Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Diario d’estate: Alla ricerca di Gaëtan, sulla spiaggia di Saint-Clair

Rosario PipoloSulla spiaggia di Saint-Clair, a Le Lavandou, hanno lasciato un nome scritto sulla sabbia: Gaëtan. Il sole era spuntato da qualche ora sulla costa meridionale della Francia e non si vedeva anima viva. In lontananza c’era solo un vecchio scorbutico che camminava in riva al mare con un paio di baguette sotto braccio. Era forse lo stesso uomo di cui hanno scritto il nome sulla spiaggia? Lui diceva di no. Gaëtan, sarto del Sud Italia espatriato in Francia alla fine degli anni ’50, diventò autista di autobus. Fu lì che conobbe, quarant’anni dopo, Noëlla. Gaëtan non diventò francese quando lo stato d’oltralpe gli francesizzò il nome, ma appena Noëlla e i suoi 6 figli lo vestirono di amore, restituendogli il significato di famiglia.

Ci sono tanti modi per dare e restituire amore. Eccone uno. Mi sono messo alla ricerca di Gaëtan, camminando a piedi nudi sulla spiaggia di Saint-Clair. Ho passato le prime vacanze dei 40 anni a cercarlo ogni giorno per farmi raccontare come fosse cambiata la sua vita laggiù. Non lo avevo visto invecchiare e lo immaginavo sospeso nel tempo come una comparsa del mio romanzo, che portava il suo stesso nome.

Durante questi quindici giorni intensi, ho incrociato diverse persone che, avvistandomi, mi ripetevano la stessa cosa: “Gaëtan non lo troverà, se non in ciò che ciascuno di noi ti regalerà”. C’era chi mi offriva un panorama, chi un pezzo di formaggio o di salame, chi un ricordo o un bicchiere di vino, chi un soffio di vento o una vecchia fotografia. Tutti questi doni erano appartenuti a lui. Ognuno di loro aveva conosciuto Gaëtan e provava a restituirmelo attraverso un odore, un sapore, una libellula della memoria.

Qualcuno addirittura diceva che gli assomigliavo, in quel mia maniera di “far famiglia” con chiunque mi capitasse davanti. Alla fine del mio viaggio sono finito al Camping Le Marmier di Le Lavandou. In una piccola aiuola tutti i campeggiatori avevano seminato un fiore per ricordare Gaëtan e lì ho trovato una copia del mio romanzo, che Gaëtan non aveva finito di leggere. A pagina diciotto aveva messo come segnalibro una foto ingiallita che lo ritraeva assieme ad un bambino occhialuto. Il marmocchio ero io. Quell’immagine ha fatto scivolare via la vigliaccheria che mi aveva impedito di arrivare in quel posto in tempo per abbracciarlo l’ultima volta. Poi mi sono ricordato le parole che gli avevo sussurrato subito dopo quello scatto: “Zio Gaetano, torna presto. Quando sarò più grande voglio passare tutta l’estate con te”.

Questa è stata l’estate mia e di Gaëtan. Io non sono più un bambino, ma un uomo dai capelli brizzolati. E lui è diventato una scritta sulla sabbia, lì sulla spiaggia di Saint-Clair.

Diario d’estate: I sassolini di Luisa nella tasca scucita dei miei 40 anni

Rosario PipoloQualche settimana fa ho portato l’auto al lavaggio sotto casa. Quando sono tornato a riprenderla, un tizio mi ha detto: “Tenga, abbiamo trovato questo”. Era un sacchetto. Buttando l’occhio, vi ho trovato una miriade di sassolini. Cosa ci facevano nella mia auto?

Mi è tornato in mente il brano Le tasche piene di sassi di Lorenzo Cherubini. Pensavo a quanto una manciata di sassi possa appesantire la nostra quotidianità quando la vita minaccia di ridurre tutto ad “un mantello fatto di stracci”. Eppure non riuscivo a ricordare come fossero finiti nella mia auto. Assomigliavano a quelli che raccoglievo in un secchiello da bambino, nella mattine estive in riva al mare della Calabria. Sì, proprio quei sassolini.

Sono rincasato. Li ho lasciati cadere sul tappeto del soggiorno. Ho provato a contarli, ma erano tanti. In quell’istante mi è tornata in mente un pomeriggio della scorsa estate su una spiaggia marchigiana e lei che mi disse: “Guarda qui. Che bei colori. Toccali, è ancora appiccicato il profumo di mare. Ne ho raccolti tanti. Altro che souvenir, con tutti questi sassolini faremo un bel quadretto per ricordare la prima vacanza condivisa assieme”.

Ecco da dove provenivano, dal lungo litorale delle Marche. Erano rimasti imprigionati per un anno sotto il sedile della mia auto. Mi avevano tenuto compagnia quando ero al volante, senza lasciarmi mai solo. Quei sassolini, usciti fuori dalla tasca scucita dei miei 40 anni, non assomigliavano per niente a quelli della canzone di Jovanotti, ma avevano ricopiato gli auguri di compleanno che Luisa mi aveva lasciato dentro un mantello fatto di stelle: “40 anni, solo un anno in più ma l’animo è e sarà sempre lo stesso. Auguri a te persona unica e speciale, uomo che ti sei costruito da solo, che vivi di passioni, che combatti per ciò che vuoi, che realizzi ciò che desideri, che accogli gli altri così come sono, che fai famiglia con le persone che incontri, che rendi speciale una giornata uggiosa, che rendi una semplice passeggiata un viaggio inaspettato. Vai verso il futuro con la carica del passato e la spinta della curiosità a scoprire cosa l’avvenire ti riserverà”.

I sassolini di Luisa dell’estate scorsa calcavano il tracciato di questa mia prima estate da quarantenne, sotto il cielo della notte magica  di San Lorenzo in cui anche un sasso torna ad essere una stella cadente.

40 anni di sogni da vagabondo

Io e mia sorella Rossella nei primi anni '80

A modo mio lo farò in questo giorno che non assomiglia a nessun altro. Forse solo a quello in cui soffiai su una barchetta di carta e la feci andare a largo, appesantendola con i sogni di un bimbo occhialuto. 40 anni di sogni da vagabondo, duellando con il destino che mi voleva ragazzo rammollito di periferia nella landa della provincia, che predilige il vivere per apparire, lungo gli argini della desolazione dei ruoli sociali.

I parenti mi hanno insegnato che i legami e gli affetti non si sottoscrivono all’ufficio anagrafe, ma negli incontri casuali lungo la strada della vita. Perciò non si può restare nello stesso posto. Quello che per gli altri sarebbe stato un privilegio, per me sarebbe stata la peggior condanna che possa accadere ad uno zingaro felice.

Gli angeli, che da bambio incantato osservavo affrescati sulle pareti, mi hanno insegnato che non hanno le ali, non volano in alto, camminano nel basso, ci restano accanto e sono coloro a cui spesso neghiamo l’attenzione. Perciò si deve sempre “restare con i piedi per terra”.

I ribelli mi hanno insegnato che la sottomissione è dei vili e che dobbiamo tirar fuori l’urlo rabbioso affinché il prossimo istante sia migliore dell’utopia stretta al cuore.

I viaggi mi hanno insegnato che tutto cambia al momento del ritorno, che la diversità è una ricchezza immensa per andare incontro ad un giorno nuovo e che il significato del tragitto è più importante della meta stessa.

I sogni mi hanno insegnato che sanno essere leggeri come i palloncini colorati in volo e consistenti come le emozioni che danno un valore aggiunto alla vita.

I soldati e i civili morti in guerra mi hanno insegnato che Dio, nel tardo pomeriggio, gira le spalle agli altari e va ad appisolarsi in cima alle montagne, tra le trincee. Lì l’ho visto la prima volta con i miei occhi.

L’uomo in croce mi ha insegnato che donare la vita al prossimo può redimere il peggior farabutto pochi istanti prima che tutto sia finito.

Gli amici mi hanno insegnato che non sono fatti su misura per tutte le stagioni della vita. I cambiamenti spazzano via i recinti ed incidono sul bisogno di legami diversi, più acuti e profondi.

I borghesi piccoli piccoli mi hanno insegnato ad accelerare la fuga dalla famigliola alla Mulino Bianco, profumata negli spot pubblicitari, ma puzzolente e fradicia nello scorrere dell’insignificante routine.

I morti mi hanno insegnato che non se ne vanno via, ma ci restano accanto. I fantasmi non esistono, sono le proiezioni delle nostre coscienze indifese. Al contrario le persone che abbiamo amato continuano ad esistere in ogni piccolo gesto che maschera il ghigno della memoria e svela il segreto del nostro destino.

La musica ha sottratto la sordità al mio udito; il teatro ha fatto sì che il legno del palcoscenico fosse la quercia attraverso cui piantare le mie radici; il cinema ha cancellato la cecità della mia coscienza civile.

Il lavoro mi ha insegnato che a spuntarla è colui che non accartoccia la propria essenze e non tradisce mai le proprie passioni.

L’amore mi ha insegnato che non sono le distanze anagrafiche a separare, ma le barriere culturali e sociali. Non bisogna mollare o ripiegare, perché esiste una sola strada per i sentimenti: quella che, attraverso il cuore, conduce alla felicità in uno scintillio che spalanca lo sguardo dell’altro sulla condivisione.

Oggi, 17 luglio 2013, sono arrivato in cima alla montagna, a modo mio. Il sentiero non mi è stato indicato dai “maestri santoni”, ma dalla quotidianità. E da questa posizione guardo sospeso 40 anni di sogni da vagabondo. Li ho vissuti istante dopo istante e provo lo stupore di chi ha dato finalmente un nome allo spettacolo più incredibile dell’universo: la vita. 

E la mia ha 40 anni.

Addio Fnac Italia! Via Torino a Milano non sarà più la stessa…

Rosario PipoloAddio Fnac Italia. E’ amaro, ma è così. Uno come me divoratore di musica, film e libri non può che essere affezionato ai tuoi scaffali. Perché? Perché una parte del mio cuore è francese, essendosi trasferita nel Sud della Francia un pezzetto della famiglia di papà. Nel 1996 mia cugina Gabrielle mi portò per la prima volta in una Fnac, era quella di Tolone. Mi regalò alcuni libri di grammatica francese, che mi hanno giovato all’università. E poi era lì che, durante le estate francesi, andavo a rovistare per cercare a prezzi modici la musica di Serge Gainsbourg.

I miei primi dieci anni a Milano sono stati decisamente uno per uno “fnaciani”. Ricordo nel gennaio del 2003, appena sbarcato a Milano, mi precipitai a via Torino per scoprire la sede milanese – era la prima che visitavo in Italia – e cogliere al volo i cd con il bollino “Affare FNAC”. Pure con pochi soldi in tasca, riuscivo ad uscire con qualcosa di buono.

Addio Fnac Italia. E’ amaro, ma è così. I rumor ormai sono certezza e uno di questi giorni troveremo Trony al tuo posto. Via Torino a Milano non sarà più la stessa senza Fnac. Per me è come dire Parigi senza i Magazzini LaFayette. Mi mancheranno le chiacchierate con gli addetti del reparto musica, grandi conoscitori della materia, le mie incursioni in compagnia di mio cugino Massimiliano,  i sorrisi delle cassiere da cui ogni volta portavo via una piccola storia per il mio diario.

Lo so, Fnac Italia, che non bisogna essere sentimentali al giorno d’oggi. Mi toccherà espatriare in Francia, perché senza Fnac io non posso stare. Il motivo è uno solo: sulle tue scale mobili ho fatto salire e scendere un mucchio dei miei sogni. Alcuni li ho riposti nei tuoi scaffali, tra libri, dvd e cd. Un giorno tornerò a riprendermeli.

Quelli che…il sabato prima di Pasqua si svegliano senza Enzo Jannacci

Rosario PipoloOgni volta che sbucavo in camerino, mi ripeteva con il suo tono ironico e scanzonato che ero “una persecuzione”. Che cosa ci avrei fatto mai con quelle firme di Enzo Jannacci spiaccicate su vecchi 45giri e cd? Niente, mi sarei messo ad osservare la traiettoria dell’inchiostro, le curve, le microscopiche sbavature della penna che filtravano la consistenza del suo essere artista.

Enzo Jannacci è morto ieri in tarda sera, all’ombra di un Venerdì Santo. Milano resta davvero sola. Si sentiranno più soli quelli che come me sono venuti a cercar fortuna nella città che lo ha allevato ed ha fatto da sfondo alle sue storie. Jannacci, il medico chirurgo che sotto il camice aveva l’estro di un giullare, il cuore di un jazzista, l’anima del cantautore, ha cantato gli ultimi e i dimenticati, i poveri ed emarginati Lo ha fatto senza prendersi mai troppo sul serio. Quelli che come “Vincenzina” andavano in fabbrica, quelli che portavano “le scarp da tennis”. Jannacci le aveva sfilate zitto zitto alla borghesia invaghita che aveva rinchiuso la terra ambrosiana nel sogno fasullo della Milano da bere.

Le canzoni di Enzo Jannacci, da “Quelli che…” a “Vengo anch’io. No, tu no”, hanno investito la nostra anima della tipica teatralità che non puoi condividere con una persona qualunque. Devi sottrarla al torpore della massa e ficcarla nell’immaginario di chi continuerà a sognare da solo, attraverso le storie di Milano, diluite nel suo repertorio che recupera anche la bellezza e la magia del dialetto. Grazie ai fotoromanzi musicati di Jannacci abbiamo abbattuto gli stereotipi e avvistato lo stupore in certi angoli nascosti di questi luoghi, i suoi. E persino Rogoredo, sfinita nel tanfo della periferia, resta l’angolo popolare che dalla crudele realtà metropolitana gioca a nascondino nei versi dell’omonima canzone.

Se dobbiamo dire addio a Enzo Jannacci, facciamolo pure con una certezza: da oggi, ad un passo dalla Pasqua, assieme a Giorgio Gaber canterà le storie di noi umani al popolo di angeli, che forse ha perso da un pezzo le contraddizioni strampalate dell’umanità. Per fortuna, non siamo tutti uguali e pochi di noi hanno la fortuna di potersi incontrare nei versi di quella canzone: “Son s’cioppaa… son scoppiato dal ridere ma che pena vederti, fare finta di piangere. Son s’cioppaa, tu che neghi le Marlboro, tu che adesso hai capito come nascono i comici”. Abbiamo imparato la lezione di “come nascono i comici”, proprio quando ci ostinavamo a stare lontano dai nostri simili.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=3sD0ITYCd_s&w=420&h=315]

Diario di compleanno: Il bimbo “pirata” e i 50 anni della cassiera della Standa

Rosario PipoloAlla fine degli anni Settanta aprirono una piccola Standa, nel centro storico del mio paese. Mentre fuori il territorio metteva i tappi alle orecchie per non sentire i colpi roventi della criminalità di allora, io in quel supermercato capii come guidare il carrello e mi vantavo di riconoscere i prodotti della spesa di mamma attraverso i colori delle confezioni. Quando imparai a leggere, mi divertivo a decifrare le etichette ad alta voce e spesso attiravo l’attenzione di un gruppo di ragazze carine che lavoravano lì.

Ce ne era una che mi colpiva. Era spesso al reparto cosmetici. Mentre allestiva la vetrinetta, riuscivo a strapparle un sorriso. Ai tempi mi sentivo un bimbo occhialuto e per giunta “pirata”: Il Prof. Marcello Gaipa mi aveva piazzato un benda sull’occhio sinistro e quella era l’unica via di salvezza per il mio occhio pigro. Tornando alla ragazza della Standa, una volta all’uscita da scuola, la trovai alla cassa. Avevo il broncio. A scuola non avevo trovato nessuna damigella per il ballo di Carnevale. La cassiera della Standa mi chiese se avessi la fidanzata. Ed io, indicandole l’occhio bendato, le feci segno come a dire chi mi avrebbe mai preso conciato in quella maniera. Prese una manciata di caramelle e la mise nel palmo della mia mano, smaltendo tanta tenerezza in un filo di voce rassicurante: “Quando toglierai la benda, il tuo occhio guarirà e tornerai ad essere il bambino più bello del mondo”.

Le caramelle finirono e la Standa, a ridosso della vecchia piazza San Pietro, chiuse i battenti quando mi tolsero la benda. Volevo farmi vedere dalla cassiera, ma lei non c’era più. Infilando la mano nel grembiule trovai una caramella, l’ultima, che non avevo mai scartato.
Oggi la ragazza della Standa compie 50 anni. L’ho ritrovata nella notte del suo compleanno e le restituisco l’ultima caramella che ho conservato in tutti questi anni, regalandole questo aneddoto da libro Cuore. A quel tempo ero un cucciolo addomesticato, oggi sono un randagio vagabondo che però non ha mai strappato le pagine del suo diario. Non conoscevo il nome della cassiera della Standa, ma visto che a volte il destino ci mette del suo per farci ritrovare le persone che hanno sfiorato la nostra infanzia, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, posso scegliere liberamente e legittimamente come chiamarla: Buon compleanno, zia.

I miei dieci anni a Milano: dalla tribù al nomadismo

Milano

Rosario PipoloIl 16 gennaio di dieci anni fa mi trasferii definitivamente a Milano. Arrivai in auto di domenica sera, con lo stretto necessario che ingombrò tutta la macchina. Ricordo il momento in cui mi coricai: da un letto che non era mio, osservavo nella penombra della stanza un mucchio di scatoloni. Non mi faceva effetto il contenuto, piuttosto il peso dei sogni che vi avevo messo dentro. Tutti mi dicevano che Milano mi avrebbe “tirato il pacco” con il vento di crisi che tirava. Da una parte del capoluogo lombardo girava il jazz del neonato Blue Note, dall’altra il vuoto musicale per la perdita recente di Giorgio Gaber. Tra le bancarelle della fiera di Sinigaglia ritrovai le atmosfere del mercatino della Duchesca di Napoli. Escogitavo sempre il modo per lasciare in tasca 5 euro da investire lì per un libro o un disco. Prima di lasciare Napoli, zio Mimmo da Firenze mi aveva donato un consiglio che mi ha accompagnato in tutto questo tempo: “Sforzarmi di trovare sempre i miei piccoli spazi ovunque, senza permettere ai nuovi luoghi di cambiarmi”.

Ho conosciuto una marea di persone in questi 3.650 giorni vissuti qui: siamo rimasti in pochi, gli altri hanno mollato il colpo e sono andati via. I motivi erano vari: chi non aveva trovato un lavoro dignitoso; chi non si era adattato ai ritmi della metropoli; chi non resisteva lontano dagli affetti e dalla famiglia. Gli ultimi due motivi sembravano far parte del corredo genetico dell’emigrante. Io me ne ero andato di punto in bianco, dalla sera alla mattina, senza provare questo senso di sdradicamento e mi infastidiva sentire il solito luogo comune “Lì al Nord”. Mica ero finito su un altro pianeta?
Fino ad allora pensavo che forse per tutti fosse facile e naturale trasferirsi da una città ad un’altra. Davo per scontato che la necessità di nuove esperienze e la rinuncia al perimetro della “tribù” per “il nomadismo” fosse naturale per tutti. Mi ero sbagliato. Ho girato e rigirato, raccogliendo piccole storie e testimonianze di chi ha tenuto nascosto dentro questo disagio. Una sofferenza per alcuni davvero insormontabile, perché si commetteva un errore grossolano: rinchiudersi in una nuova tribù e condividere la nostalgia di casa.

Nomadismo non significa né rinnegare le proprie radici né trascurare i propri affetti, ma aprirsi alle opportunità che ogni luogo, diverso da quello in cui siamo cresciuti, ci offre. In questi dieci anni Milano mi ha dato,ma allo stesso tempo ha tentato in più occasioni di sottrarmi qualcosa. Ciò che mi ha tolto Milano, me lo hanno restituito le decine e decine di persone con cui ho condiviso migliaia di pagine del mio diario milanese. Questa non sarà mai la mia città, ma lo diventa ogni volta che porto qualcuno in giro con me e gli racconto che, anche in una metropoli come questa, dove ho conosciuto personalmente milanesi della vecchia città come Alda Merini, Roberto Vecchioni, Sergio Bonelli, Enzo Jannacci, Fernanda Pivano e tanti altri,  possono germogliare i piccoli sogni di un ragazzo di periferia del Sud.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=BOkp-KsT64E&w=420&h=315]

Cartolina da Seyne-sur-Mer: Michel è partito senza il bicchiere di Pastis

Ricordo un sabato mattina d’estate, al mercato. Il brusio delle persone, lo schiamazzo dei bambini, i venditori ambulanti che gridavano “Bon prix, bon prix!”. Sembrava di essere a casa, nel mio Sud. Invece ero in Francia, a la Seyne-sur Mer, un paesotto avvinghiato tra Provenza e Costa Azzurra. Gente semplice, alla buona, tanti emigranti sbarcati dal Sud dell’Italia.
Passai davanti a una brasserie. Mi chiamavano. Erano Michel e Vincenzo, i miei zii. Il primo un emigrante italiano; il secondo un francese di quelle parti. Si conobbero negli anni sessanta, diventarono cognati e anche due buoni amici.

Mi offrirono da bere. Mancava ancora un bel pezzo all’ora di pranzo e mi fecero ubriacare con il Pastis, l’irrinunciabile aperitivo alcolico dal profumo d’anice che scioglie Marsiglia e le sue strade sotto il giaccone di un bicchiere. L’anice del Pastis si confondeva con l’odore del pesce fritto venduto in strada e con la salsedine accantonata dal porticciolo poco distante. Michel era un tipo alla buona, alla mano: il suo francese aveva l’inflessione marsigliese; il suo sorriso quello di uomo del Sud che si accontentava di cose semplici.

Michel e Vincenzo mi raccontarono di quando se ne andavano in campagna, laggiù nel cuore della Provenza, a fiondarsi sotto un albero, a bere vino. Condividevano i colori del loro Sud, quello che Nino Ferrer dipinse nella sua splendida canzone.
Michel se n’è andato ed ha lasciato mezzo vuoto il suo bicchiere di Pastis. L’altra parte del bicchiere la riempio io, allungandola con il ricordo di un sabato d’estate in cui, assieme a zio Michel, francesizzai la mia anima meridionale.

[youtube=http://youtu.be/RAKgO2e6rME]

Addio a Carlo Maria Martini, il Gesuita che avremmo voluto Papa

Il polacco Karol Wojtyla si era dimostrato un bravo talent scout e ci vide lungo nello sguardo algido di quel Gesuita, che sarebbe stato l’unico e legittimo successore. Carlo Maria Martini, l’Arcivescovo emerito di Milano, si è spento qualche ora fa a Gallarate, a pochi chilometri da Varese, dove da diversi anni combatteva contro il Parkinson. I non credenti hanno apprezzato il temperamento sobrio del filosofo, la sua apertura al dialogo verso le altre religioni; i fedeli invece l’integrità spirituale del padre Gesuita.

Carlo Maria Martini è stato capace di allenare una comunità, all’ombra del pontificato di Giovanni Paolo II, proteggendola dal conservatorismo che ha affossato la Chiesa, remando per mandare alla deriva il passato, guardando agli errori, simili ai peggiori scheletri nell’armadio, con le lenti del riformista. Battendo il pugno per affermare che “Dio non è cattolico”, il padre spirituale che era in lui ha ceduto il passo all’insuperabile biblista. Carlo Maria Martini aveva tenuto vigile lo sguardo sul futuro e sui cambi di stagione, fu sentinella mentre Milano usciva a fatica dal tunnel degli Anni di Piombo per finire affogata nell’ingordigia della movida degli yuppies e del rampantismo del tempo avvenire. Non lo aveva fatto però con lo scettro del sovrano despota, ma con l’intelligenza e la spiritualità che sanno fare di un Gesuita un principe e un essere davvero speciale.

Carlo Maria Martini è stato il Papa mancato, il Pontefice che alcuni di noi avrebbero voluto incrociare. E’ inutile girarci intorno, se non fosse stato per la feroce malattia, sarebbe arrivato a Roma con l’appoggio sacrosanto del Padreterno. E la manciata dei voti che ha fatto sogghignare i conservatori con l’elezione di Ratzinger, nella virata più a destra rispetto alle previsioni ottimiste, avrebbe consegnato la Chiesa nelle uniche mani che potevano tracciare la linea di continuità con il pontificato di Giovanni Paolo II.

Nel dicembre del 1998, in un gelido pomeriggio, lasciai in un angolo del Duomo di Milano un biglietto per lui. Quando tornai a Napoli, dopo una notte di treno, trovai una lettera che proveniva da Milano. C’era scritto pressappoco così: “Abbiamo trovato il suo biglietto nella Cattedrale. Il Cardinal Martini ha apprezzato le sue belle parole. Lui è vicino ai giovani. Rosario, non perda mai la speranza.” La conservai nella tasca del jeans e una settimana dopo risalii sullo stesso treno Espresso per tornare a cercare fortuna in una città che non era mia. Carlo Maria Martini, il Gesuita dalle ampie vedute, ha chiuso gli occhi a pochi metri da dove abito oggi. Di lui mi resta qualche goccia dell’ inchiostro che incoraggiò un ragazzotto del Sud a difendere valori e sogni dai paladini del cinismo.

  Habemus Papam vicino a Martini: Il gesuita moderato argentino…

Diario di Viaggio: Shalom Gianna, sotto gli occhi del mare…

Nel 1978 Rino Gaetano cantò “Gianna Gianna Gianna sosteneva tesi e illusioni Gianna Gianna Gianna prometteva pareti e fiumi, Gianna Gianna aveva un coccodrillo”. Di Gianna mi affascinava il fatto che avesse un coccodrillo e così da bimbo occhialuto mi misi alla sua ricerca.
L’ho trovata quest’estate, in spiaggia, dopo 35 anni, scoprendo che forse Rino Gaetano aveva sbagliato in qualche verso della celebre canzone.

Gianna non aveva “un coccodrillo”, ma un vecchio certificato ingiallito in una soffitta di Roma su cui era scritto “di razza ebraica”. Gianna aveva fatto bene a sostenere tesi e illusioni per ritrovare brandelli della sua vita in riva al mare.
Che strano, sotto l’ombrellone siamo soliti parlare del più e del meno, condividere banalità, invece può accadere che il bauletto della memoria si scuota a ridosso di Ferragosto: una sorellina scomparsa tra le braccia del ‘900 e un fratellino nascosto in un convento per sottrarlo alle persecuzioni che nel Belpaese fascista toccavano a chi fosse di un’altra razza.

Attraverso gli occhiali scuri di Gianna ho risfogliato alcune belle pagine di Giorgio Bassani, quelle di Il Giardino dei Finzi-Contini, dove alla narrazione non sfugge la peccaminosa catena delle leggi razziali, applicate in Italia nel 1938 contro la comunità israelita. Sembra roba di altri tempi, ma soprattutto roba che non riguardi l’Italia, perché Aushwitz era geograficamente lontana dalla nostra penisola. Mettiamo da parte l’insostenibile leggerezza di chi vorrebbe far passare i governanti di allora come chi avesse poco a che fare con la lucida follia della Germania nazista.

Le nuove generazioni provano rancore per alcune scelte ingiustificate dello stato di Israele. Che l’errore di politici e capi di stato non ricada sui singoli individui, sul loro vissuto, sul tappeto del loro dolore.
Ho cercato Gianna per mare e monti. Sarebbe bastato andare in una sinagoga in Italia. Me l’ha restituita il mare. Shalom, Gianna.