciante della lanterna volante, luminosa come il cuore di un giovane di periferia, il piccolo guerriero che aveva fatto della generosità l’arma per affrontare la vita.

La mia penna ha trattenuto l’inchiostro nelle ultime ventiquattro ore, affinché le lacrime non offuscassero la memoria in questa Milano, che ha visto piegarmi in due alla fermata del tram: è lì che si sono spaccati a metà i miei  40 anni.

Nella prima parte ho cercato di capire come questo angelo fosse capitato nella mia vita. Era scritto nel destino della terra sotto i piedi: i nostri nonni erano legati da un’antica amicizia, capace di trasformare una masseria in un cantiere di sogni futuri dal sapore contadino. E poi fu il tempo di vederlo crescere nel pancione della mamma; e poi arrivò la volta che lo reclutai per fare il pastorello in un presepe vivente inscenato da me e abitato da soli bambini.
Rosa, la sorella più grandicella, gli bisbigliava all’orecchio: “Mi raccomando, questa è una cosa seria. Siamo in un presepe”. Benedetto, faccia d’angelo, le diede retta. Rimase composto per tutta la rappresentazione.

Nella seconda parte dei miei 40 anni mi sono ritrovato un angelo cresciuto, assiduo mio lettore, che aveva fatto di tutto per regalare al papà il mio romanzo. Colse tante sfumature in quella lettura tanto che, alcuni mesi fa, in piena notte, gli mandai una vecchia foto scovata nel mio archivio.
Lo scatto ritraeva la sorellina Amalia tenuta per mano dalla cugina più grande, che fu l’amore della mia vita. Fu proprio il volto di Amalia la piccola – chiamata così in famiglia per distinguerla dalle omonime e dall’affettuosa capostipite nonna Amalia – ad ispirarmi la sagoma e le movenze di Giulia, il personaggio piccino del mio racconto.

Nel legame ritrovato con questo angelo abbiamo condiviso la passione per la vita e per il viaggio, opportunità di crescita e di cambiamento; le confidenze di un tempo che ormai sembrava lontano; le scorribande sulla mia vespa rossa messe a confronto con la sua moto da sogno; il sentimentalismo che ci accomunava, indicatore della traiettoria per cui l’amore davvero può fare cose grandi.

Oggi il mio angelo caduto in volo mi riporta a prendere per mano la mia piccola donna di allora, a tenerla stretta a me per condividere questo dolore comune, proiettandolo nella reciprocità del nostro amore riflesso in quello che continueremo a provare per lui p>

Ora posso dichiararlo pubblicamente, perché a 40 anni non si può essere vigliacchi con i sentimenti. L’angelo caduto in volo è mio cugino. Buon viaggio, Benedetto.

Storie di casa mia: Antonio, il guerriero su due ruote

Rosario PipoloQuando alla fine degli anni ’80 i miei genitori cambiarono condominio e quartiere, entrarono nella mia vita nuove persone. Sono i volti che nascondono storie e solo in apparenza sembrano comparse della nostra vita. In realtà alcuni di loro ne diventano incosapevolmente coprotagonisti, dando consistenza alla “nostra esistenza da mendicanti”.

Sì, perchè siamo luridi mendicanti tutte le volte che viviamo sotto il ricatto della distrazione. Durante gli anni del liceo scoprii che dietro il sorriso di Antonio si insidiava la sclerosi multipla: minacciosa, lenta, improvvisamente aggressiva. Furono la strada e il nuovo quartiere a farmi affacciare nella sua vita.
Nei giorni a ridosso della maturità era Antonio che mi incoraggiava, lì sulla sua carrozzella. Con Antonio non si facevano discorsi banali da macchinetta del caffè: si parlava di progetti, di sogni, di politica, di Dio, di filosofia spicciola infusa di quotidianità. Antonio era più grande di me ma aveva tanti bei sogni sul comò.

Mi piacevano di lui la sana ironia e il sarcasmo, perchè fanno di un giovane intelligente anche un uomo di buona fede. In un pomeriggio di maggio, a pochi mesi dalla mia laurea, mi chiese di spingerlo in carrozzella fino al supermercato. Tappai limbarazzo, io avevo l’uso delle gambe e lui no. Antonio lo capì e mi spiazzò, dandomi una bella lezione: “Prestami le gambe, spingi, spingi, non avere paura”.
In quell’istante presi coscienza del fatto che Antonio fosse un guerriero impavido e coraggioso, che con la sua passione per la vita metteva a tappeto giorno dopo giorno la sclerosi multipla. Antonio aveva da dare tanto a tutti noi “mendicanti distratti dalla routine”.

Dopo il trasferimento a Milano, io e Antonio ci siamo persi di vita. Ci siamo ritrovati la scorsa notte quando, fuori da un supermercato, è sbucato un carrello vuoto e abbandonato. L’ho afferrato, ho iniziato a spingerlo furiosamente tra rabbia e dolore, nel buio della notte tra i semafori lampeggianti, come se fosse la carrozzella di Antonio. Sapevo che il guerriero su due ruote non poteva rispondermi più.

Vent’anni fa prestai le gambe ad Antonio. La scorsa notte ha ricambiato il prestito altrove, a pochi passi da dove vivo oggi: il ricordo del sorriso del guerriero su due ruote ha schiaffeggiato mie lacrime da quarantenne bagnate dalla pioggia, ricordandomi che la bellezza di Dio sedeva accanto ad Antonio, amico di quartiere, su quella carrozzella.

Diario di viaggio: Gli italoamericani e l’America che sta cca’

Rosario PipoloGli italoamericani sono entrati nel nostro immaginario collettivo anche attraverso il cinema e la televisione. Il più delle volte con quelle forzature che affogano nell’odioso cliché, da Il Padrino ai Soprano. In quanti si sono lasciati affascinare e convincere che il successo all’ombra della Statua della Libertà sia tutto in un pugno di ferro, nel tiro alla fune che fa del Vito Corleone o del Tony Soprano di turno il braccio violento d’oltreoceano.

Se però mettiamo in conto che una famiglia italoamericana, prima dei suoi codici e delle sue regole, custodisce con gelosia il meglio della sua italianità, allora forse è il caso di dire che l’America sta cca’, come canterebbero i Terrasonora, e non nel quadretto televisivo della famiglia patriarcale della serie Dallas, tramontata insieme alla politica pirotecnica reaganiana.

Nel 1963 dal Sud dell’Italia Luigi e Concetta sbarcarono a ‪New York‬ e cominciarono a Queens una nuova vita. Nell’arco di tempo che va dall’America dei Kennedy a quella degli Obama, Luigi e Concetta vantano oggi una famiglia numerosa: più di 45 persone tra figli, generi, nuore, nipoti e pronipoti.

Condividere con loro una cena a ridosso della Pasqua, mi ha convinto che incrociare gli italoamericani in Italia è come il boato di un tuono per la nostra memoria. Le complicazioni di un pianeta testardamente globalizzato hanno cancellato la soluzione del rebus tatuato sulla pelle di ogni civiltà che si rispetti: chi emigra dona un valore aggiunto al Paese che lo accoglie.
Guardando negli occhi Rocco, Antonietta, Catherine, Antonietta junior, Francesca, Gina Marie e Giovanna, spicchio di questa numerosa famiglia che porta nomi italiani ma parla una lingua straniera, mi sono detto: Dobbiamo qualcosa a loro per aver schiacciato il cliché citato all’inizio, esportando negli ‪Stati Uniti‬ l’immagine autentica dell’Italia laboriosa e onesta.

I viaggiatori come me in realtà non hanno la vita rinchiusa nella famiglia d’origine ma la frazionano con tante altre anime conosciute lungo il percorso della vita. Catherine e le sue sorelle mi hanno restituito quel senso di libertà che conquistai nel 2005, attraversando gli USA su un autobus della Greyhound per oltre seimila chilometri.
Nell’aprile di dieci anni dopo è l’America che viene a farmi visita, ricordandomi che non si è mai abusivi quando il viaggio si è compiuto per riprendersi una vita vissuta insieme agli altri. Così accade che un Paese straniero diventi improvvisamente nostro, facendoci scivolare di dosso la sfacciata leggerezza da vagabondo.

14 febbraio, il primo San Valentino non si scorda mai

Rosario PipoloQuante banalità intorno al 14 febbraio. Tutti lo snobbano ma ciascuno ha un ricordo che lo lega a San Valentino, patrono degli innamorati. Ci sono ricordi che restano intatti come bottiglie di vetro in un angolo. Non è nostalgia ma piuttosto la presa di coscienza che la Festa della Innamorati può avere col tempo connotati diversi.

Sembra una beffa ritrovarmi a passare nello stesso posto in cui esattamente venti anni fa parcheggiai la Panda. L’avevo trasformata in una mini navicella piena di palloncini. In radio, dove avevo iniziato le prime collaborazioni, le avevo registrato una trasmissione tutta per lei che avrei fatto uscire dall’autoradio.
Mi procurai tutto l’occorrente per preparare una cenetta su quelle quattro ruote. Fu dura far capire al tizio della cornetteria che, il cornettone gigante con le nostre iniziali doveva essere pronto per le sei di sera. La mezzanotte di Cenerentola si era ridotta alle nove e mezzo. Ricordo la sua faccia al semaforo quando mi vide sbucare con l’auto allestita per l’occasione.

Il tempo non è il nostro padrone. Piuttosto lo sono i sentimenti. Il primo San Valentino non si scorda mai quando a distanza riesci a sentire i dolori, gli stati d’animo dell’altro. È come se questa reciprocità, libera dalla prigionia del passare degli anni, dimostrasse che i nostri cuori non invecchiano, restano intatti, hanno un piccolo congegno nascosto a medici e scienziati che sono la valvola di tutto, la valvola della vita.

Non si diventa uomini con una divisa addosso, come sotto gli addestramenti spietati del film Full Metal Jacket, ma calpestando la rancida viltà che ci fa avere paura di mostrare ciò che abbiamo dentro.

Il 14 febbraio di vent’anni fa non fu più il giorno dove regalare una manciata di Baci Perugina perché, in quell’auto trasformata in una navicella, scoprii insieme alla ragazza accanto a me che la nostra autenticità è direttamente proporzionale alla manifestazione di ciò che sentiamo dentro.

Alle nove e trenta in punto la lasciai nella strada dietro casa per non insospettire i genitori. Andando via in silenzio, per un attimo mi venne il dubbio che la mia strampalata macchina organizzativa non fosse riuscita. A togliermi il dubbio fu un biglietto, trovato sul cruscotto, sui cui era scritto: “Solo un pazzo come te avrebbe potuto fare tutto questo. Non so dirti altro. Ti voglio bene. 14 febbraio 1995” 

50 candeline per te: buon compleanno, cara Claudia Endrigo!

Rosario PipoloOltre le canzoni del tuo papà, cara Claudia, c’è una ricordo che mi lega a te: la maestra Iole che, all’alba degli anni ’80, ci insegnò in terza elementare i versi di Ci vuole un fiore.  E quando alcuni anni fa te ne parlai, annunciandoti che le stavamo organizzando una festa a sorpresa per la pensione, non te lo facesti ripetere due volte.
Mi inviasti una lettera dolcissima che le lessi in classe. Alunni e genitori esclamarono: “Hai letto con passione questa lettera di Claudio Endrigo. Si vede che siete amici di vecchia data!”.

Beh, io confermai. Dici che ho esagerato? In fondo, non ci siamo mai conosciuti di persona. Perché “amici di vecchia data”? Perché quando ti hanno scattato questa bella foto con il tuo adorato papà, il mio corteggiava mamma, regalandole le canzoni d’amore di Sergio Endrigo.
E poi vuoi mettere:  tu, graziosa signorinella, andavi a scuola con lo zaino nel viale delll’adolescenza ed io, bambino monello, che puntualmente fregava a mamma la paletta delle pulizie. Diventava l’asta immaginaria di un microfono per cantare Ci vuole un fiore su un balcone alla periferia di Napoli. Il Vesuvio “scostumato” mi mostrava le spalle, il monte Somma.

E poi c’era mamma che, tra una faccenda domestica e l’altra, mi faceva ascoltare le canzoni del tuo papà e mi parlava di lui come uno di famiglia. Una persona perbene, ripeteva. Guardandoti in questa foto di ieri e in quelle di oggi, posso dirti una cosa con franchezza?
Claudia, sei tutta tuo padre. In quella tua autenticità, in quel tuo modo di essere sincera, in quell’entusiasmo appassionato che ti fa affrontare la vita, lontana dallo star-system volgare di questi tempi. Anche allora però volavano i falchi. Sergio Endrigo invece era una meravigliosa colomba, che posava lo sguardo sull’interiorità dell’umanità.

Detesto gli auguri “in saldi”che raccattano consensi sui social network. Per questo biglietto di auguri, condiviso con i miei lettori, ho scelto le pagine del mio blog. Stasera, soffiando le candeline, sentirai in lontananza la voce di quel bimbo stonato che, impugnando l’asta del microfono immaginario, ti dedica: “Ma oggi devo dire che ti voglio bene. Per questo canto e canto te. È stato tanto grande ormai, non sa morire.”

Sono le parole che scrisse il tuo papà. Se torni nel giardino in cui fu scattata questa foto, troverai, incolume dal gelo di gennaio, una rosa che lui piantò per te nel giorno della tua nascita. L’amore di un papà non passa mai di moda perché non appassisce.

Buon compleanno, Claudia.

30 anni senza Eduardo all’ombra dei suoi “attori”

Rosario PipoloNon ho bisogno solo di questo 31 ottobre 2014 per ricordare Eduardo De Filippo. Ho abbastanza capelli brizzolati per dire di aver partecipato, attraverso i primi articoli apparsi sui quotidiani napoletani nel 1994, alle celebrazioni del 10° anniversario dalla scomparsa del grande attore, drammaturgo e regista napoletano.

A suo tempo rimproverai mia madre per non avermi portato al San Ferdinando alle ultime repliche che videro Eduardo in scena. Lei rispose che ero troppo piccolo e mi finanziò, nella stagione teatrale 1985-1986, il mio primo spettacolo di Eduardo a teatro: Uomo e Galantuomo per la regia di Luca De Filippo. Fu proprio allora che iniziai l’attività del ragazzino abusivo nei camerini di teatro, così mi conoscevano alla periferia di Napoli. Alla fine degli spettacoli, mi infilavo dietro le quinte e, con un registratore a cassette fregato a mia sorella, raccoglievo testimonianze dagli attori eduardiani.

Negli anni che hanno preceduto la mia attività teatrale sui quotidiani, gli incontri con i tanti attori che furono sul palco al suo fianco mi fecero esplorare la Napoli del dopo Eduardo. Al di là delle registrazioni sul nastro di vecchie audiocassette, restano intatti i ricordi e le conversazioni. Pietro De Vico mi raccontò di quando si addormentò davvero in scena durante una replica di Natale in Casa Cupiello; Franco Angrisano dei viaggi che lo portavano da Salerno a Napoli per andare in scena; Angela Pagano mi parlò di quanto provare con Eduardo fosse irrinunciabile scuola di teatro; Regina Bianchi della grande severità fuori e sulla scena; Mario Scarpetta di questo legame di parentela che andava oltre il sipario; Luisa Conte di quanto fossero indispensabili per lui i giovani come motrice del teatro.

Luca De Filippo sottolineò il ruolo del suo teatro nel mondo; Lina Sastri dei segni che aveva lasciato il teatro di Eduardo sul suo percorso; Carlo Giuffrè lo acclamò come il suo grande maestro. E poi ancora a parlare di Eduardo con Vincenzo Salemme, Marina Confalone, Nuccia Fumo, Antonio Casagrande, Sergio Solli, Marisa Laurito, Enzo Cannavale, Tommaso Bianco, Isa Danieli, Ugo D’Alessio, Aldo Giuffrè, Nello Mascia, Marzio Onorato.

Il momento più emozionante fu nel ’97 nel camerino del teatro Diana di Napoli con Pupella Maggio. Alla fine dell’intervista azzardai la domanda: “Chi è stato per lei Eduardo De Filippo?”. Mi osservò con uno sguardo agghiacciante e replicò: “Semplicemente, Eduardo”. Tirai dalla borsa la videocassetta di Natale in casa Cupiello. Lei fece finta di niente. Restai fuori al camerino finché tutti la salutarono. Poi mi fece cenno di rientrare e mi allungò la mano per darmi un pizzicotto, aggiungendo: “Guagliò, sii tuosto”. Impugnò la penna e mi lasciò questa dedica: “A Rosario, con tenerezza. Pupella”.

Oggi mi piace ricordarlo così, ripensando a molti di quegli attori che, forse a quest’ora, insieme ad Eduardo stanno deliziando il Padreterno con uno spettacolo scritto apposta per lui.

Diario di viaggio: L’altra faccia della Slovenia tra le montagne di Kobarid

Rosario PipoloLontano dal varco della frontiera che porta dal Venezia-Giulia verso le spiagge della Slovenia. Lontano dai villeggianti italiani che si crogiolano al sole dall’altra parte dell’Adriatico, nel primo tratto dell’ex Jugoslavia, custode di troppa memoria per essere l’alternativa ai bagordi di Rimini e Riccione degli anni ’80.
Lontano da tutto questo, a ridosso del varco del Friuli, per raggiungere l’altra Slovenia: quella dei boschi, delle montagne, del fiume Isonzo che continua a scrivere pagine di storia.

Ha un senso spingersi verso Kobarid, la nostra Caporetto, quella che fin dai giorni delle scuole elementari fu per noi il cimelio geografico per eccellenza della grande disfatta bellica. E’ inutile far finta di niente. Affacciandosi sulla splendida valle dell’Isonzo, lungo l’abbraccio tra Kobarid e Tolmin, il paesaggio meraviglioso e l’aria vacanziera non possono distoglierci dal peso della memoria.
In questa valle sono assiepate le trincee della Grande Guerra come cicatrici sulla pelle. Non bastano un buon piatto di zlikrofi e una fetta di torta gibanica per togliere l’amaro di bocca.

Il toccante Kobariski Muzej, il museo della Grande Guerra di Caporetto, ti fa scattare la voglia di mandare all’aria “la vacanza fancazzista”. Torni a sentirti viaggiatore appena ti inerpichi sopra il sacrario militare di Sant’Antonio, che raccoglie le spoglie di oltre settemila soldati italiani.
Allora ti chiedi: questa non doveva essere la vacanza “paletta e secchiello on the beach” da spiaccicare su Facebook per sedimentare l’ingordigia del noioso reality estivo dei social network?

Lo ribadisco. Chi fa vacanza torna alla routine con nostalgia e rassegnazione; chi fa un viaggio torna per ripartire subito. Perché? Perché ha avuto l’umiltà di guardare con i propri occhi anche le cicatrici lasciate dalla storia.

Diario di viaggio: sul sacrario militare di Redipuglia come ad Auschwitz

Rosario Pipolo“Spara soldato, non aver paura!”, ti urlavano dalle trincee. Eri partito per il fronte convinto che saresti tornato, con l’illusione nel cuore che avresti fatto una passeggiata con la tua fidanzata sotto gli alberi del Friuli-VeneziaGiulia.

“Mangia soldato, ingoia questi bocconi amari”, perché il rancio che ti passavano non aveva niente a che vedere con i cibi cotti a legna da tua madre.

“Scrivi soldato ma non raccontare a casa l’inferno che stai vivendo”, ti ordinavano dal fronte. Tanto tuo padre non sapeva leggere e ogni santo giorno, al calar del sole, dopo aver zappato la terra che ti aveva partorito, guardava all’orizzonte con la speranza di vedere la tua sagoma.

Il mio viaggio della memoria, dopo la mia visita ad Auschwitz di tanti anni fa, riparte da qui, dal sacrario militare di Redipuglia. Qui, dove la terra del Friuli-VeneziaGiulia custosice da cent’anni la memoria della Grande Guerra, mi fermo in silenzio per guardare in viso gli eroi, figli caduti sul Carso, mandati a perire nella “grande disfatta” che ha recintato la mietitura dell’imperdonabile flagello d’Europa.

Soldato Augusto. Presente. Soldato Pietro. Presente. Soldato Giovanni. Presente. Soldato Paolo. Presente. Soldato Vittorio. Presente. Soldato “ignoto”. Presente. Quanti siete, non si finisce mai di contare. Su ogni gradino trovo ritagli di vite mancate; il rumore di ogni mio passo viene spezzato da questo interminabile silenzio. E solo le ultime gocce d’acqua mi fanno capire che qui piovono le lacrime del Padreterno, perché ai tempi della globalizzazione non abbiamo ammesso ancora che ogni guerra, come recitava il titolo di un film di Renoir, resta una “grande illusione”.

Ogni italiano dovrebbe venire qui riempire un viaggio con le dovute riflessioni. Ed io, che oggi ho rinunciato ad un banale giorno vacanziero al mare, ho restituito al mio viaggio il volto della verità. Se oggi esisto, è grazie al sacrificio di tutti voi.

Diario di viaggio: il retrogusto di Trieste e il buon cibo di Foraperfora

Rosario PipoloTrieste è un posto incantevole, crocevia che la storia ha messo nelle condizioni di far incontrare persone di culture diverse. Il buon cibo è voce riflessa di tutto questo e chi si sente ingannato non ha compreso fino in fondo lo spirito della culla del Venezia-Giulia.
Foraperfora, il nome buffo dell’osteria che sbuca sia su via Diaz che su via Cadorna, rende bene l’idea: entri da una parte e te ne esci dall’altra, perché i triestini sanno bene che la “doppia entrata” è il modo migliore per rubare i passi alla vita senza voltare le spalle al passato.

Mauro Rizzato ha trascorso una vita dietro i fornelli, osservando la nonna che preparava, con gli avanzi del giorno prima, i succulenti gnocchi di pane. Dopo l’avventura di oste all’osmizetta de Cavana, Mauro ha traslocato in questa vecchio covo triestino.
A Foraperfora c’è chi si affaccia per sorseggiare della buona birra non filtrata, per mangiucchiare affettati accompagnati da un vinello locale o per portarsi a casa la migliore cartolina culinaria di Trieste. Quest’ultimo sono io. Altro che estate, mi rifocillo con piatti autunnali: dalle tagliatelle fatte in casa con i porcini alla caldaia con crauti; dal cragno e crauti alla crema Foraperfora con l’intrusione del mascarpone.

Lo staff è così simpatico ed imprevedibile che ti verrebbe voglia di fare un casting per una serie televisiva. Nessun copione alla mano ma in compenso tanta spontaneità come la comunità del Venezia-Giulia. L’affettatrice sputa fuori il prosciutto friulano, piatti vanno e vengono dalla cucina e poi ecco arrivare la cliente che lamenta i tempi d’attesa o la posata mancante. Come si vede che “la lady schizzinosa” non è amante del buon cibo. Non ha capito che qui non siamo al ristorante, ma respiriamo l’atmosfera di un osmize carsico in pieno centro a Triestre.

Mentre vado via mi sembra di intravedere seduti ad un tavolo Joyce e Svevo. Pare che scriveranno un racconto “a quattro mani” e ci infileranno dentro quelli di Foraperfora. Allucinazione? No. Tutta colpa degli shottini triestini, che Mauro mi ha fatto assaggiare alla fine della cena. Il viaggiatore va via soddisfatto tutte le volte che ritagli di storia giocano a nascondino sotto il palato.

Cartolina di agosto: quando il compleanno va in vacanza

Rosario PipoloMetti che hai un papà appassionato di foto. Metti che mancano pochi giorni al tuo compleanno e apri l’album di famiglia.  Ecco che spunta fuori questa magnifica foto dei tempi dei rullini, quando non vivevano l’affanno di accumulare immagini e scaraventarle su un Pc. Mi ricorda i compleanni vacanzieri. Anche a me è toccata la stessa sorte della festeggiata qui ritratta, oltre quella di essere “occhialuto”: i nati come noi nei mesi estivi non si sono mai ritrovati a far la festicciola con gli amichetti, perché o loro o noi eravamo in vacanza.

I miei sono stati sempre compleanni nomadi da una località balneare ad un’altra. La bimba occhialuta in questa foto assomiglia alla piccola Daniela a Scalea, la mia compagna di giochi d’estate, l’unica che avrei voluto accanto al festa improvvisata dai miei.  Puntualmente era assente, perché la famiglia terminava le vacanze nello stesso giorno in cui spegnevo le candeline!

Questa immagine, che ho scelto come cartolina per dare il benvenuto al mese di agosto, mi solletica una riflessione. Dovremmo tirar fuori più spesso dal cassetto le nostre vecchie foto, senza però farci prendere da quella odiosa nostalgia canaglia.
Sarebbe un modo per catturare in un dettaglio  il bello che ci portiamo dentro, proprio come l’autenticità di questa bimba nascosta dentro una smorfia. Ci ostiniamo a fare i grandi, a giocare a nascondino, per difenderci da questa aggressività sparsa ovunque.

Troppo spesso siamo distratti per accorgerci di chi ci passa accanto. Solo colpa della routine che ci schiaccia sotto il peso delle corse e rincorse? Il prossimo 6 agosto quella bimba forse tornerà a soffiare le candeline nello stesso posto, ricreando il magico remake di questa foto. Come in suggestivo fuorionda, tornerà il brusio delle voci che allora erano intorno a questo scatto.
Noi invece vi aggiungeremo, attraverso i trilli di un carillon, “Martha my dear” dei Beatles come colonna sonora e replicheremo: “I compleanni vanno in vacanza, noi continuiamo a restare qui per essere noi stessi”.