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Diario dell’11 settembre: Rosalba Caruso, la prof. antiborghese che mi portò nel Cile senza Allende

Rosario PipoloIn un pomeriggio autunnale del 1986, nelle ultime ore del tempo prolungato a scuola, prese una ciurma di ragazzotti brufolosi per portarli a vedere un film. Rosalba Caruso, professoressa antiborghese di una scuola media alla periferia Napoli, prenotò il laboratorio e fece ingoiare al videoregistratore il film “Missing” di Costa-Gravas. Fu un atto coraggioso. Gli altri insegnanti si preoccupavano di rispettare i programmi ministeriali, lei trasformava la sua passione di docente in stimoli per noi alunni di provincia tra le mura di una scuola pubblica. Le sequenze della pellicola con Jack Lemmon fecero ammutolire tutti, persino i miei compagni più irrequieti, gli stessi che gettarono la maschera da bulli per bagnarsi gli occhi di lacrime davanti al dramma delle madri dei desaparecidos.

Rosalba Caruso, di estrazione cattolica cresciuta tra quattro mura borghese, aveva un’intelligenza e un sensibilità tali da svestirsi di qualsiasi etichetta, quelle che il sottobosco paesano avrebbe voluto metterle addosso. All’uscita da scuola, passeggiammo assieme e mi ricordò che le rivoluzioni non si fanno con i bagni di sangue, ma con la forza delle idee. Persino la penna e l’inchiostro potevano essere nel silenzio più efficaci di una spada. Mi mise tra le dita una Bic blu. L’ho conservata in tutti questi anni. La tirai fuori solo nel ’94 – l’anno in cui una brutta malattia me la portò via – per scrivere sul suo feretro “Grazie, professoressa. Ti ho amata come il figlio che non hai mai avuto”.

Oggi, 11 settembre 2013, a quarant’anni dal Golpe in Cile che sfregiò il volto di una parte del Sud America, ho tirato fuori la penna che mi regalò Rosalba Caruso. Non è più la penna di un alunno, ma quella di chi scioglie i suoi 40 anni in un urlo di rabbia e di dolore nell’11 settembre che si prolungò nella dittatura militare di Pinochet, tra la complicità dell’America di Nixon e l’omertà del Vaticano.
La mia intervista a Jorge degli Intillimani nel 2005 fu una scusa per esplorare, attraverso la musica, le ferite del Cile e dei suoi esiliati. Quando uscì il film 11 settembre 2001 ero in Sala Grande al Festival del Cinema di Venezia e contribuii ai lunghi applausi che accompagnarono l’episodio firmato da Ken Loach. La sequenza si chiudeva con uno scrittore cileno che scriveva agli americani: “Oggi, 11 settembre, noi ricorderemo i vostri morti, ma voi, per favore, ricordate anche i nostri”.

Anna verrà perché la Politkoskjava è viva!

“Anna verrà col suo modo di guardarci dentro, dimmi quando questa guerra finirà, noi che abbiamo un mondo da cambiare”. L’inizio di questa canzone sembra scritto apposta per Anna Politkoskjava, la giornalista russa ammazzata a Mosca il 7 ottobre del 2006. Me lo ricordo quel giorno. Rincasavo con alcuni pasticcini perché festeggiavo assieme ad amici il mio onomastico. Fu un giorno amaro.
Nel videoclip del brano di Pino Daniele si intravede una sequenza del film Roma Città Aperta: se al volto di Anna Magnani sostituissimo quello della Politkoskjava, restituiremmo a quelli spari un alto valore simbolico.

Anna verrà, perché alcuni di noi se ne vanno in giro sottobraccio con il libro di Andrea Riscassi “Anna è Viva” per perdersi nei sentieri della giornalista russa ammazzata crudelmente. Basta la scrittura immediata e tagliente di Anna a raccontarci il regime russo, quello che schiacciò la rivoluzione della Perestroika di Gorbacev per fare spazio all’orrenda restaurazione. A qualsiasi prezzo, anche con il sangue, bisognava ricomporre le assuefazioni dello zarismo e mescolarle ai crimini e i misfatti degli ex KGB.

Anna verrà nei giorni in cui c’è un potente passaparola per dedicare alla Politkovskaja una strada in questa grigia Milano, che ogni tanto vive l’euforia del cambiamento per poi tornare nel torpore. Facciamo finta di niente, perchè tutti noi subiamo nel nostro piccolo lo squallore di una dittatura invisibile, che ricatta la nostra esistenza ai tempi di una crisi spaventosa. Si trova sempre l’escamotage per togliere agli indifesi e proteggere le lobby, dove si accampano i potenti malfattori.

Anna verrà, appena nei teatri e nei palcoscenici delle piazze troverà attori e attrici dallo spessore di Ottavia Piccolo, che una ventina d’anni fa mi raccontò in un camerino del Sud Italia: “Chi fa il mio mestiere deve assolvere anche un impegno civile”. Ottavia, nella sostanziosa prefazione al libro di Riscassi, ci mette una volta per tutte la pulce nell’orecchio e smaschera chi si era convinto che la Politkoskjava fosse “presa da una baldanza donchisciottesca”.

Anna verrà, nel giorno in cui penne dall’inchiostro rosso sangue, asservite ai ricatti del potere mediatico, torneranno a mettere nero su bianco come stanno veramente i fatti. E questo accade anche sotto l’ombrello di “quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia”, sussurrerebbe l’apostolo Gaber.
“Anna verrà col suo modo di sorridere per questa libertà, noi che abbiamo un mondo da cambiare, noi che guardiamo indietro cercando di non sbagliare”. Anna, ti sto aspettando. Anna, ti stiamo aspettando. Fai presto.

Anna Viva

Il blog di Andrea Riscassi

Anna verrà di Pino Daniele

L’ultimo imperatore: Tripoli, bel suol d’amor!

“Tripoli bel suol d’amor” cantava una voce femminile negli anni ’10 del secolo scorso. Vecchie reminiscenze musicali che attraversano i solchi della storia, perché spesso a farla franca è il dolore. Niente amore, niente democrazia, niente libertà. La ricchezza e il benessere sfrenato erano rinchiusi nei palazzi degli orchi, mentre fuori il popolo aveva fame. A tenerlo a bada non sarebbero servite neanche “le amare brioche” del sarcasmo frivolo di Maria Antonietta di Francia.
All’improvviso è come se Libia, Tunisia, Algeria ed Egitto si fossero risvegliate da un lunghissimo letargo e l’orrido fantasma del colonialismo fosse tornato a girovagare nell’immaginario collettivo del Nord Africa. Dai colonialisti erano finiti nelle mani degli imperatori che avevano stordito tutti, confondendo il confine che c’è tra una dittatura e una democrazia. E noi sottobanco ci abbiamo messo del nostro, dalla base del Vecchio Continente, fornendo a tempo debito armi, soldi e belle donne. E quando noi italiani facevamo i vacanzieri sulle coste del Nord Africa, preferivamo rinchiuderci nei lussuosi resort come in un paese dei balocchi: panza al sole, culi formosi e drink dissetanti, senza buttare l’occhio nei piccoli villaggi dove c’era la miseria nera.
La necessità della libertà qualche volta diventa giustamente furibonda, incontrollabile e così in queste ore si inasprisce l’ira funesta contro l’ultimo imperatore Libico, tra morti ammazzatti e gente che rischia la vita ogni minuto che passa. La storia è una trottola che gira, incredibile. Alla fine del 1942, nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, due soldati napoletani, Pasquale e Tonino, furono fatti prigionieri proprio da quelle parti. Stavano per ammazzarli e il secondo fece un voto: “Dio mio, se mi salvi, quando ritorno a Napoli tolgo una donna dalla strada e sposo una prostituta”. Nel ’43 sbarcarono gli alleati e i due furono messi in salvo. Pasquale tornò tra le braccia della fidanzata Lucia e Tonino andò in una casa di prostituzione della Riviera di Chiaia, facendo fede alla sua promessa. Questi due ometti in divisa, dimenticati in una fotografia in bianco e nero del Nord Africa, non sono i protagonisti immaginari del film La Grande Guerra di Monicelli, ma due persone vere.
Pasquale era mio nonno e, appena mi raccontò questo episodio, io gettai via il fucile giocattolo che mi avevano regalato e dissi: “Nonno, non voglio più giocare a fare il soldato”. E adesso mentre scrivo, mi torna il magone, perché in Libia centinaia di persone rischiano di perdere la vita e la libertà, come allora stava per succedere a quelle due reclute partenopee. E allora, vecchia voce, non cantare più da quel grammofono “Tripoli, bel suol d’amor” perchè non ci siano più colonialisti sotto il tricolore, ma messaggeri di pace e democrazia.