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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Vent’anni fa la mia “notte prima degli esami”: La maturità arriverà…

Fu vent’anni fa. Come se oggi si trattasse di chissà quale anniversario o ricorrenza speciale. Sì, vent’anni fa la mia maturità, che alla fine mi giocai in quella “Notte prima degli esami”. Lo cantava Antonella Venditti nella canzone che ci ha attraversati, chi più o chi meno, tatuando sulla pelle la svolta di una generazione.

Eppure rivedendo le facce sgomente dei miei compagni di classe – io passavo per lo strafottente di turno – sorrido al pensiero della convinzione che circolava: la commissione ci aveva in pugno, come se il nostro destino si fosse impigliato tra spasimi nozionistici, versioni di latino andate a male, temi scopiazzati. La sera prima degli scritti, a cavallo di una Vespa rossa PK 50Xl, mi sentivo come John Wayne in un vecchio Western.
Nella cartucciera non avevo piombo a sufficienza da spiattellare in faccia al nemico, bensì temi d’italiano in miniatura che erano passati per tante altre mani. Sarebbe bastato l’inchiostro di una biro, lo stesso che avrei sparso anni dopo per scrivere i primi articoli, per affrontare gli esami. In quell’inchiostro erano diluiti i sogni e le passioni, che avrei difeso anche fuori dalle mura di quel liceo di periferia.

Torno a ripeterlo la partita me la giocai nella “Notte prima degli esami”, nelle ore intessute di magia che segnarono il mio destino: restare un maturando a vita. Infatti, fu proprio questo stato di sospensione emotiva a convincermi anni dopo che io gli esami di maturità non li avevo sostenuti, che quel diploma non mi apparteneva. Piuttosto sarebbero stati parte di me i compagni di classe, ad uno ad uno; i professori che avevano mandato al diavolo il nozionismo per ricostruire un amarcord del pensiero; le mura imbrattate di quel liceo su cui avevamo scarabocchiato la voglia di continuare ad esistere.

Vent’anni fa come se oggi si trattasse di chissà quale anniversario o ricorrenza speciale. Sì, una ricorrenza speciale, perché gli esami di maturità devo sostenerli ancora. Chi non svuota mai la biro di sogni e passioni, avrà tante altre “notti prima degli esami” da affrontare. Nel 1992 guardavo il Monte Somma dalla finestra e mi chiedevo cosa ci fosse al di là. Oggi ho la pianura sterminata di fronte e non mi interrogo più su cosa ci sia al di là dell’orizzonte della mia esistenza, perché è tutto sospeso qui, nella magia della “notte degli esami che non sono arrivati ancora”.

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Cartolina dal Sud: Alla mia prof per i suoi 50 anni

L’ho vista scarabocchiare in una piccola stanza di un paese di periferia. La mamma accompagnò la sua mano e così quei buffi segni diventarono una “B” gigante, iniziale del suo nome.
L’ho vista mano nella mano con il papà mentre si chiudeva il passaggio a livello. E lui le disse: “La vedi questa piccola stazione? Non è mia, è di tutti. Ricordati sempre di lottare per ciò che è di tutti”. E poi fischiò e quel treno partì con lo sguardo rivolto verso il Vesuvio.
L’ho vista che si prendeva cura dei due fratelli. Quel giorno ci fu un temporale. Loro si spaventarono. Lei afferrò lo scialle della nonna e li avvolse come se fosse stata una giornata di sole.
Mentre Renato Zero cantava lo splendore delle emozioni, l’ho vista raggomitolata tra i sogni di una liceale e il peso di quei dizionari, riflettendo sulle radici e sulla memoria che sprofondavano fino all’alba di civiltà lontane.

L’ho vista sgomenta, nel mezzo degli anni ’70, mentre alle falde del Vulcano il Professore assassino spargeva sangue ovunque, senza sapere che “le idee sono come il sorriso di Dio in questo sputo di universo”.
L’ho vista in quella manifestazione in cui distribuivano tra uomini e donne garofani rossi. In quel fiore c’era il sogno di un mondo migliore, più giusto. Lei ne impugnò uno e, alzandolo al cielo, si ricordò delle parole di suo padre: “Difendi i più deboli, anche se resterai da sola”.
L’ho vista spaesata correre per il Rettifilo a Napoli, sulla strada verso l’Università, ma così determinata a trasformare lo studio in passione, nel riscatto della volgarità umana.

L’ho vista correre giù per le scale appena lui le fece un fischio. La portò a fare una passeggiata a San Marzano e le offri un’aranciata. Poi staccò il cerchietto della lattina e glielo infilò al dito. Le diede un bacio e le sussurrò: “Vedrai un giorno diventerò ingegnere e disegnerò io stesso la casa in cui vivremo con la nostra famiglia”.
L’ho vista in cattedra in quel liceo a difendere la Scuola Pubblica e a consegnare la dignità ad ogni studente. Dietro uno di quei banchi c’ero anche io.

Ho trovato un dono nel fazzoletto di questa terra, il mio Sud: la mia professoressa di Greco e Latino che è scesa dalla cattedra e per vent’anni ha custodito, senza giudicarlo, un suo alunno, forse il peggiore, quello segnato da un “5” in Greco nel primo quadrimestre a ridosso della Maturità. Man mano che si cresce non c’è più nessuno che si preoccupa per te. Lei per vent’anni si è preoccupata di me, ovunque io fossi, in qualsiasi angolo della terra. Mi ha lasciato un grande insegnamento: non avere mai paura di ammettere di amare, perché solo l’amore rende gli uomini liberi dalle brutture della vita e li allontana dalle vigliaccherie.  Prima di ripartire, mi ha lasciato l’ennesimo dono: “Noi qui siamo sempre gli stessi. Torno quando vuoi. Va’ e non accontentarti”.

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Il runner sulla carrozzella riscatta Milano nella domenica della Stramilano

Ci sta che Milano vista dalla sella di una bicicletta tiri fuori la sua vera anima, che non è di certo il clichè che le hanno incollato addosso i disadattati anti-metropoli. E se una domenica ecologica – avrebbero potuto bandire dalla circolazione anche i tassisti – è stata l’occasione per far tornare la gente a parlare con le strade segrete del capoluogo lombardo, i runner della Stramilano hanno allungato il verso di una canzone di Lucio Dalla: “Un vincitore vale quanto un vinto”.

Questo può accadere in una competizione sportiva – il verso dedicato ad Ayrton ce lo rammenta – ma non nella vita, dove i vincitori sono coloro che trasformano il nichilismo della sopravvivenza nello slancio dell’esistenza. Il vero vincitore della Stramilano l’ho visto intorno alle 11.30 dalla sella della mia bici, all’angolo di corso Buenos Aires: era un giovane sulla carrozzella che correva spedito. La forza delle gambe immobili si era riversata nei battiti del suo cuore e i palmi delle mani agguantavano la carrozzella come se fosse il prolungamento del corpo.
Quando il podista si è riversato in direzione di Porta Venezia, non ho avuto neanche il tempo di guardare la sua pettorina per capire chi fosse quel piccolo eroe.

Mi ha convinto che nella vita un “vincitore non vale quanto un vinto,” perché il podista paraplegico è riuscito a riscattare Milano dalle solite tartine stantie degli happy-hour; dai clamori delle passerelle; dai ritmi frenetici del luna park stacanovista, dalla nebbia riversata nei palazzi che non fa più distinguere cosa sia una mazzetta o una tangente; dalla multi-etnicità soffocata negli angoli dei ghetti; dal terrore di chi pensa che occorre possedere tanto per tornare a vivere questa città; dall’orrore degli arruffoni convinti che la matita di un Crepax, un verso della Merini o una canzone di Gaber siano soltanto scolorita memoria. Milano è tornata a correre con “le sue gambe”.

L’extra-terrestre e i 18 anni di una principessa umana

Qui, sulla faccia della terra, mi hanno scambiato per un clown. In realtà sono un marziano. Diciotto anni fa mi convocarono e mi dissero: “Prepara la valigia. Ti hanno già fatto il biglietto per andare sulla terra, in un piccolo paesino nel sud di uno stivaletto su una sfera”. Io a dire il vero non ci stavo capendo più niente. E come erano insistenti. Volevano farmi diventare il marziano custode di una bimba appena nata. Mi chiedevo: Non c’erano gli angeli a svolgere queste mansioni? Mi risposero: “Gli angeli custodi a volte sanno essere scontati e noiosi. Chi meglio di un extra-terrestre come te può custodire Annagioia? Entrerai in quella casa travestito da animatore e ci resterai fino ai prossimi 18 anni.” E così accadde.

Il 16 marzo del 1994 mi trovai ad alloggiare nel corpo di un ragazzo ventenne. Non mi sentivo a mio agio in quella carcassa, con i capelli lunghi e un paio di occhiali tondi. Nessuno mi riconobbe. Tuttu mi scambiavano per un clown buffo che sapeva soltanto far divertire. Che strani erano gli umani: ti etichettavano tra le sbarre della prigione del vivere per apparire.

Crescendo, soltanto lei mi disse in un pomeriggio d’estate: “Tu sei diverso, non sei come gli altri”. Allora mi resi conto che mi aveva riconosciuto. Poi mi guardò fisso e aggiunse: “Alla mia festa dei 18 anni, dopo mio padre, voglio ballare un lento con te”. Non sapevo che gli umani festeggiassero la maggiore età. Man mano che volavano gli anni, notavo i suoi cambiamenti. Era diventata una donna, una principessa. Mi faceva effetto. Sul mio pianeta il corpo non ha sostanza, ha consistenza l’interiorità, perché non ci sono le sbarre delle distanze temporali e anagrafiche.

Il fatidico giorno è arrivato, è il suo diciottesimo compleanno. Oggi non posso essere alla sua festa, perchè dal mio pianeta mi hanno tirato una gran bella fregatura. Tornerò ad essere un marziano prima che lei soffi le candeline. Lascerò il mio corpo da umano per fare ritorno nella mia terra dei sognatori, lì dove non esistono ipocrisie, guerre, cattiveria, meschinità. Vorrei portarla via con me, ma non posso.

Posso solo ringraziare Annagioia, perchè i suoi 18 anni hanno dato un volto umano alla mia vita da extra-terrestre su questo strano pianeta. E in questa notte soffierò forte su una sua foto, una delle poche che ci ritrae assieme. Così voleremo nelle galassie lontane per l’eternità e diventeremo in questo 16 marzo l’extra-terrestre e la sua principessa, liberi in una danza infinita tra le stelle brillanti.

Non è fottuta nostalgia: Addio a Lucio Dalla, nelle tue canzoni la vita mia

Mamma, non si fa così. E’ morto Lucio Dalla. Era la voce che cantava, mentre tu facevi le faccende domestiche nei bei pomeriggi della fine degli anni ’70. Non è fottuta nostalgia, no. Sono le canzoni che ci accomunano, sono le “Storie di casa mia” a tornare vive attraverso le sue canzoni.

Avevamo il mangianastri che ti aveva regalato papà per fidanzamento, ma io volevo il vinile. La solita storia, la solita cresta sulla tua spesa. Andai a comprare un disco di Dalla sotto etichetta RCA in un negozietto di periferia. Spiegai al titolare che non avevo abbastanza soldi e me lo mise da parte.

Mamma, ricordi quanto odiassi il cappello di lana che mi infilavi tutte le mattine prima di andare a scuola? Poi un bel dì decisi che mi calzava a pennello, perché lo avevo visto sul capo di Dalla. Attraverso i suoi brani ho imparato ad osservare le storie di periferia, quelle che nascono e finiscono nella quotidianità, che fosse un sogno collettivo come Piazza Grande; una preghiera blasfema come 4/3/1943; un visionario disincanto come La notte dei miracoli; l’amore di Anna e Marco che premia i diversi; lo stupore per ciò che sarà di Felicità; la potenza della lirica fuori dai luoghi d’èlite di Caruso.
Ho trovato le radici della mia laicità imparando a memoria Se io fossi un angelo; ho imparato a suonare la chitarra con gli accordi di L’anno che verrà; i miei 30 giorni di servizio militare sono finiti sulle note di Ciao.

L’ho conosciuto e incontrato così tante volte che, autografando i miei dischi, cambiò la dedica da “A Rosario” in a “A Rosario, amico mio”. Disse bonariamente che ero stato uno sfaccendato a buttare i miei risparmi per comprare i suoi dischi. Il ricordo più bello che mi lega a Lucio risale ad una sera d’inverno, al termine di una conferenza da Feltrinelli a Milano. Restai a parlottare con lui e la poetessa Alda Merini. Mi convinsi che si poteva essere grandi rimanendo piccoli.

A distanza di tempo, riesco ancora a sentirmi ciò che sono, perchè in tutti i miei traslochi c’erano gli album di Lucio Dalla a ricordarmelo. Sono felice di saper leggere l’italiano perchè senza il filtro di una traduzione posso arrivare nell’anima del suo canzoniere.

Il funerale

Da bambino ero irrequieto, ma ho imparato la compostezza ad un funerale. Qualche volta mio padre mi portava con lui e rimaneva stupito di come diventassi serio per l’occorrenza. Restavo in silenzio ad osservare tutti, a decifrare il significato delle lacrime. Poi mi soffermavo su quella cassa di legno. Mi ero convinto che tutti gli alberi, abbattuti nei frutteti delle campagne della mia terra natia, avvolgessero con la loro legna i defunti.

Che bizzarra idea mi ero fatto. Crescendo ho avanzato una spiegazione alla mia teoria infantile. Se da quel legno gli alberi fossero rinati, avrebbero rivestito con un manto di foglie verdi l’involucro, che ingabbia l’umanità della morte.

Ieri mattina ero in un obitorio della Lombardia. Prima che arrivassero i parenti, mi sono trovato da solo con il defunto. Non ho osato aprire la porta, perché non l’ho mai conosciuto di persona. Ero immobile al di là di una parete a chiedermi cosa ci accomunasse: essere figli del Sud Italia.
Da piccolo pensavo che, chi morisse fuori dalla terra-madre, ritornasse al suo paese, tra la sua gente. Non accade sempre così. Sottovoce ho chiesto al defunto se volesse andare via da qui, ma lui non ha risposto. I morti non parlano, o perlomeno così pensiamo.

Al termine delle esequie, ho avuto la risposta. Sulla bara ho visto spuntare un bonsai e mi è tornata in mente la mia teoria infantile, che ripetevo a mio padre: quando i nostri cari ci lasciano, dovremmo piantare un alberello nel luogo in cui viviamo, perchè loro non stanno mai nello stesso posto.

Scappando via, di corsa verso la stazione, ho incrociato un’anziana signora che rimproverava il figlioletto: “Giuseppe, non imbrattare il muro con la bomboletta spray”. Il bambino, dopo avermi sorriso, ha replicato con tono deciso: “Mamma, non l’ho mai svelato a nessuno. Da grande voglio disegnare alberi per non essere mai nello stesso posto. Quest’albero è per te, per le mie sorelle. Tenetemi con voi, per sempre”.

Diario di viaggio: sotto l’albero di Tonino

L’ultima volta che entrai in quella camera da letto sarà stato una trentina d’anni fa. Sul comodino a sinistra del letto c’era una copia dell’Espresso, su quello a destra un foglio scarabocchiato. Io, Gabriele e Dino ci nascondemmo lì. Non volevamo farci trovare dai nostri genitori. Volevamo continuare a giocare. Era una domenica sera e di andare a scuola il giorno dopo non se ne parlava proprio.
Ci sono tornato dopo troppi anni. Lui era disteso lì, immobile e ho sperato che aprisse gli occhi e mi dicesse:” Lasciamo perdere la chimica, lo so che non te ne frega niente. Piuttosto andiamo in cucina e facciamo merenda. Pane e pomodori, cosa ne dici?”

Ho cercato di resistere, ma non ci sono riuscito. Lui era immobile in quel letto e mi è venuto un groppo in gola. I ricordi hanno messo lo sgambetto all’infamia della morte e mi hanno travolto: erano milioni, scattanti, prepotenti e pronti ad aggredire la convinzione umana che la morte decomponga il cerchio dei rapporti umani.
Poi mi sono staccato dalla compostezza del corteo funebre e dalla ritualitá. Ho cercato di ricordare la strada per arrivare in campagna. Era passato troppo tempo, mi sono perso. Il paesaggio era cambiato, dei vecchi contadini neanche l’ombra, ma l’albero di Tonino era stato l’unico a rimanere intatto. Lì sotto ho ritrovato l’ultimo segreto svelatomi dalla terra che mi ha allevato: un sottile filo d’olio scivola su un pomodoro. Poi un pizzico di sale e origano danno sapore all’ortaggio. Quella non era una ricetta – gli uomini si affannano per la ricetta della felicità – ma il segreto che Tonino mi aveva lasciato durante quella merenda: si vive per restituire alla nostra esistenza la semplicità con cui la madre Terra ci ha generati.

Io ero all’opposto della generazione di Tonino, eppure nei vagabondaggi del mio esilio volontario ho scoperto finalmente la scorciatoia che mi ha riportato sotto quell’albero. Ed è stato lì che mi sono ricordato cosa ci fosse scritto su quel foglietto scarabocchiato, dimenticato sul comò trent’anni prima: “Tonino, non fare tardi. Ti aspettiamo. Ci siamo tutti per cena. Porta il pane. Ti amo. Annamaria.”

Gino Paoli, Annamaria

Viaggio di 48 ore con Paul McCartney, dentro piccole storie tra Bologna e Milano

Esiste una maniera per riscattare il cliché del fan? Dopo 23 anni di flirt con Paul McCartney, ho deciso di trascorrere 48 ore con lui, facendo un mini viaggio a ridosso dei due concerti italiani: Bologna e Milano. Mi sentivo uno “studentello” senza né arte né parte, travestito da bagarino per acquistare il biglietto ad un prezzo stracciato. Al gelo e all’umidità la trattativa è andata a buon fine e sabato sera è stato memorabile.

Il primo comandamento del fan recitava che avrei dovuto appostarmi sotto lo scintillante hotel per braccare l’ex-Beatles. Piuttosto ero nel pieno della notte a raccogliere storie di ragazzi – molti venivano da Calabria e Sicilia – che avevano bruciato i loro risparmi per essere al concerto di Bologna.  Sentivo assottigliarsi lo stacco generazionale, così come la distanza geografica tra me e due studenti kosovari. Abbiamo condiviso il mio viaggio nei Balcani, i sogni rattrappiti delle vecchie e nuove generazioni dell’ex Jugoslavia, mischiati alle canzoni dei Beatles e McCartney. Non so se sul “il giradischi di Tito” girassero Yesterday e Band on the Run, ma Virtyt e Arber le conoscevano bene. Ci siamo lasciati con un patto, ripassando certe canzoni del concerto: impariamo a conoscerci sempre meglio, perché le follie dittatoriali e le cortine di ferro del passato ci hanno impedito di spartirci le nostre bellezze reciproche.

Notte insonne lungo questa Long and Winding Road. A far da guastafeste c’erano le Ferrovie e lo sciopero, con l’arroganza dei capotreni che volevano il supplemento per il cambio di treno, nonostante i disagi. Viaggio all’alba singhiozzante come in un film censurato tra Modena e Piacenza. Canticchiavo Eleonor Rigby e il caso calcava la mano sulle umane solitudini. In un bar piacentino osservavo un anziano pensionato: ha offerto un caffè ad una zingara e alla figlia. Avrebbe investito la sua pensione da 700 euro in cambio del matrimonio con la ragazza. Le due donne si sono guardate negli occhi e si sono fatte due conti in tasca. Intanto sul mio smartphone è sbucato un sms su cui era scritto: “Buongiorno, amore mio. Dove sei?”. Sentivo la voce di Paul che cantava All My Loving e ripetevo sottovoce che l’amore non si baratta, non si vende, ma accade quando c’è qualcuno che si preoccupa per te.

Ancora disagi e poi l’arrivo a Milano. Il tempo di fare una doccia e mettere qualcosa sotto i denti prima di un altro tentativo impavido: bissare il concerto al Forum di Assago. C’era nebbia fitta, sembrava di essere finiti in un racconto di Herman Hesse. I bagarini facevano affari d’oro, ma non mi arrendevo. Chi cerca, trova. Ancora un biglietto “svenduto”, ero dentro di nuovo, ho bissato il concerto e si è chiuso il viaggio.
McCartney non l’ho conosciuto neanche questa volta, ma l’ho ritrovato negli sguardi di sbieco dell’Italietta di provincia e nelle amarezze dell’Est Europeo. Fuori le canzoni ci sono ancora storie da ascoltare. Basta affacciarsi.

 Il fan finito sul Tg3

  Macca strega Bologna

  Diario di un fan: 19 anni prima…

Paul McCartney a Milano 19 anni dopo: sogni bagnati su quell’Espresso da Napoli

Sì, è stato così. Treno espresso notturno da Napoli a Milano, trentamila delle vecchie lire in tasca, un primo quadrimestre da schifo. Sono partito in queste condizioni 19 anni fa. Milano per me non rappresentava niente, a parte la scuola Paolo Grassi, santuario per chi sognava di diventare un bravo attore di teatro. Sapevo soltanto che a Milano c’era Paul McCartney, mi bastava questo.
Papà si arrabbiò, ma avrei mandato all’aria anche l’esame di maturità: non ne potevo più dei classici latini e greci. Le mie poesie erano state le canzoni dei Beatles, punto e basta. La sera ne recitavo una prima di andare a letto.

Milano mi spaventò: immensa, dispersiva, una macchina ad orologeria. Il Forum di Assago mi deluse, non era nient’altro che un palazzetto sportivo. Né più né meno. L’attesa dal primo pomeriggio assieme a tanti sconosciuti mi fece condividere la passione sfrenata per quelle canzoni. Allora non c’era Facebook o Twitter. Scarabocchiavo su un taccuino, volevo mettere nero su bianco le emozioni. E’ una parola!

Tra una chiacchiera e l’altra si mangiucchiava, poi l’entrata e ancora attesa. Mi avvicinai all’area ospiti e mi colpirono un uomo e una donna, mano nella mano. Erano Fabrizio Frizzi e Rita Dalla Chiesa. Lei mi sorrise, con Frizzi attaccai bottone e gli dissi che i miei compagni di liceo notavano una somiglianza tra me e lui. Parlammo delle canzoni di McCartney, dei Beatles, gli svelai qualche sogno e Fabrizio mi consigliò di accorciare i capelli se volevo assomigliarli di più.

Si spensero le luci, cominciò lo show. Mi lasciai travolgere per l’ennesima volta e mi convinsi che la musica univa e annientava i pregiudizi sociali, cultuali, religiosi, politici. Quando alla fine tutti esplodemmo sul coro di Hey Jude, finii disteso per terra sotto una pioggia di coriandoli. Per una volta pioveva a catinelle sui miei sogni di allora, gli stessi di oggi. I sogni hanno bisogno di essere bagnati perché chi apre l’ombrello è l’ultimo stupido che si priva di esistere, con o senza le canzoni di Macca.

Paul, 18 anni dopo!

La vita di Harrison in cineteca aspettando Macca a Bologna

 The Beatles Fans Italiani

Diario di viaggio: Oltre la strada della mia infanzia

Questa è l’immagine della strada in cui ho trascorso parte dell’infanzia, a ridosso della periferia di Napoli. La prima volta che l’ho percorsa da solo, avevo promesso ai miei che non sarei andato oltre. Sul marciapiede del palazzo accanto al mio incontrai un gruppo di ragazzini. Uno di loro mi diede una pistola giocattolo e mi disse: “Unisciti a noi, nessuno ti farà niente. Siamo noi i più forti. Chi supera questa via è solo un debole”. Gettai a terra l’arma giocottolo e feci il contrario di ciò che mi avevano indicato.

Sulla strada principale c’era un altro mondo: uomini, donne e bambini che disegnavano con onestà e buona volontà i contorni della quotidianità. E forse furono proprio loro, assieme alla protezione dei miei genitori, a confondermi per non farmi capire il segreto di una porta bucherellata sul ciglio della strada principale: erano i colpi di pistola lasciati dai killer infami, nel nuovo bradisismo camorristico che tentava di abbattare lo strapotere dei vecchi capi.

Sono tornato nella strada in cui ho trascorso parte dell’infanzia, una domenica mattina dopo una lunga convalescenza. L’ho ripercorsa di nuovo. I ricordi sono finiti sotto la polvere; le mura screpolate delle facciate dei palazzi indicavano spudoratamente che il tempo mi era sfuggito dalle mani; le lenzuola stese nascondevano le storie iscenate un tempo sui balconi.
Non c’erano più bambini guerrieri o pistole giocattolo. Sono stati spazzati via. Era rimasta intatta soltanto l’indicazione del “senso unico”, l’insegna che tanti anni dopo mi ha fatto ritrovare il significato della domenica: vale la pena condividerla con una donna speciale, la stessa che ha rinununciato alle spavalderie della sua gioventù per dividere il suo tempo con ragazzi e ragazze che non hanno più una famiglia su cui contare.

La notte è fatta per i vampiri e la luna mente, perchè non vive di luce propria. Non passavo in quella strada dal 1986, lo stesso anno in cui era nata lei. Ci sono tornato di giorno e la luce del sole, folgorante cone quella della sua anima, mi ha fatto tornare sui passi di ciò che sono.