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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Diario di viaggio: ancora una ninna nanna per Miriam

A San Colombano a Lambro ci sono finito per caso. Il solito vagabondaggio a seguito di quell’innata malattia che è in me: scendere e salire da un posto senza spiegarti come ci sei capitato. E lì non c’ero andato per braccare Gianluca Grignani – tutti pensano che chi faccia il mio mestiere sia sempre alla ricerca di storie – ma per il tipico fuori programma, che trasforma ogni mia tappa in una sorpresa. Non mi ero soffermato né sulle bancarelle del paesotto ai confini del milanese né sulle mura suggestive del castello. Osservavo lei che sorseggiava il suo drink, con le sue unghie smaltate di verde, con una ciliegia rossa che danzava tra le sue dita.
Puoi impiegare una vita a dimenticare, ma un attimo a ritrovare un ricordo: quella sera di quasi venti anni fa restai a cena dal mio migliore amico. Arrivò la notizia che un brutto male aveva strappato la cugina dalla giovinezza. Io e lui eravamo convinti che la vita non potesse sbatterti la porta in faccia nel bel mezzo dei vent’anni. Un grido di dolore e rabbia arrivò così in fretta dalle montagne di Domodossola che noi non smettemmo di chiederci: “Cosa ne sarebbe stata di quella bimba che sgattaiolava per casa? Come glielo avrebbero spiegato che la mamma non sarebbe tornata più?”.
Prima che il sole calasse a San Colombano, guardandola negli occhi ho capito che la ragazza di fronte a me era la stessa bimba a cui avevano strappato la mamma. Mentre attraversavamo in auto il lodigiano, ho avvertito quanto la bassa padana le avesse restituito a mano a mano  la maternità smarrita, attraverso un legame speciale con la terra in cui è cresciuta.
Lei si faceva chiamare scherzosamente “magotta”, ovvero con quella parola che accentua il campanilismo tra lodigiani e piacentini. Sul suo collo era tatuato un verso di una vecchia canzone dei Platters che faceva più o meno così: “I’m wearing my heart like a crown pretending that you’re still around”.
In quel verso era conservata la sua vita. La mia magotta era tutta sua madre, in quel suo modo di rivestire l’anima, in quella sua smisurata dolcezza e combattività che avevano trasformato una domenica qualunque nel giorno in cui mi sono convinto una volta e per sempre: prima o poi qualcuno tornerà a cantare con amore una ninna nanna per Miriam.

Diario di viaggio: Fondi, ricordo di un’estate

Resto sempre convinto che Ricordo di un’estate (Stand by me) di Rob Reiner sia uno dei film più belli sull’adolescenza. Non mi riferisco tanto alla storia, ma al fondale estivo che lascia un segno nei quattro ragazzi protagonisti. Ognuno ha il suo ricordo di un’estate: il mio è a Fondi. Vi sono tornato dopo più di vent’anni e mi è sembrato che il tempo si fosse fermato a quell’agosto del 1988. Certo, nel paesotto in provincia di Latina vi avevo trascorso una memorabile vacanza nell’82, proprio nei giorni in cui l’Italia vinse i Campionati del Mondo di calcio.
Tuttavia, l’ultima estate era stata diversa: non c’erano i miei genitori e forse fu proprio quest’assenza a farmi spingere, con la complicità dei miei cuginetti Massimiliano e Andrea, oltre i canoni dell’ingessata adolescenza, verso una forma di ribellione interiore che mi permise di vivere un legame profondo con le persone del posto, in una contaminazione affascinante tra campagna assolata e spiagge selvagge.
Sono tornato nella stessa casa e in quella bottega era rimasto quasi tutto uguale, ma al banco di lavoro non c’era più Guido. Mi piaceva osservarlo mentre grattugiava in silenzio le sue tavolozze di legno. Una volta me ne regalò una, accompagnata da un pensiero: “Faccio il falegname perché, tutte le volte che il legno prende forma, mi sembra di restituire l’anima anche all’oggetto più insignificante”. Sono tornato a Fondi perché avevo voglia di dire al mio amico falegname che quell’estate dell’88 mi trasformò da burattino in un bambino vero, proprio come nella favola di Pinocchio. Purtroppo non ho fatto in tempo, perché mi hanno detto che era partito per sempre. Pare che sia scomparso nello stesso mare in cui noi ragazzi nuotavamo e ci sentivamo liberi come mai saremmo stati.
L’ultima volta che ho lasciato Fondi, Mirella era affacciata al balcone, Dina seduta su una panchina e Gionathan accovacciato su un albero. Furono proprio loro i compagni d’avventura e i protagonisti del mio ricordo di un’estate. Riabbracciandoli ho ritrovato Guido, il loro papà, e mi sono convinto per l’ennesima volta che gli affetti nati sotto il cielo estivo durano per tutta la stagione della vita e ci fanno sentire forti anche quando il dolore e la tristezza tentano di offuscare le nostre esistenze. Risalendo sul treno, ho capito che i figli di Guido mi avevano restituito la fragranza dell’estate al posto di un tenero ricordo, allo stesso modo in cui il loro papà dava l’anima a tutti quei pezzetti di legno.

Diario di viaggio: ‘A canzuncella

Sarà stato quel mezzo di litro di birra o la sposa scalza nello stesso locale a far parlare la bresciana: “E pensare che ero anche io ad un passo dall’altare. Poi è arrivato lui ed è andata come è andata”. Lui, il mantovano dal cuore terrone, sempre lì con la battuta a portata di mano, ammutolisce e improvvisamente diventa serio: “Sì, ma se proprio dobbiamo dirla tutta… Appena due persone si piacciono, cominciano inspiegabilmente a cercarsi  a vicenda. Guardandosi negli occhi, riscoprono il fondo dell’anima”. Lui aveva mollato la ragazza, lei il promesso sposo, lasciandosi alle spalle la paura di finire stemperati nella sceneggiatura di una delle tante commediole all’italiane del nostro cinema.
La bresciana ha un temperamento apparentemente algido; il mantovano ha quello spirito da giullare capace di mandare tutto in frantumi, comprese le ultime certezze della vita. “Una sera eravamo assieme ai nostri rispettivi partner in mezzo a tanta gente” – replica lei – “La complicità dei nostri sguardi raccontava tutt’altro. Era come se ci conoscessimo da sempre, come se in un’altra vita avessimo condiviso la storia d’amore più bella”. Temevo che tali parole fossero fantasticherie bizzarre dell’immaginazione,  invece no. L’ho capito appena Elisa e Matteo si sono presi per mano e sono scomparsi nel buio.
Io sono rimasto lì, in aperta campagna, ai confini tra la provincia di Brescia e quella di Mantova. Mi è balzato in mente un motivetto, quello che il mantovano le avrebbe dovuto cantare se questa storia avesse avuto un finale diverso. E mi sono ricordato di un sabato mattina a casa del mio caro amico, il maestro e figlio d’arte Antonio Annona, che mi chiese di tradurre in francese ‘A canzuncella degli Alunni del Sole. Antonio aveva un progetto, ma poi non se ne fece più niente. Quella traduzione è rimasta nel cassetto, ma io in piena notte, in una terra che non mi apparteneva, ho sussurrato al vento quelle parole: “Si ‘nnammurate ‘e me ma sienteme, nun ce pensa’, E torna ‘n’ata vota addu chillu llà”. Ero scalzo e, naufragando nel mio napoletano, sono tornato a sentire la terra sotto i miei piedi.

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Sul tappeto: L’ultima volta che vidi Giulietta Masina

L’ultima volta che vidi Giulietta Masina fu in una scena straziante data in tv: lei in lacrime che con lo sguardo accompagnava il feretro del suo amato Federico (Fellini), compagno di scena e di vita. Con gli anni, nell’ottica di chi ha imparato a trasfigurare i sogni attraverso il cinema di Fellini, ho tentato di offuscare questa immagine, sostituendola con lo sguardo profondo di Giulietta nelle sequenze di “La Strada”. Nel personaggio di Gelsomina c’era una vitalità che usciva fuori soltanto se ti appiccicavi ai suoi occhi. Una quindicina d’anni fa, avevo messo in pausa su un primo piano il mio videoregistratore e mi ero attaccato con le guance allo schermo, sperando di leggere nella profondità dell’animo della protagonista del film. Esperimento non riuscito.
Poco tempo fa ero disteso su un tappeto. Guardavo il soffitto, mi sentivo libero. Attorno a me c’erano una serie di oggetti significativi che connotavano l’ambiente: mobili, fiori appassiti, fotografie. Erano il tappeto e la luce soffusa a non farmi sentire estraneo da quel mondo che non mi sarebbe mai appartenuto. Quando mi sono trovato guancia a guancia con un paio d’occhi mandorlati, ho ritrovato improvvisamente Giulietta Masina. Ed è stato lì che mi sono convinto: i veri incontri si fanno ad una distanza così ravvicinata da farti rapinare in un batter baleno l’ultimo fondale della persona che ti sta accanto.  Ci avete mai pensato veramente?
Provate a guardare una bella fotografia di qualcuno a cui siete particolarmente legati. Osservate la stessa persona nella quotidianità a più distanze. L’avvicinamento fisico vi restituirà più prospettive, finché non vi troverete appiccicati al suo sguardo. Non privatevi di quell’istante, perché è in quell’atto che capirete la densità del legame, che annulla il tempo o i soliti luoghi comuni che fanno del corpo l’unica strada maestra.
L’ultima volta che ho visto Giulietta Masina non è stato al cinema, con il filtro di uno schermo, colpevole di aver frenato la durata eterna dello scoprirsi reciproco. E’ stato lì su quel tappeto, nonostante i tanti passi e le aspirapolveri che ci passeranno tenteranno invano di cancellare. Cosa?  La prima volta che vidi (veramente) Giulietta Masina.

Holly esiste e viaggia su una Cinquecento rossa!

Trent’anni fa viaggiavo su una piccola Cinquecento rossa: era la prima auto di papà. E dal sedile posteriore  guardavo il panorama e mi impadronivo dei posti che attraversavamo per andare in villeggiatura. Dopo tutto questo tempo sono finito di nuovo nell’utilitaria Fiat, nell’ultima versione che rende questa automobilina un involucro dei nostri sogni. Alla guida c’era Holly, uno dei personaggi femminili più affascinanti della letteratura contemporanea: la protagonista delle pagine di Colazione da Tiffany di Capote, finita nella versione cinematografica che le ha dato il volto raggiante di Audrey Hepburn.
All’inizio pensavo fosse l’ennesimo tiro mancino della mia immaginazione liquefatta. Invece no, perché non era una forzata proiezione tanto che lei non aveva mai visto né il film né letto il libro. Lei, minuta nel suo impermeabile, con le sue scarpette a punta che non piacevano a nessuno, con la solita aria sbarazzina, con la spiritualità libera di chi al volante  correva via dagli standard della quotidianità. Mentre parlottava, lanciava al vento sussurri intimi del suo diario; ribadiva con la sua tipica dolcezza composta che “non si sarebbe mai sposata”; ammetteva di essere al settimo cielo perché le stava scivolando addosso l’ombra ipocondriaca degli ultimi mesi. Io ero lì ad ascoltarla e a godermi ogni dettaglio del paesaggio. Era il primo vero ritorno a casa, come se la presenza di Holly avesse arato la terra che mi ospitava da otto anni, per far germogliare quel mondo interiore che fino a poco tempo prima non vedevo.
Arrivati a destinazione, l’auto è andata via, lei è diventata un puntino e io mi sono trovato sull’uscio di casa con un poster arrotolato che aveva dimenticato. L’ho steso sul pavimento, in basso a sinistra c’era il suo vero nome, sullo sfondo c’erano i colori della sue passioni e tra le centinaia di vocali e consonanti era raccontata come un anagramma tutta la sua vita. Il breve viaggio in quella Cinquecento Rossa ci ha uniti, come se fossimo in un grembo materno, perché entrambi siamo tornati all’alba di tutto, alla radice di noi stessi.
Holly tornerà ad essere così soltanto quando si rimetterà al volante della sua auto e fuggirà dalle maschere sociali, dai sensi di colpa, dai preventivi, dai contratti, mandando tutto all’aria per restituire alla sopravvivenza il passo sveglio e “sgamato” dell’esistenza. E se un giorno tornerà a bussare al campanello di quella porta, troverà appeso al muro il poster dimenticato e decifrerà il rebus di tutto, la formula segreta della sua vita: esistere intensamente tra un arcipelago di istanti è più vero di un’inquadratura di un film, della pagina di un libro, dei versi di una canzone. Dopo aver ascoltato sé stessa, Holly tornerà ad esistere e viaggerà spedita sulla stessa Cinquecento rossa. Ci scometto: solo io la riconoscerò.

Quanto ce ne frega del matrimonio di William e Kate?

Ho tirato fuori dall’armadio lo smoking. Forse lo riutilizzerò il prossimo 29 aprile per imbucarmi al matrimonio di William e Kate. Del resto, sono recidivo: la prima volta che ho messo piede nell’ Abbazia di Westminster mi sono infiltrato, perché, nella mia ottica sovversiva da adolescente, era impensabile pagare l’ingresso per una Chiesa. All’epoca, volevo rendere omaggio ad Elisabetta I, sovrana piena di contraddizioni, grazie a cui mi ero potuto cibare di testi teatrali pregnanti.
Tornando al Principe felice e alla consorte, a parte i souvenir kitch che affollano Londra così come il gossip ridicolo che invade il web, mi sono chiesto quanto ce ne importi davvero di questo matrimonio reale. Nel cuore delle nuove generazioni la monarchia anglossassone non rappresenta neanche più il ridicolo accessorio ingombrante, che continua a costare agli inglesi sudore e fatica. E non ci vuole mica un film di Ken Loach per svelare l’amara verità? Il fumo negli occhi delle nozze di William e Kate non cancellerà i problemi sociali ed economici che stanno divorando la Gran Bretagna, isola infelice dilaniata dai litigi da cortile dei Laburisti e Conservatori.
L’iconografia di Buckingham Palace è finita nell’ultimo gesto che ha decapitato per sempre gli intrighi di corte: la regina Elisabetta che china il capo al passaggio del feretro di Lady Diana Spencer, l’ultima principessa, l’ultima “Rosa d’Inghilterra” che aveva imbarazzato gli Anglicani per l’oltraggioso imparentamento con i Musulmani. Paradossalmente sarà proprio il fantasma di Diana a vagare sulle nozze più attese dell’anno, perché in tanti cercheranno di trovare nel matrimonio di William e Kate quello della principessa ribelle con l’ingessato erede al trono Carlo.
Quel 29 luglio del 1981 ero incollato anche io alla tv per seguire l’evento. Ero in vacanza a Paestum. Presi per mano Benedetta, la mia fidanzatina, le preposi una cerimonia improvvisata tra le cassette di bibite del deposito del nonno: Io ne avevo 8 e lei 5. Le posi sul capo uno scialle velato fregato a mia madre e usai come anello quello che apriva le lattine di Coca-Cola. Io e Benedetta fingemmo di essere Carlo e Diana e, appena la diretta televisiva terminò, sognammo che quella carrozza arrivasse da Londra a Paestum per portarci via. Non so se oggi il matrimonio di William e Kate ispirerebbe una coppia di bambini come è successo a noi. Non credo, perché dopo tutto i futuri reali sembrano una coppia di bambolotti destinati a finire sulle bancarelle dei giocattolai.
Nel caso non usassi lo smoking per le nozze londinesi, sapete cosa vi dico: mi rimetterò alla ricerca di Benedetta per dirle che trenta anni fa avevamo visto lungo. Del matrimonio del 29 aprile non ce ne frega niente, perché da allora i principi e le principesse vivono fuori dai palazzi.

Nonno, il dolore che spezza i vent’anni

La condivisione del dolore unisce, stritola le distanze, riporta a galla la parte bella di noi. Quando quel dolore spezzò i miei vent’anni, lei girovagava ancora nel passeggino. Appena ho saputo che lo stesso dolore aveva spezzato i suoi, l’ho telefonata. Era all’università, è uscita dall’aula. Si trovava ad Ingegneria, a Fuorigrotta, negli stessi luoghi che mi appartenevano. Il dolore ha una propria geografia dei posti, che amplifica il ricordo delle persone che se ne sono andate per sempre. E i nostri sono esattamente gli stessi, lì nei Campi Flegrei, tra l’ospedale San Paolo e via Docleziano, tra Cavalleggeri d’Aosta e Bagnoli. Man mano che condividevamo certe sensazioni amare del distacco, della perdita, ritrovavamo le nostre domeniche speciali lì, che ci strappavano alla periferia per catapultarci nell’anonimato della città, dove ogni istante condiviso con loro aggiungeva un tassello alla nostra esistenza. Avrei voluto accompagnarla da sua nonna, il cui volto mi avrebbe ricordato quello della mia, in una buia notte d’autunno in cui le dissero che l’uomo amato per una vita intera se n’era andato. Avrei voluto accompagnarla per tornare ad essere nipote per un istante e nascondermi tra i capelli imbiancati di quest’anziana signora.
Riguardando lo scatto fotografico fatto assieme ad Annalisa, è come se questo identico dolore la avesse trasformata improvvisamente da ragazzina in una donna, l’unica con cui ho potuto condividere fino in fondo l’intensità di questo dolore. E adesso voglio prendere Annalisa per mano e camminare a lungo, fino a stancarci, lungo la spiaggia di Coroglio, con lo sguardo rivolto verso Nisida. Scomparirà l’odore di catrame del fantasma dell’Italsider di Bagnoli; la sabbia tornerà ad essere viva come quella sotto gli ombrelloni del Lido Pola negli anni ’60; le palme della Domenica Santa torneranno a benedire le famiglie come facevano loro; l’amaro del cioccolato fondente delle uova pasquali si scioglierà nella dolcezza di nonno Antonio e nonno Pasquale, che si sono conosciuti lassù e sono diventati inseparabili come due vecchi amici. Remeranno su una barchetta in mezzo al mare della loro Napoli, verranno verso me e Annalisa per sussurrarci che l’amore intenso procura dolore, ma anche la consapevolezza che i rapporti speciali si tuffano nell’eternità, per farci tornare ad essere autentici. E il mio sorriso e quello di Annalisa in questa foto è lo stesso che oggi hanno Antonio e Pasquale, i nostri nonni, che il mare ci restituirà tutte le volte che lo guarderemo.

Diario di Viaggio: Interno Notte/ Esterno Giorno

Ci sono viaggi lampo, improvvisati, lunghi quanto la licenza breve di un soldato. Non sempre il viaggio ti porta alla destinazione con lo stato d’animo giusto. E’ come naufragare  tra le pagine di una sceneggiatura cinematografica, nel contrasto tra l’Interno notte e l’Esterno giorno di un miscuglio di scene.
Eppure, guardando mio padre invecchiato nell’ennesimo viaggio verso casa, mi sono chiesto quando riuscirà mai un figlio ad essere grato ad un genitore. All’improvviso mi ha indicato un albero e mi ha detto: “Quel tronco già c’era quando sono nato. E’ cresciuto con me. Sono passati più di settant’anni e guarda come è alto”. Ho alzato lo sguardo e mi è sembrato che quell’albero altissimo prendesse le stelle con i suoi rami. Da bambino, quando papà mi raccontava del suo lavoro e di come illuminasse case e strade, mi ero convinto che le stelle si potessero acciuffare per davvero. Oggi, salendo sulle sue spalle, potrebbe accadere. Non è la presenza costante di un genitore in ogni angolo della vita di un figlio a renderlo possibile?
Continuando la nostra camminata a passo lento, è come se all’improvviso avessi avuto un abbaglio. Mi ero accorto che poche persone avevano colto il significato del mio viaggio, apparentemente inutile, ma profondamente ricco di quella prospettiva: distinguere ciò che è  “sostanza” dall’“apparenza”. E così mi sono tornati alla mente i fiumi di parole e gli scarabocchi degli ultimi mesi, rivolti a chi non esisteva nella realtà. E’ il pericolo di chi fa il mio lavoro, di chi scrive, di chi immagina. I fantasmi sono esistiti prima di diventarlo, le ombre no perché non vivono mai di luce propria. Sarò pure un giocoliere di parole, ma il Vesuvio osservato qualche tempo fa si era ridotto ad essere una cartolina adombrata. Nell’ultimo tratto della camminata con mio padre, ho ritrovato un Vesuvio folgorante come quello dipinto da Andy Warhol. Ho restituito il giusto peso alle persone che mi circondavano, a coloro che avevo trascurato, a coloro che mi ero semplicemente inventato.
Spero di passeggiare tanto tempo ancora al fianco di mio padre, se questa preziosa compagnia può aiutarmi a distinguere e non a etichettare, a vivere i sentimenti nell’intimità e non nel pettegolezzo virtuale, ad allontanarmi dalle ombre per inciampare nella consistenza, che abita altrove e mi restituirà il cambio di scena dall’interno notte in esterno giorno proprio in questo lunedì speciale: inizierò la settimana svegliandomi nel letto dove sono cresciuto. Noi blogger saremo pure dei giocolieri di parole, perchè ci ostiniamo a dare un senso alle nostre sensazioni.

Come se fosse un Pesce d’Aprile…

Ero troppo piccino perché non confondessi un Pesce d’Aprile con un imperdonabile sgarbo. Mi fermavo raramente alla mensa dell’asilo. Quando mamma ritardava, c’era una bimba che tirava fuori dal cestino la rosetta del suo pranzo e mi dava puntualmente un rombo di crosta di pane. Lei aveva capito che io alla mollica non ci andavo appresso. Un gesto così affettuoso mi faceva andare al settimo cielo, perché sono convinto che lei sia stata la prima persona, al di fuori del mio nucleo famigliare, a prendersi cura di me. Quel 1 aprile lei non venne e mi dissero che aveva cambiato scuola. Scoppiai in lacrime. Venne a soccorrermi la maestra con un pesciolino di cioccolato per spiegarmi che era stato uno scherzo dei miei compagni ed era lecito farli in questo giorno.
Allora se è davvero così anche oggi, spero che sia un Pesce d’Aprile trovare migliaia e migliaia di volti spauriti, che si sono lasciati alle spalle la loro terra in guerra e sono venuti da noi per sentirsi chiaamre “clandestini”. Facciamo da scaricabarile, ci lamentiamo con i governi e le istituzioni, ma poi siamo noi i primi a non volerli.  Il problema è uno solo: abbiamo perso il coraggio di guardarci negli occhi e questo ci allontana dall’ipotesi che nessuno è clandestino di un bel niente se viene a raccogliere un briciolo di speranza. Chissà se tutti questi uomini, donne e bambini, arrivati su un barcone e scampati alle intemperie del mare, avessero avuto lo stesso trattamento se fossero stati proprietari di piccoli giacimenti petroliferi. Li avremmo potuti adottare uno per uno nell’ottica del “vicino” colonialista che vede questa crisi del Mediterraneo come l’ultima chance per tornare ad essere padroni in Nord Africa. Mentre stanno ripulendo Lampedusa per farci credere che sia stato solo uno scherzo di pessimo gusto, illudiamoci che questa triste vicenda sia un “fottutissimo” Pesce d’Aprile e che il presente tribolante possa essere prima o poi un ponte verso la pace e democrazia per tutti loro.
Allora, sapete cosa vi dico, questa volta non ci casco neanche io: mi fermerò in stazione e aspetterò fino all’ultimo treno. Sono sicuro che prima o poi arriverà, adesso cresciutella, deliziosa come lo era allora, e dalla sua borsa tirerà fuori tutte quelle croste di panino che non mi ha dato in tutto questo tempo, lungo quanto quello di uno scherzo da Pesce d’Aprile.

Diario di viaggio: Primavera sull’A1 su e giù per l’Italia…

Io e Antonio non ci vedevamo da anni. Ci siamo ritrovati nella stessa auto per attraversare l’Italia dal basso all’alto. Io ero un ragazzino, ma lui già era adolescente e mi ricordo di quando si beccava le ramanzine dai genitori perché studiava poco per correre a giocare a pallone. Dovrebbero sentirlo parlare oggi, papà Gennaro e mamma Clara sarebbero così fieri di lui per come è diventato.
Siamo sull’A1 all’altezza di Caianiello, è quasi l’alba, Antonio va alla guida spedito e mi racconta con orgoglio dei figli, di quanto sia importante il ruolo della famiglia, degli spostamenti per lavoro, di quei pezzi della vita che mi sono perso. Siamo all’altezza di Roma e il condominio Stella Maris, dove abbiamo vissuto, diventa un dolcissimo avanzo della nostra memoria: la ragazza dai capelli lunghi della scala A, la signora del secondo piano, la ciurma dei bambini del quinto piano, l’amministratore baffuto, il nostro vocio nel cortile del palazzo, le litigate dei più grandi e la magia che noi più piccoli creavamo quando rincorrevamo il cielo, quello che ci sovrastava alla fine degli anni Settanta.
Siamo all’altezza di Firenze Sud, c’è traffico e restiamo in silenzio sulle note di una canzone. E’ lì che lascio ad Antonio la mia confessione: la scomparsa prematura della mamma, a cui ero legato particolarmente, ha marcato il passaggio dalla mia infanzia all’adolescenza, perché allora pensavo che gli angeli prima di diventare tali dovessero invecchiare. Siamo all’altezza di Bologna e ci sembra che l’energia della memoria ci abbia fatto ritrovare il significato dei legami, e la certezza che quelli che nascono nella prima parte della vita non si dileguino mai.
Arriviamo ad un Autogrill a Parma. Cambio auto, sono in ritardo, mi aspettano per un’intervista. Io e Antonio ci salutiamo con un caloroso abbraccio, ma appena lui va via avverto la stessa sensazione di quando lascio il mio Sud: quell’indolenzimento che provavo da bambino appena sua mamma mi faceva la puntura. Questa volta però non ci sono le carezze della signora Clara a tranquillizzarmi e neanche una telefonata per sapere come sia andato il viaggio.
E’ Primavera, e me lo ricorda stranamente Milano appena arrivo nel tardo pomeriggio. La partenza di qualche giorno fa è tornata ad essere arrivo. Eppure una milanese atipica cancella quel piccolo livido con un messaggio casuale: “Tutto bene il viaggio?”. Qualcuno è tornato a preoccuparsi di me e quel gesto è stato uno scossone, un pizzicotto che mi ha finalmente risvegliato, forse grazie ad un’Alice, che ha percepito la stanchezza di questo mio viaggio, lei l’unica sopravvissuta “nel paese delle meraviglie”.