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Diario di Viaggio: assieme al Covent Garden di Meta di Sorrento

Nei miei viaggi c’è sempre una tappa che non capita mai per caso, perchè ritrovo un pezzettino poco invadente della mia memoria. Al Covent Garden Pub a Meta di Sorrento ho rincontrato qualcosa della mia Londra, quella che mi accoglieva con i grandi musical; ho guardato in faccia la penisola sorrentina che mi ha riportato ai miei esordi sulle pagine del quotidiano il Golfo;mi sono convinto che la complicità familiare può rendere un’attività lavorativa meno dura e trasmettere agli altri la voglia di tornare a stare assieme.
Papà Franco, titolare, inforna pizze e sorride, dopo essersi lasciato alle spalle venti anni di lavoro da dipendente. Poi mi nascondo in cucina, come da bambino facevo sotto la gonnella di nonna Lucia, per assaggiare le coccole cucinate da mamma Carmela, che con il supporto della zia Emma, persino tra i dolci ripropone  quelli fatti in casa con le mani d’oro delle nostre madri. C’è chi si diverte al game Dr. Why seguendo le scaramucce simpatiche di Paolo, c’è  chi chiacchiera sorseggiando i cocktail della bartender Benedetta, io invece sono seduto al mio tavolo. Tra un morso e l’altro del mio panino fantasia, mi perdo tra i sogni di Alessandra e Massimo, che combattono tutti i giorni per uscire dall’infame tunnel della precarietà lavorativa e costruire un futuro di vita coniugale. Tra spizzichi e bocconi si inserisce la simpatia di Michela e Valentina, che quando servono ai tavoli sono davvero uno spasso.
Eppure questo clima di unione e famigliarità, allo scoccare della mezzanotte, mi ha fatto pensare: queste persone inconsapevolmente contribuiscono a rendere il nostro Sud migliore, ma soprattutto a far sentire più unito lo stivale italiano. Poi la mega torta per tutti ci ha rammentato con euforia che la nostra Italia ha soffiato le prime 150 candeline. Che fatica spegnerle tutte, ad una una, pensando che ogni fiammella è luminosa quanto chi ha illuminato il sogno di vivere sulla stessa penisola.
Andando via a malincuore dal Covent Garden, mi sono riportato proprio questo entusiasmo testardo di tornare a stare bene con gli altri. In auto, brancolavo nel buio, fiancheggiando un meraviglioso mare. Ho allungato la mano per rubare una carezza alla persona che mi stava accanto, ma voltandomi ho visto il sedile completamente vuoto. Non c’era nessuno. Ancora una volta sono tornato nel mio Sud per riprendermi qualcosa che credevo fosse mio, invece sono ripartito con una “tasca piena di sassi”: sono i sassi della memoria che si ammorbidiscono quando si dilata il tempo presente e forse diventeranno fiori in un improbabile tempo distante.

Diario di viaggio: io autista di autobus per un giorno sulla linea 10 di Brescia

Rosario PipoloDa bambino sognavo di fare il conducente di autobus. Oggi sono una frana alla guida, ma all’epoca mi bastava avere un volante tra le mani per salire al settimo cielo. Così in un sabato mattina uggioso di Novembre mi sono detto: o adesso, o mai più. Dall’armadio tiro fuori giacca e pantalone blu, creandomi la divisa. Per farvela breve, pedino un autista a Brescia per fare assieme a lui tutto il turno lavorativo dalle 4.43 alle 10 del mattino. Sono assonnato e la città è deserta. Dopo una colazione fugace alle macchinette, osservo i miei pseudo-colleghi nel gabbiotto che compilano il foglio di marcia. Mi apposto davanti al deposito di Brescia Trasporti, la società di mobilità della città lombarda, e alla prima fermata salgo sul numero 10, quello che fa la tratta Concesio-Poncarale. L’autista ha una faccia simpatica, è della periferia di Napoli.
Mi siedo dietro di lui e cerco di monitorare tutti i suoi movimenti, quasi come a voler dire: “Ehi, collega. Se sei stanco, passo io alla guida”. Alle 5.16, alla fermata di Triumplina, sale il primo passeggero, una signora sulla quarantina. Non ha il biglietto e le offro l’ultimo che mi rimane, tanto mi dico : “Stamattina gioco a fare il conducente. Mica il controllore mi farà la multa?”. Poco prima delle 6 sale un altro collega. Dall’accento è palese, è un siciliano. Parlottiamo, lui è di Termine Merese e mi racconta del suo trasferimento al Nord, della famiglia che gli manca, della crisi e dei soldi che non bastano mai a fine mese. I miei pensieri divagano in questa Brescia nottambula, che improvvisamente lascia la sua multietnicità per restituirmi alcuni ricordi: la mia prima volta a piazza della Loggia avvolto da quel silenzio tombale “per non dimenticare quel tragico 28 maggio del 1974”; la mia prima volta a Brescia 2 alla ricerca di Lara e del suo mondo; la mia prima volta a fare colloqui con la laurea fresca di giornata. Alle 7 spunta la luce e l’autobus si anima di studentesse. Carine, scherzano, bella gioventù! Mentre la città sbadiglia e si sveglia, arrivo al capolinea a Flero. Ci sono venti minuti di pausa prima di ripartire. Vado al bar a fare colazione: brioche e cappuccino. Pago anche per l’autista alla guida del numero 10, ma lui non si accorge di niente.
Poi si riparte, la stanchezza inizia a farsi sentire, mentre le lancette dell’orologio si rincorrono fino alla fine del turno. Sono stanco, ho i piedi congelati e riesco a malapena ad arrivare nei pressi del deposito di Brescia Trasporti.  L’autista scompare col suo autobus, mentre io alzo gli occhi al cielo. Gli schizzi di pioggia mi pizzicano il viso e io ripenso a tutti gli autisti che ci scarrozzano in giro ogni giorno: ai giovani, ai meno giovani, ai pensionati, a quelli che non ci sono più. A tutti i conducenti che ci trasformano, al costo di un biglietto, in padroni delle nostre città, perché solo un servizio efficiente di trasporto pubblico può farci sentire “turisti inconsapevoli” del nostro territorio. Persino quando certi posti non ci appartengono, perchè le nostre radici sono altrove. Autista per un giorno? Sì, per raccontare tutti coloro che si nascondono dietro quel volante, tutti i giorni, a tutte le ore, col sole e con la neve.

Diario di viaggio: i sussurri di Teresa tra le montagne della Valle Vigezzo

John Ruskin aveva ragione ad affermare che “le montagne sono il principio e la fine di ogni scenario naturale”. Chi viene da una città di mare, scivola sempre sulla stessa buccia di banalità e così tra un tuffo in acqua salata e un passeggiata in alta quota preferisce la prima ipotesi. Il mio mini viaggio on the road tra le montagne della Valle Vigezzo in Piemonte mi ha proposto un’altra alternativa per un intelligente uso del tempo libero: ritrovare il dialogo con la natura, lasciando che la pelle si raffreddi con un’immersione nell’acqua dolce di un lago alpino. Poi lo stomaco ci mette il suo con un piatto di gnocchi ossolani a Druogno; gli occhi si soffermano sulle facciate delle case pittoresche di Santa Maria Maggiore; la fantasia sosta a Malesco dove gli spazzacamini non sono né roba da fiabe per bambini né frullano soltanto sul filo della voce di Mary Poppins. Qui, infatti, nel primo fine settimana di settembre, si svolge da quasi trent’anni un raduno magico che li celebra!
La montagna, quando vuole ed ha voglia, sa lasciarti incontri casuali ed emozionanti. Teresa, l’anziana signora milanese, che da qualche anno trascorre le vacanze qui nella Valle Vigezzo. Ho condiviso con lei un piatto di pasta e melanzane mentre mi raccontava della sua Milano del dopoguerra, di quando il marito le portò a casa la prima lavatrice, delle figliole Laura e Rosanna che scorazzavano per casa, valorizzando la gioia di essere mamma. Ad un certo punto mi ha indicato una montagna e la ha associata al capo di una donna addormentata. A tavola mi hanno fatto cenno di non preoccuparmi perchè era l’avanzare dell’età a guidarla in uno slalom tra realtà e immaginazione. La sera a cena Teresa ha risposto a tono ad una mia battuta con la massima: “Quando il diavolo ti accarezza, vuole l’anima”. E’ la stessa frase che mia nonna Lucia mi ripeteva puntualmente nelle sere d’estate delle nostre vacanze. In quell’istante ho capito che Teresa era la più lucida tra tutti noi, che non aveva né bisogno di medicinali né di compassione, ma solo di amore perché la sua mente si faceva trasportare dai sussurri delle montagne. Chissà se la “donna addormentata” non fosse proprio nonna Lucia, con la sua chioma imbiancata. Chissà se le nuvole che osservava Teresa, a cui dava una forma e un nome, non sono le stesse che guardo io quando vago tra i miei pensieri. Dovremmo tornare a guardare al di là della superfice che ci circonda per non sottometterci alla “resistenza della quotidianità”, ma per mutare il nostro stato d’essere.
Prima di ripartire, non ho detto a Teresa che a me succede la stessa cosa. E se mi reputate un matto, per favore non rinchiudetemi im una casa di cura, ma riportatemi tre quelle montagne piemontesi da Teresa, mia nonna per un giorno, per condividere un altro piatto di pasta e melanzane e divagare con lei, ricordandoci che tutto è superfluo, a parte la nostra anima.

Diario di viaggio: la Corsica in “un dito”

Quando vai su un’isola, la traversata ha il suo perchè. In nave, per isolarti dal caos dei vacanzieri, basta incontrare la persona giusta: Lino, il genovese che sognò la Corsica. Lui, dopo tanti anni di lavoro passati al porto di Genova, ha comprato una casetta sull’isola francese e spesso se ne fugge lì con la deliziosa famigliola. Il tempo vola parlando della Genova di Faber e Tenco, delle delusioni della sua generazione, di pesto e farinata, di futuro incerto tra figli e nipoti. A Bastia Lino scompare in auto e per me inizia il viaggio avventuroso alla scoperta del Capo Corso, zaino in spalla e tenda.
Bastia è un misto tra Genova e Nizza, ma la città vecchia è così intrigante da farti perdere tra vicoli e vicoletti. Sentire un papà chiamare il figlio “Gennaro” ti incuriosisce: hai incrociato un Corso con amici a Napoli e quale miglior modo per siglare un patto d’alleanza, se non quello di mettere in mezzo il santo patrono partenopeo? Gli autobus in Corsica sono una rarità, ma il conducente è un tizio alla mano: viene dal “Continent” – così i Corsi chiamano i francesi – e fa l’autista da una vita. Seduta al tuo fianco c’è un’anziana signora che ti racconta la ua “jeunesse” andata in una casetta in riva al mare. Potrebbe essere il soggetto di una canzone da suggerire ai Muvrini, il gruppo musicale che trasfigura in note folk, tradizione e futuro.
Lontano dal chiasso del Belpaese, si resta rapiti della natura selvaggia del paesaggio, da queste spiagge isolate lungo la strada dove non ci sono bagnini, ombrelloni e lidi. Ci sei tu e l’immensità del mare; e non ci vuole tanto per capire che puoi fare a meno di internet, del telefono, dell’iPod, ma non puoi privarti dell’ebbrezza di assaggiatore vagabondo: formaggio locale, pane con le noci e una buona birra Pietra, tanto poi ci pensa il palato a fare il resto, ad indicarti la strada per vivere questo “dito” della Corsica. E vale la pena soffermarsi sui dettagli che la frenesia quotidiana ci sta scippando giorno dopo giorno: il grido del vento, i sussurri delle piogge estive, i cieli stellati che agguantano l’oscurità delle notti d’agosto, le strade deserte che ti fanno sentire un naufrago, metà Robinson Crousoe, metà Corto Maltese.
A Pietranera il mare si stropiccia sugli scogli; a Erbalonga le case diroccate ti spiano; a Porticciolo le discese sembrano gli scivoli che cercavamo da bambini; a Santa Severa le quattro anime che ci abitano entrano a far parte del tuo universo e ti dimostrano che i Corsi non sono così orsi come dicono; a Macinaggio le barche sono alla ricerca di acqua cristallina, quella innamorata della sabbia della spiaggia di Tamarone. L’aria da campeggio, quella al Santa Marina di Santa Severa, fa davvero bene perché ti riporta al minimalismo della vita, in tenda come un nomade, figlio delle intemperie, sottraendoti alle stupide preoccupazioni della vita metropolitana. C’è Freddy, che canta le canzoni di Carosone e Massimo Ranieri, e la sera ti prepara da mangiare: quando diventi grande hai la sensazione che nessuno si preoccupi più di te, mentre il viaggio ti restituisce la certezza che dovunque tu vada ci sarà sempre qualcuno a prendersi cura.
Poi ti improvvisi autostoppista e, da solo che eri, condividi questi giorni d’agosto con tante persone: dal livornese anarchico agli spagnoli che sognano l’indipendenza della Catalugna; dal grande costruttore di auto militari all’anonima coppia anziana; dal parigino, che in auto ti fa vedere i sorci verdi tra una curva e un’altra, al panettiere che ti sforna il pain au chocolat per le tue colazioni. E, quando stai per tornartene a casa e ti scivolano un paio di gocce salate sul viso, capisci che non si tratta né di sudore né di residui marini. Sono due lacrime invisibili che ti fanno tornare ai tempi in cui lasciavi i posti speciali delle vacanze della tua infanzia. “Speciali” perché erano le persone ad aver disegnato i contorni del tuo soggiorno. Gli altri torneranno abbronzati ad immergersi nella loro routine perché hanno fatto vacanza; tu invece non sarai più lo stesso perché hai fatto un viaggio. Un’isola come la Corsica può cambiarti, può fare da ponte nel sinuoso passaggio da vita ad esistenza. Ed io sono tornato ad esistere.

 

Il diario del blogger e giornalista Rosario Pipolo sul quotidiano francese Le Corse-Matin

Dopo 16 anni di attività giornalistica, condivido questo traguardo con tutti i miei lettori. Il quotidiano francese Le Corse-Matin pubblica il mio diario di viaggio in Corsica, il mio primo articolo scritto in francese. E il mio pensiero va ad un pezzo della mia famiglia che vive a Tolone nel Sud della Francia e alla memoria delle mie zie Santina e Lilina. Spero che anche gli angeli possano leggere il giornale…