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Don Andrea Gallo, il prete scomodo tra gli emarginati cantati da Faber

Don Gallo recità De Andrè

Rosario PipoloUn prete non dovrebbe mai assecondare i propri bisogni, ma fiutare i limiti di far parte del coro, magari pure stonato. Don Andrea Gallo, che sembra uscito da un verso del canzoniere di Fabrizio De André, è stato una gran bella voce fuori dalla mischia. La sua visione profetica del buon pastore si è fatta portatrice di laicità per strada, tra gli ultimi e gli emarginati, tenendo gli altari e i clamori del clero alla giusta distanza. Eppure “il don” genovese, scomparso mercoledì scorso all’età di 84 anni, non è stato mai un solista. Ne aveva le capacità, ma conservava l’umiltà di chi sapeva che “lottare assieme” per il bene del prossimo era una scorciatoia per accostarsi allo sguardo del Padreterno.

La Comunità di San Benedetto al Porto Di Genova raccoglieva le Marinelle, le Bocca di Rosa e i Michè di Faber, mentre nelle pupille di Don Gallo era tracciata la spina dorsale di un pensiero: “Ce ne sono tanti, purtroppo, che sognano una casa, una famiglia, invece trovano l’abbandono, la disperazione. Non sono loro le vittime, sono io, siamo noi, perché non ci rendiamo conto dell’indifferenza”.

Don Andrea Gallo è stato amato senza distinzione da credenti e miscredenti perchè al posto della tonaca indossava umanità. I giovani sapevano ascoltarlo perché le sue preghiere, prima di alzarsi verso il cielo, attraversavano il cuore della sofferenza che ci circonda ogni giorno e che noi puntualmente facciamo finta di non vedere. Per ricordarlo non servono più i suoi inseparabili compagni di viaggio – la sciarpa rossa, la Bibbia, la Costituzione e la bandiera della Pace – ma non perdere l’orientamento per continuare a percorrere il sentiero dei preti scomodi, quello ci fa sentire accanto il soffio di Dio.

Quelli che…il sabato prima di Pasqua si svegliano senza Enzo Jannacci

Rosario PipoloOgni volta che sbucavo in camerino, mi ripeteva con il suo tono ironico e scanzonato che ero “una persecuzione”. Che cosa ci avrei fatto mai con quelle firme di Enzo Jannacci spiaccicate su vecchi 45giri e cd? Niente, mi sarei messo ad osservare la traiettoria dell’inchiostro, le curve, le microscopiche sbavature della penna che filtravano la consistenza del suo essere artista.

Enzo Jannacci è morto ieri in tarda sera, all’ombra di un Venerdì Santo. Milano resta davvero sola. Si sentiranno più soli quelli che come me sono venuti a cercar fortuna nella città che lo ha allevato ed ha fatto da sfondo alle sue storie. Jannacci, il medico chirurgo che sotto il camice aveva l’estro di un giullare, il cuore di un jazzista, l’anima del cantautore, ha cantato gli ultimi e i dimenticati, i poveri ed emarginati Lo ha fatto senza prendersi mai troppo sul serio. Quelli che come “Vincenzina” andavano in fabbrica, quelli che portavano “le scarp da tennis”. Jannacci le aveva sfilate zitto zitto alla borghesia invaghita che aveva rinchiuso la terra ambrosiana nel sogno fasullo della Milano da bere.

Le canzoni di Enzo Jannacci, da “Quelli che…” a “Vengo anch’io. No, tu no”, hanno investito la nostra anima della tipica teatralità che non puoi condividere con una persona qualunque. Devi sottrarla al torpore della massa e ficcarla nell’immaginario di chi continuerà a sognare da solo, attraverso le storie di Milano, diluite nel suo repertorio che recupera anche la bellezza e la magia del dialetto. Grazie ai fotoromanzi musicati di Jannacci abbiamo abbattuto gli stereotipi e avvistato lo stupore in certi angoli nascosti di questi luoghi, i suoi. E persino Rogoredo, sfinita nel tanfo della periferia, resta l’angolo popolare che dalla crudele realtà metropolitana gioca a nascondino nei versi dell’omonima canzone.

Se dobbiamo dire addio a Enzo Jannacci, facciamolo pure con una certezza: da oggi, ad un passo dalla Pasqua, assieme a Giorgio Gaber canterà le storie di noi umani al popolo di angeli, che forse ha perso da un pezzo le contraddizioni strampalate dell’umanità. Per fortuna, non siamo tutti uguali e pochi di noi hanno la fortuna di potersi incontrare nei versi di quella canzone: “Son s’cioppaa… son scoppiato dal ridere ma che pena vederti, fare finta di piangere. Son s’cioppaa, tu che neghi le Marlboro, tu che adesso hai capito come nascono i comici”. Abbiamo imparato la lezione di “come nascono i comici”, proprio quando ci ostinavamo a stare lontano dai nostri simili.

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