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L’estate 2012 nel Belpaese: Splash da Scalea a Santa Margherita Ligure

Si piagnucola sull’andamento negativo del turismo in Italia ad agosto. Secondo Federalberghi ci salvano gli stranieri. Non è una novità. Tuttavia, ci sono ancora gli impavidi italiani che hanno scelto le coste del Belpaese in questa estate così torrida.
A suon di colpi bassi da parte di Lucifero e compagnia bella, non abbiamo avuto un attimo di tregua, neanche se avessimo avuto l’aria condizionata appesa al collo.

Ho fatto splash a Scalea, colonia partenopea dai primi anni ottanta in terra calabrese. Tra il viveur nazional-popolare e l’imperdibile “tuffo a cufaniello” in acqua, il litorale che si spinge fino a Diamante riporta agli antichi abusivismi edilizi degli anni del riflusso. Che bei tempi: l’èlite di periferia si era fatta “la casetta in Canadà” a Baia Domitia, in Campania; l’operaio provava per la prima volta l’ebbrezza della proprietà privata in Calabria.

Ho fatto splash a Sorrento, con i depuratori che andavano a singhiozzo. Una bottiglia d’acqua la pagavi più della benzina. Ho chiesto al ragazzotto “panzuto” accanto a me: “Vuoi risparmiare i soldi della palestra il prossimo autunno? Vai di corsa al supermercato Decò in viale Italia e portami una bottiglia d’acqua frizzate, fredda al punto giusto con il contributo dell’aria condizionata”. Dare da bere agli assetati in stile low cost?

Ho fatto splash a Gallipoli, con la vana speranza di vedere Massimo (D’Alema) sorseggiare una birra e chiedergli in prestito qualche pezzo da 5 e 10 euro. Una volta con questi soldi si mangiava, adesso ahimè bastano solo per un soft drink.

Ho fatto splash tra Gaeta e San Felice Circeo, occupata per metà dalla chic borghesia paesana e pantofolaia, made in Campania e Lazio, a cui avremmo dedicato qualche vecchia melodia del mascalzone partenopeo Tony Tammaro. Quest’anno si aggiravano “incazzati” sulla battigia, perché con l’Imu e mazzi vari altro che godersi la quiete del golfo, la montagna Spaccata o l’isola di Ponza dalla villetta unifamiliare, salva spazio per suocero e suocera, all inclusive, così risparmiamo anche la baby-sitter.

Ho fatto splash a Numana e mi sono accorto che i marchigiani perderanno la bellezza del Parco del Conero se non si danno da fare per tappare “la bocca” a quel “fetuso” fiumiciattolo che tutti i pomeriggi riversa in mare l’occorrente per insozzare l’acqua.

Ho fatto splash sull’isola del Giglio, ma mi annoiavo sotto l’ombrellone. E così mi sono messo a fare il censimento di tutti “gli stupidi curiosi”, che a loro volta si facevano fotografare davanti al relitto della Costa Concordia. Organizzandomi in tempo, per ammortizzare lo stipendio, avrei chiamato il capitano Schettino e avrei venduto la foto con “l’eroe dei nostri tempi”.

Ho fatto splash a Forte dei Marmi, nel cuore della Versilia, dove senza tanti soldi non si canta neanche un quarto di messa e l’unica spiaggia liberà è “in culo al Forte”. Per fortuna ci sono i russi tra la Capannina e il centro del paesotto che vuole imitare Capri: bagni e vetrine di grandi firme semivuote. Dopo ferragosto, scarseggiavano persino le cinquantenni in menopausa con i diamanti appesi alle tette, quelle in cerca di toy-boy. Mare da bandiera blu? Mah, sarà. Dovrò tornare dall’oculista.

Ho fatto splash a Santa Margherita, dove i liguri con la puzza sotto il naso hanno finito di fare i gradassi. A metà d’agosto la Liguria a pezzetti si svendeva sui vari Groupon; i genovesi si sono messi a sguazzare nel mare cittadino; le famiglie vacanziere hanno dato forfait e sono fuggite sulla riviera Romagnola alla ricerca di strutture più moderne e più accoglienza.

Volevo fare splash portandomi dietro “la mappatella”, quella che andava di moda negli anni ’50, quella che i romani delle borgate del film di Emmer “Una domenica d’agosto” si portavano lungo il litorale d’Ostia. Mi avrebbero preso per un cafone. Oggi va di moda il cestino da picnic versione beach.

Cose buone dal “Belpaese”, dove l’euro vale meno di una lira e la Merkel lo sa!

Turismo, crolla il fatturato

Diario d’estate: In spiaggia con “I Promessi Sposi”, ma non ditelo a Umberto Bossi!

Mi ha fatto un effetto strano cogliere in flagrante un ragazzino in spiaggia in compagnia della sua lettura estiva: I Promessi Sposi. Certo che Renzo e Lucia non sono proprio da mare e per questo mi è venuto il dubbio: Chi ha messo in castigo il giovane lettore sulla battigia dell’Adriatico? Certamente non Umberto Bossi, che di recente se l’è presa con Alessandro Manzoni per aver scritto il suo capolavoro “in italiano” e per essersi “venduto al Re d’Italia”.

Si sa che nella Lega non vanno mai d’amore e d’accordo. Mentre il Senatùr sbraita contro i Promessi Sposi, c’è da dire che c’erano pure tanti leghisti tra gli oltre 20 mila accorsi allo stadio di Lecco alla fine dello scorso giugno, per applaudire la versione teatrale di Michele Guardì.
Sarà che il Senatùr non ha colto la tagliente ironia manzoniana – l’ha tirata fuori il trio Marchesini-Solenghi-Lopez nell’irripetibile parodia televisiva – sarà che basta un pizzico di goffaggine e sfrontatezza in Padania per dimenticare che i veri “venduti” sono proprio le vecchie guardie che si infuriavano contro Roma ladrona.

Tornando ai Promessi Sposi, bisognerebbe capire se i leghisti stanno dalla parte di Alessandro Manzoni o Umberto Bossi. Nelle lande verdeggianti tra Como e Lecco, un dì possedimenti feudatari degli acerrimi leghisti, pian piano tira tutt’altro vento. E forse gli stessi contadini comaschi e lecchesi – loro che bestemmiavano contro i terrùn – hanno recuperato il loro rapporto con il lago attraverso lo stralcio poetico dell’Addio ai monti manzoniano. Del resto la cialtroneria al megafono ha contribuito alla fine dei tempi d’oro della Lega. Le prossime generazioni ricorderanno la penna leale di Alessandro Manzoni e dimenticheranno in fretta i cortigiani cafoni della vecchia Padania.

Diario d’estate: Io vagabondo con la mia bici Willer “Tognazzi

Le mie prime pedalate risalgano al 1977. Immaginavo di essere un ciclista nei vialetti di una località balneare e mi sentii davvero libero quando, tre anni dopo, in un pomeriggio d’agosto riuscii finalmente a far a meno di quelle maledette rotelle. Ho ritrovato la bici in quest’estate, andandomene a zonzo in alcune città del Nord Italia e toccando persino la Svizzera. La mia Willer, è una bicicletta vintage a freni a bacchetta che assomiglia a quella di mio nonno Pietro. Tra una pedalata e l’altra ripensavo a quando, nella prima metà degli anni’50 del secolo scorso, lui gironzolava in un paesotto della provicncia di Napoli.
Mi sono trasformato in un “ciclo-vagabondo” e devo ammettere che il mondo può essere vissuto da una prospettiva diversa, a patto che si monti in sella. E non è tanto il fatto di percorrere chissà quanta strada in versione sportiva o arrampicarsi con una mountain-bike fino a chissà dove. Piuttosto è continuare a fare “il viaggiatore” in sella buttando l’occhio un po’ qui e un po’ lì, affinchè i luoghi si dileguino in paesaggi in movimento. Mi sono sentito un surfista tra il vento appena sono scivolato da cima a fondo, nella direzione di Villa Olmo a Como. Mi sono sentito come su un battello costeggiando il parco del Mincio a Mantova oppure cercando il Po a Piacenza. Tuttavia, pure su due ruote, sono finito a filtrare con il cinema, quello che da vent’anni a questa parte è accovacciato nel mio lavoro, ma anche tra le mie passioni. A Cremona ho battezzato la mia bici Willer “Tognazzi”, in omaggio ad uno straordinario attore, che purtroppo viene liquidato nella notorietà del film “Amici Miei”. Sostando davanti al cinema Tognazzi, ho ripensato ad una chiacchierata lampo con Marco Ferreri sullo scalone del palazzo del cinema di Venezia: mi raccontava delll’attore cremonese ai fornelli sul set di “La grande abbuffata”. Ed io rinuncerei volentieri al Ferragosto con la panza al sole, per rifugiarmi in chissà quale casale di campagna, passeggiare in bici con Ugo e farmi insegnare a preparare da mangiare. Sarebbe ora perchè la mia bici Willer Tognazzi non sa che ai fornelli sono una frana!

Al Montozzo: Adesso so dove si ferma Dio nei giorni d’estate

Adesso so dove si ferma Dio nei giorni d’estate. A 2500 metri d’altezza, a cavallo tra l’Alta Valcamonica e l’Alta Val di Sole, lì nel Parco dello Stelvio. A pochi passi dal rifugio Bozzi, ci sono le trincee della Grande Guerra. Noi le abbiamo dimenticate, soprattutto in questo periodo quando ce ne stiamo con “la panza” al sole sulle spiagge affollate. L’estate montanara è ballerina perché da un momento all’altro il sole può prestare la sua voce alle nuvole, permettendo alla pioggia di lavare la terra bagnata dal sangue.
Adesso so dove si ferma Dio nei giorni d’estate. Su quella cima, al Montozzo, ad ascoltare il coro delle voci bianche, che perirono per noi nei giorni bui della Prima Guerra Mondiale. Giovani e meno giovani, che sacrificarono la vita per un pezzo di confine, che andavano incontro alla morte martoriati dal freddo e dalla fame, come se i nostri soldati fossero giocattoli da vetrina del primo ‘900.
Adesso so dove si ferma Dio nei giorni d’estate. Lì, ad alta quota, muovendosi come i passi silenziosi sulla neve. Quelli che non fanno rumore, ma lasciano il segno, come il grido delle donne che non li videro più tornare, che aspettarono finché il sole spegnesse la torcia. Mamme che invecchiarono all’istante senza poter più sussurrare “Figlio mio”; fidanzate che si arresero allo strazio del dolore senza poter cantare “Amore mio”.
Adesso so dove si ferma Dio nei giorni d’estate. Lì in cima, tra la foschia, perché puntualmente la nebbia del “deserto dei tartari” ritorna in quella che dovrebbe essere la stagione più luminosa dell’anno. E’ solo nello smarrimento dell’invisibile che possiamo ritrovare le sagome di quei soldati. Quanto ci costerà restituire loro la visibilità dell’eroe, nel tempo in cui sperperiamo i valori a ridosso del mostruoso divismo del “Grande Fratello”?
Adesso so dove si ferma Dio nei giorni d’estate. Niente più castelli di sabbia con i bambini in riva al mare. Resta lì su quella cima, a far compagnia a tutto il coro di voci bianche che si aggira per il Montozzo. E presterà per il resto dei nostri giorni la voce a quelle montagne.

Diario di viaggio: Fondi, ricordo di un’estate

Resto sempre convinto che Ricordo di un’estate (Stand by me) di Rob Reiner sia uno dei film più belli sull’adolescenza. Non mi riferisco tanto alla storia, ma al fondale estivo che lascia un segno nei quattro ragazzi protagonisti. Ognuno ha il suo ricordo di un’estate: il mio è a Fondi. Vi sono tornato dopo più di vent’anni e mi è sembrato che il tempo si fosse fermato a quell’agosto del 1988. Certo, nel paesotto in provincia di Latina vi avevo trascorso una memorabile vacanza nell’82, proprio nei giorni in cui l’Italia vinse i Campionati del Mondo di calcio.
Tuttavia, l’ultima estate era stata diversa: non c’erano i miei genitori e forse fu proprio quest’assenza a farmi spingere, con la complicità dei miei cuginetti Massimiliano e Andrea, oltre i canoni dell’ingessata adolescenza, verso una forma di ribellione interiore che mi permise di vivere un legame profondo con le persone del posto, in una contaminazione affascinante tra campagna assolata e spiagge selvagge.
Sono tornato nella stessa casa e in quella bottega era rimasto quasi tutto uguale, ma al banco di lavoro non c’era più Guido. Mi piaceva osservarlo mentre grattugiava in silenzio le sue tavolozze di legno. Una volta me ne regalò una, accompagnata da un pensiero: “Faccio il falegname perché, tutte le volte che il legno prende forma, mi sembra di restituire l’anima anche all’oggetto più insignificante”. Sono tornato a Fondi perché avevo voglia di dire al mio amico falegname che quell’estate dell’88 mi trasformò da burattino in un bambino vero, proprio come nella favola di Pinocchio. Purtroppo non ho fatto in tempo, perché mi hanno detto che era partito per sempre. Pare che sia scomparso nello stesso mare in cui noi ragazzi nuotavamo e ci sentivamo liberi come mai saremmo stati.
L’ultima volta che ho lasciato Fondi, Mirella era affacciata al balcone, Dina seduta su una panchina e Gionathan accovacciato su un albero. Furono proprio loro i compagni d’avventura e i protagonisti del mio ricordo di un’estate. Riabbracciandoli ho ritrovato Guido, il loro papà, e mi sono convinto per l’ennesima volta che gli affetti nati sotto il cielo estivo durano per tutta la stagione della vita e ci fanno sentire forti anche quando il dolore e la tristezza tentano di offuscare le nostre esistenze. Risalendo sul treno, ho capito che i figli di Guido mi avevano restituito la fragranza dell’estate al posto di un tenero ricordo, allo stesso modo in cui il loro papà dava l’anima a tutti quei pezzetti di legno.

Vengo via con te: Caro Luca, nella tua culla la nostra Calabria

Lunedì sera la televisione ci ha fatto dono di un altro bagliore di levatura culturale. Roberto Saviano, nella seconda puntata di Vieni via con me, ha spiegato magnificamente agli italiani le malefatte della ‘Ndrangheta, che ha colonizzato pure la Lombardia. Quella  lezione mi ha fatto venir voglia di tornare sui banchi di scuola, ma anche di rovistare nei ricordi belli che mi uniscono alla Calabria.
Dopo aver spento il televisore, nella penombra muta del mio soggiorno, mi sei venuto in mente tu, caro Luca, piccino piccino nella tua culla. Avevo una gran voglia di coccolarti e di cantarti una ninna nanna, rannodando la mia memoria alla tua terra: quella volta su una Cinquecento rossa con mamma e papà verso Scalea alla fine degli anni ’70; le lunghe passeggiate con nonno Pasquale sulle spiagge di San Nicola Arcella; la salumiera logorroica di Schiavonea che mi conquistò tra coccole e caramelle; Franco Cutruzzulà, studente d’Ingegneria di Soverato, che mi faceva sbirciare tra i suoi progetti universitari;  i silenzi ad intermittenza rivolti al volto severo di S. Francesco da Paola; il senso di liberazione scorazzando in Sila; il faccino carino di Daniela, la bimba calabrese con cui condivisi un lecca-lecca, ma lei non si accorse che ero stracotto di lei.
Tutti questi scatti, messe in fila uno dietro l’altro, erano in netto contrasto con il racconto di Saviano, quello dell’altra Calabria, nascosta tra i bunker dell’Aspromonte; soggiogata dall’omertà; scoraggiata dal fatto che il male possa farla franca sul bene; narcotizzata da quello sconforto che ti fa associare la criminalità al potere.
Caro Luca, ha ragione lo scrittore di “Gomorra” a ribadire che “non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco, non si può vincere il male con il male”. Mi sono ricordato di quel pomeriggio sulla spiaggia di Scalea in cui un bimbo prepotente buttò giù il mio castello di sabbia. Lui si aspettava che io lo menassi. Guardandolo diritto negli occhi, replicai: “Perché lo hai fatto? Adesso dammi una mano a farne uno più bello. Lo costruiremo assieme”. Tonio chiamò gli altri amichetti e tutti assieme costruimmo una fortezza. Diventammo amici per la pelle e da qualche parte c’è ancora il disegnino che Tonio mi regalò prima che finisse la vacanza.
L’amore vuole amore. E tu Luca, sbucato dal pancione di mamma per un atto d’amore, sei la speranza della tua terra. Adesso è tempo di sognare, ma poi domani sarà tempo di fare bei castelli, assieme a tutti coloro che lottano per una Calabria diversa. Io continuo a sognare un’Italia migliore, anche dopo l’assoluzione vergognosa dei colpevoli della strage di piazza della Loggia a Brescia. La tua culla è la tana sicura dei miei sogni. Luca, ho deciso. Faccio le valige: vengo via con te!

L’ultima estate di Leopold, nona puntata

La fine di settembre si portò via l’estate, ma restituì tranquillità all’isola di Fehmarn. La casetta della famiglia di Beatrice era in centro, con vista mare, a pochi passi dall’hotel Ulysse. Beatrice non fece in tempo a mettere le chiavi nella porta quando sentì una mano appoggiarsi sulla spalla. “Mamma, cosa ci fai qui?”, sussultò voltandosi di scatto. “Sono venuta a portarti questa lettera. Te l’ha spedita Leopold Muller. Perchè non me ne hai parlato?”, rispose l’anziana signora.
“Mi avresti giudicata una sgualdrina – continuò Beatrice – perchè agli occhi nostri sei sempre stata la madre che si è sacrificata per la famiglia. E pensi che io non ti abbia vista piangere quando papà rincasava tardi e tu mandavi giù brutti rospi per amor nostro?”.
La signora von Bernstein abbassò la testa e si voltò verso la finestra. “Mi sono sempre chiesta perchè papà non abbia mai acquistato questa casa – aggiunse Beatrice – In trent’anni d’affitto c’è costata un occhio della testa. Forse perchè voleva sentirsi inquilino a vita e non avere vincoli”.
“E questo cosa c’entra con il tuo amore per Leopold?”,
replicò la madre. “C’entra, mamma. Tu e qualcun’altro mi avete sempre fatta sentire affittuaria della mia vita. Ho 34 anni e non sono più una bambina. Voglio essere padrona delle mie scelte. Mamma, non voglio più vivere, adesso voglio volere, voglio esistere”, concluse Beatrice.
Uscì fuori sul terrazzino e, mentre Klaudia giocava, aprì la lettera di Leopold. Ogni parola galleggiò sulle sue lacrime perchè mai nessun’altro le aveva scritto parole così dense. Leopold le confessò della sua malattia rara che lo portò a dimenticare tutto in brevissimo tempo, ma anche della sua permanenza all’hotel Ulysse a Fehmarn . Era lì che aveva vissuto l’ultimo mese e mezzo di vita, osservando i quadri di Beatrice e il terrazzino della sua casa. La brezza marina le accarezzò i capelli e Beatrice lasciò che gli occhi inzuppati di lacrime si alzassero verso il mare. All’orizzonte trovò depositata la quiete. Questa volta niente sarebbe stato più come prima. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, ottava puntata

Al centro del palcoscenico c’erano uno a fianco all’altro i dieci quadri che Beatrice aveva dipinto per lui. Le luci colorate si incrociavano e li illuminavano come se fossero gli attori protagonisti della scena. Una voce dalle quinte lesse queste parole: “Non volevo dimenticare le cose belle della mia vita. E una sola donna lo è stata. Desideravo invecchiare con lei. Questi acquerelli mi hanno aiutato anche quando si spenta la luce e c’è stato il buio. E spero che da quel buio, in cui adesso galleggio, esca ancora il suo sorriso”.
Fu in quel momento che Beatrice si ricordò delle parole inquietanti farfugliate da Leopold al parco alla fine di luglio. Scoppiò in lacrime tra le braccia del signor Muller. Il trucco si sciolse e le colò sul viso, facendo scivolare via quella maschera che la rendeva donna e moglie felice agli occhi di tutti.
Andò via di scatto e nel foyer si imbattè nel marito, che aveva in braccio la piccola Klaudia. Federick le gridò contro: “Dove vai adesso?”. Beatrice gli rispose: “Federick, faccio quello che avrei dovuto fare tempo fa. Me ne vado. Non mi fai più paura. Non ti amo più”. E lui afferrandola per un braccio urlò: “Cosa farai? Vivrai con il ricordo di un fantasma? Beatrice, lui è morto”. “No, ti sbagli – replicò Beatrice –  Il morto vivente se tu, Federick. Il mio amore per Leopold vivrà per sempre in quei quadri”. E poi decisa come non lo era mai stata aggiunse: “Ti dirò di più. La notte di San Lorenzo, in cui mi obbligasti a fare l’amore con te, pur di restare fedele a lui, ho prelevato dalla tua carta di credito. Ho distribuito duemila euro tra le prostitute di Schöneberg e Tiergarten. Ho preferito sentirmi una di loro, piuttosto che donarti me stessa. Federick, quella notte hai comperato il mio corpo, ma non la mia anima”.
Beatrice gli strappò di mano Klaudia e corse via. Il marito rimase imbambolato. Per la prima volta vedeva quella donna, da sempre sottomessa e impaurita, così decisa e ribelle. Beatrice si precipitò in un taxi e si fece portare alla stazione. Prese il primo treno per raggiungere in fretta il litorale orientale di Schleswig-Holstein e rifugiarsi nella casa di vacanza di famiglia sull’isola di Fehmarn. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, settima puntata

A casa non la riconosceva più nessuno, persino il marito che era sempre distratto. Beatrice era diventata irascibile, irrequieta, non faceva altro che andare su e giù. Anche sua madre notò che la figlia fosse turbata e mandava la nipotina Klaudia a sorprenderla mentre singhiozzava in ogni angolo della casa. Erano più di due settimane che Leopold non si faceva più vivo.
Sì è vero, Beatrice si sentiva di averlo ferito con il rifiuto di intraprendere una vita assieme alla luce del sole, ma questo non era un buon motivo per scomparire così. Alla fine di agosto iniziò a cercarlo, ma nessuno sapeva dirle niente. I vicini di casa di Leopold le dissero che l’appartamento era disabitato da un pezzo, ma avevano intravisto qualche settimana prima un furgoncino che caricava alcuni quadri. Erano quelli che Beatrice aveva dipinto per lui. Una sera si prese la briga di assistere ad uno spettacolo al Volksbühne con la speranza di trovarlo all’uscita. Sul manifesto c’era scritto che il tecnico delle luci fosse Leopold, ma a teatro le assicurarono che era stato sostituito all’ultimo momento. Fu in quel periodo che Beatrice capì quanto Leopold fosse importante per lei e visse uno stato di depressione emotiva che le rallentò la vita.
Nella seconda metà di settembre era al parco con la piccola Klaudia, sulla stessa panchina e fu avvicinata da un signore di mezza età che le chiese “E’ lei la signora von Bernstein? Io sono Marc Müller, il papà di Leopold”. Beatrice si alzò di scatto e chiese con impazienza: “Cosa gli è successo? E’ più di un mese che non ho più sue notizie”. “Venga con me”, le chiese il signor Müller. La portò al Volksbühne. Lì, nella sala del teatro, c’erano solo pochi addetti ai lavori e il papà di Leopold disse a Beatrice: “Mio figlio ha voluto che gli ultimi fasci di luce fossero per lei”. Si alzò il sipario, mentre si sentiva in sottofondo un’armonica che suonava il motivetto che Leopold le aveva dedicato all’inizio della loro storia. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, sesta puntata

Beatrice era al settimo cielo perché quei biglietti erano il regalo più bello che avesse mai ricevuto: non aveva visto mai un concerto di Eros Ramazzotti. Le venne in mente di quando ancora studentessa, prima del crollo della cortina di ferro, ricevette in dono da un’amica il primo disco del cantante italiano. Leopold la convinse ad arrivare all’arena O2 World con largo anticipo perché voleva farle respirare l’atmosfera. Lì a Mildred-Harnack-Straße, nell’area del nuovo palazzetto dello sport, mangiarono un invitante panino al wustel bianco, prima che le canzoni diventassero il miglior pretesto per coccolarsi con le tipiche tenerezze da innamorati.
“Leopold, mi hai regalato la serata più bella della mia vita. Non la dimenticherò mai!”, esclamò Beatrice, guardandolo diritto negli occhi e sforzandosi di superare la sua incalzante timidezza. Poi Leopold la portò a Friedrichshain, a passeggiare lungo gli ultimi chilometri di Muro che sopravvivevano in città. Era la notte di San Lorenzo. Mano nella mano trovarono la loro stella cadente ed espressero un desiderio. Poco dopo la mezzanotte, Leopold guardò Beatrice e un fitta di rabbia attraversò il suo sguardo. Le sussurrò con determinazione: “Tesoro, non ne posso più di questa sopensione. Fuggiamo, andiamo via. Portami a vedere il mare dal terrazzino della casa delle tue vacanze. Vivremo felici lì e poi il resto verrà da sé”. E Beatrice rispose con un tono velato di rassegnazione: “Leopold, una fuga così precoce porterebbe alla distruzione di tutto ciò che c’è intorno a me. Ah, se ci fossimo conosciuti prima del mio matrimonio o magari ai tempi del liceo…”. E lui replicò adirato: “Saremmo nella stessa condizione perchè questo maledetto muro su cui sei appoggiata ci avrebbe separati comunque, tu da una parte ed io dall’altra”.
Beatrice singhiozzò e lui la strinse forte a sè. Si sentirono avvolti da un silenzio profondo attraverso cui Leopold le disse tutta la verità, quello che sarebbe successo. Quel silenzio parlò più di quanto non avrebbero mai fatto le parole. Beatrice prese un taxi e corse a casa. Si voltò indietro e Leopold era diventato già un minuscolo puntino nero, risucchiato dal buio luminoso della notte del 10 agosto . (CONTINUA)