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Cartoonia sui profili di Facebook: vince il Giappone degli anni ’70 e ’80!

Sembrava il capriccio infantile di qualche “faisbukkiano”, invece l’invasione dei personaggi dei cartoni animati nelle foto del profilo di Facebook aveva un suo perché. La settimana per i diritti dell’infanzia, proclamata dal 15 al 20 novembre, è stata molto “social” e il passaparola sulle bacheche è stato così suadente che nel giro di poche ore ogni nostro contatto italiano aveva rinunciato al suo “egocentrismo da profilo” per trasformarsi in un cartoon. Insomma, un modo simpatico per tornare ad essere bambini e ritrovare i nostri eroi  fino al 25 novembre.
Quale migliore occasione per un blogger se non quello di attraversare il social network più famoso per capire quali siano stati gli alter ego più gettonati?
In cima alla classifica, ci sono i personaggi degli anime giapponesi che legano le generazioni degli anni ’70 e ’80. I Robottiani hanno scelto i volti d’acciaio del rivoluzionario Nagai – Mazinga, Jeeg e Goldrake in pole position – le romantiche hanno recuperato il manga sentimentale dietro i sorrisi di Candy, Georgie, Lulù, Lady Oscar; le sovversive hanno chiesto in prestito la faccia a Lamù e alle tre sorelle di Occhi di Gatto; i controcorrente sono andati incontro a Yattaman, Conan, Gigi la trottola, Flo Robinson, il Tulipano Nero, Bia, la Principessa Zaffire, Capitan Harlock, i protagonisti di Galaxy Express e Pollon. Qualcuno si è ricordato del povero vecchio Magoo, qualcun altro dell’allegra brigata di Hanna-Barbera tra Penelope Pit Stop e il cane Mudley. Pochi si sono “puffati” da Puffetta o Grande Puffo, ma in tanti hanno chiesto asilo a Springfield per bussare il campanello di casa Simpson.
Furore anche per i personaggi Disney con Topolino, Minnie e le eroine delle fiabe di sempre. Le principesse hanno fatto gola alle giovanissime, inclusa La Bella addormentata nel bosco o Cenerentola, per lo più dimenticate, ma ricordate da chi sa che “i baci dei principi azzurri risvegliano dai lunghi letarghi”.
Una faccia in prestito”, come recitava il titolo di un album di Paolo Conte, è arrivata anche per me. E’ quella di Lupin III di Monkey Punch, nella versione poetica della prima serie televisiva, super popolare tra i profili.  Quel suo ghigno era più di un ammiccamento furbesco. E tu da chi ti sei fatto prestare la faccia e perché?

J’accuse: L’orrore delle calunnie su Facebook

Mentre al cinema passa il film Social Network di Fincher sulla storia dei fondatori di Facebook, l’oasi del cazzeggio sociale più famosa del pianeta esplode con inciuci e cattiverie. Diceva Jong che “il pettegolezzo è l’oppio dell’oppresso”, ma io aggiungerei anche “del depresso”. Quale miglior zona franca, se non quella di Facebook, per trasferire l’istinto ciarlatano che si nasconde in noi?
Ogni volta che torno nel mio Sud, girovagando nei paesotti di provincia, non trovo più quelle situazioni colorite di una volta: il marito che improvvisa una scenata di gelosia alla moglie; il litigio furioso delle due vicine di casa o la disfatta chiassosa della coppia. Ormai è tutto finito su una bacheca virtuale ed il nostro destino è segnato da fatti e misfatti che si postano lì sopra. Quando capiamo che la gonnella di mammà non ci basta più per ferire il nostro avversario, diventiamo scorretti a suon di offese pubbliche. Ormai il megafono della rete è  lo status di Facebook: basta confezionare in meno di 150 caratteri una calunnia e il un “pacco bomba” è ben servito, non tanto per l’avversario, ma per tutti gli amici faisbukkiani, che dovranno decidere presto da che parte stare. E così le bacheche, che fino al giorno prima erano zolle morbide di video e pensieri deliziosi, si trasformano in fretta e furia in un territorio minato, con accesso privilegiato a tutti coloro che voglio partecipare alla guerriglia virtuale. La persona offesa esce allo scoperto, si difende con ironia e non fa sconti a nessuno.
Nel modo dei videogiochi e dei social network l’orrore delle calunnie sfiora il ridicolo, perché è nella vita reale che la meschinità viene davvero a galla. Al di là o al di qua dell’ “accusa infamante”, la priorità assoluta resta la salvaguardia della faccia col quesito “Che cosa penseranno gli altri di me?”. Il tempo attutisce la melma degli schizzi di fango, che con o senza Facebook, finirà per inzozzare “il sepolcro imbiancato”, l’artefice che ha messo in moto la macchina del pettegolezzo. Alla fine, a dura prova sarà messa la vittima offesa, che nei giorni infuocati della rivolta virtuale, non si è accorta che sotto il fango era sbocciato un fiore. E tutte le volte che uscirà da casa a testa alta, dimenticando che “lo sguardo basso è la virtù dei forti”, non noterà quel fiore cresciuto alle intemperie e lo calpesterà con furore. Sarà la rabbia di chi non ha intuito che per “fare un fiore ci vuole un fiore” come cantava Sergio Endrigo, ma bisogna anche innaffiarlo col silenzio per proteggerlo. “Non calpestare i fiori nel deserto” resta un sacramento sacrosanto. E questo vale pure per chi come la “Sally” di Vasco Rossi si porta ancora tanti graffi dentro.

Il gigante e la bambina, giustizia per Sarah Scazzi!

Al ritorno dalle vacanze avevamo incrociato  il volto di quella ragazza appiccicato ovunque:, dai muri sotto casa alle bacheche della rete. Il messaggio era chiaro: “Chiunque avesse trovato Sarah Scazzi era pregato di farsi vivo”. Nessuno però aveva diffuso l’annuncio all’incontrario, mettendolo giù così: “Chi prima trova l’orco cattivo, prima ci restituisce la speranza che Sarah sia viva”. E’ stato inutile perché il mostro era nascosto in famiglia ed aveva agito in un batter baleno, chissà con la complicità di chi. Svanita la speranza di rivedere Sarah tra le braccia di mamma e papà, oltre 60 mila persone di ogni età alzano la voce su Facebook e chiedono giustizia. Giustizia o vendetta? Forse vendetta, come quella che ci ha assaliti dopo la confessione dello zio Michele Misseri, forse rabbia come quella tra la folla dei funerali di sabato ad Avetrana.
Quindici anni fa un caporedattore mi rimproverò, perché avrei dovuto occuparmi di cronaca nera per crescere nella giungla dell’informazione. Un morto ammazzato valeva la prima pagina di un giornale più di un’inchiesta culturale o di una recensione di uno spettacolo.
Quel misuratore vale ancora oggi dove c’è l’assillo di far numeri ovunque, siano clic o audience. E in questi giorni, nel lavaggio mediatico della tragedia di Avetrana, il volto del carnefice ha preso il sopravvento rispetto a quello della vittima o addirittura compare al suo fianco. Il popolo del web non potrà prendere posizioni che spettano alla giustizia (costituirsi parte civile nel processo?), così come la televisione non può trasformare un delitto in una farsa di costume, facendoci credere che guardare “Chi l’ha visto?” sia come fare una partitella a Cluedo. Per non diventare tutti complici di questo oltraggio mediatico, abbiamo il sacrosanto dovere di delegittimare tutti gli operatori dell’informazione; tutti i salotti televisivi, dal fard dell’Arena di Giletti  al fondotinta di Matrix; tutti gli angoli del web che daranno spazio al dramma dello zio Michele, l’orco assassino da ergastolo rinato nei versi amari della canzone di Rosalino Cellamare Il Gigante e la bambina.

Facebook e la sindrome ossessiva del “Mi Piace”

Ognuno ha le sue ossessioni e Internet ci vizia con quelle mode che possono diventare manie. E’ la volta del “Mi piace” facebookiano. I guru dicono che ha cambiato il nostro modo di comunicare, il termometro del business esulta perché misura i nostri gusti, e noi ci sentiamo inorgogliti quando li vediamo moltiplicarsi sulle nostre pagine di Facebook. Nei giorni della Seconda Repubblica di Internet, quella della democrazia dei social network, abbiamo ridotto e mortificato l’indipendenza e la libertà del nostro pensiero in nome dell”iconografia di “un pollice  all’insù”. Insomma il nostro punto di vista è stato stritolato nella riduttiva sintesi della nostra sacrosanta opinione.
I malati della “sindrome del Mi piace” si stanno infiammando nel falò della vanità. Una volta ce ne andavamo in giro a raccogliere pensieri per capire di che pasta fosse fatta la gente. Oggi spalanchiamo la finestra del pc e pensiamo di aver capito tutto dell’altro attraverso la collezione dei “mi piace”, impigrendoci pure a buttar giù un commento decente. Come se poi chi facesse il famigerato clic con la manina su un nostro pensiero, lo avesse realmente letto o compreso! Per la maggior parte è un modo per farsi notare, per manifestare simpatia. Chiediamo pure agli strizzacervelli del web se abusare del “Mi piace” sia una scorciatoia per amplificare un confine, quello tra il personaggio virtuale, convinto di aver seppellito le proprie frustrazioni, e quello reale, colpevole di aver consegnato le insoddisfazioni quotidiane all’agorà finta di Internet.
Durante una recita scolastica del ’78, mi chiesero perché avessi scelto come partner la mia compagna di banco. Io, alzandomi sulla sedia, declamai: “Mi piace perché ha gli occhi a mandarla, il nasino all’insù e divide merenda con me”. Mi avevano insegnato a motivare la mia opinione.Voglio tornare ad esprimere il mio assenso o dissenso perchè penso, senza quel maledetto dito all’insù. E’ ora che il “Cogito, Ergo sum” cartesiano non prenda più sviste, scivolando sul chiacchiericcio della rete.

Stai con me, Sakineh!

Il passaparola su i social network, Facebook in testa, è stato un uragano: tutti solidali con Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana condannata alla lapidazione per adulterio e aver ucciso il marito. La rete si muove alla velocità della luce e, intanto, da Teheran arriva una buona notizia. La condanna è stata sospesa e sarà sottoposta a revisione. Non dobbiamo abbassare la guardia, ma possiamo tirare un sospiro di sollievo. Sakineh è il personaggio-simbolo di una pratica mostruosa come la lapidazione, che in questo momento mette in pericolo la vita di tante altre donne. Sakineh è diventata un’icona e il taglio del suo viso senza velo, rimbalzato da una parte all’altra del pianeta, restituisce sobrietà e dignità all’universo femminile.
Noi, drogati da paillettes da rotocalco, ci stavamo convincendo che tutto si riducesse a letterine, subrettine, culi e tette rifatte. Abbiamo riscoperto la bellezza della donna, con Sakineh, lì nella penombra della sofferenza, sotto il velo del dolore. Come se poi spettasse a noi condannare – la pena di morte è la più grande offesa rivolta all’umanità – qualunque cosa ci sia in ballo, anche l’adulterio, punibile tra l’altro in Italia fino al 1968. Il peccato di aver amato un altro uomo, in una cultura che organizza le unioni matrimoniali come se fossero contratti, si imbriglia in una visione romantica e poetica di questa triste vicenda? Perlomeno mettiamo nero su bianco l’unica parola per cui vale la pena lottare: l’amore.
E allora come accenna quella dolce canzone che ti è stata dedicata, ti dico “Stai con me, Sakineh”. Lo so, è paradossale. Dovrei essere io a fare il contrario, ma non ne sono capace. Stai con me, Sakineh e rivelami il segreto che tutti hanno tentato di nascondermi da quando sono al mondo. Il tuo Dio è uguale al mio perché dove c’è amore non può esserci condanna, ma solo la certezza che la disperazione resiste tra gli scheletri dell’armadio, quelli occultati dalle nostre coscienze.

Senza candeline tra le luci e le ombre della Laguna

Spegnere le candeline d’estate aveva un suo perché: dimenticare il tuo compleanno perché eri preso dalla magia vacanziera fatta di secchielli, palette e castelli di sabbia. Oggi non è così. Basta aprire la tua pagina di Facebook e una sfilza di messaggi sulla tua bacheca te lo ricordano. Quel senso di nomadismo che mi porto dietro era già segnato dagli astri. Per me non c’era la solita festicciola a casa, ma ogni anno i festeggiamenti si spostavano da un luogo ad un altro, con persone diverse. E’ lo svantaggio di chi è nato nei mesi estivi. Eppure prima di soffiare ed esprimere il desiderio di rito, avevo sempre la smania di salire sulle spalle di mio padre. Lui pensava fosse il solito capriccio, ma io mi sentivo in groppa a quel gigante che poteva aiutarmi ad acciuffare la linea di confine che divideva l’orizzonte dal mare.
La laguna di Venezia mi ha riportato a quella scena, forse perché quando condividi una serata di luglio con un anziano signore è più o meno facile tornare a sentirti bambino. Non era stata questa o quella canzone di Charles Aznavour che si era dileguata su piazza Sam Marco, piuttosto il mio desiderio irrequieto di farmi raccontare da lui i particolari di quella lunga tournèe con Edith Piaf. Un desiderio che è finito tra le luci e le ombre della laguna, in piena notte, nel silenzio più totale.
Questo netto contrasto tra il buio notturno e la luce del giorno che stentava ad arrivare mi ha riportato a quella scivolata – che mi sforzo di ricordare invano – che avevo fatto dal pancione di mia madre verso la vita. In quel momento mi sono ricordato che era il mio compleanno, sebbene attorno a me non ci fosse una torta con le candeline, ma solo il ronzio di quelle canzoni che non mi hanno fatto dubitare della generosità della vita. 

 

La stanza di Niccolò Fabi: l’ultimo canto per Lulù

Non so se sia la solita beffa che il destino gioca pure a coloro che vivono ammantati dalla notorietà: la settimana scorsa la piccola Sophie, figlia di Pietro Taricone, è rimasta orfana; domenica scorsa un giovane papà, Niccolò Fabi, ha perso la sua piccola Lulù, all’anagrafe Olivia. E’ come se Sophie e Niccolò, nella suddivisione del rovescio dello stesso dolore, si ritrovassero a condividere con il mondo che li circonda una frattura molto intima, delicata, personale a tal punto da non immaginare che diventi pubblica, nella sfacciataggine del virtuale.
Facebook, da social network che era, è diventato l’agorà del dolore, l’anticamera dove poter lasciare sostare il proprio stato d’animo finché non trovi la sua naturale consistenza. Per Taricone sono nati diversi gruppi su Facebook in segno di cordoglio alla famiglia, mentre per Lulù, l’ultimo canto non è stato sussurrato attraverso una canzone, ma in una lucida confessione che Niccolò Fabi ha voluto lanciare attraverso la sua pagina di Facebook. Non dalle colonne di un giornale, non dai microfoni di una radio, non da un sito web, ma nell’hula-hoop virtuale della socializzazione per l’appunto: “Il dolore devastante che mi attanaglia la gola è la conseguenza dell’esperienza più…inaccettabile orrida ingiusta e innaturale che un essere umano può vivere – scrive il cantautore romano – Inutile dirvi che fino a quando non avrò trovato un modo per trasformare questo dolore e dare un senso costruttivo a questo incubo, il palcoscenico sarà l’ultimo posto in cui desidererò stare”.
Quando Fabi ha citato “un senso costruttivo a questo incubo” ho pensato a Nanni Moretti imprigionato dalla macchina da presa nel toccante film La stanza del figlio e a come il dolore ci renda tutti uguali, senza distinzione di niente. Il dolore per la perdita di qualcuno ci restituisce all’attendibilità dell’esistenza, anche se di mezzo c’è il virtuale?

Federico e la Cicogna, in viaggio verso la vita

La cicogna uscì di buon mattino quella domenica di giugno. Venne giù dalle Dolomiti e il tempo era poco propizio. Il suo viaggio iniziò tra fulmini, temporali e acquazzoni. Appena il bambino le starnutì in faccia, lei sorrise: “Non preoccuparti Federico, entro le nove di domani mattina sarai tra le braccia di tua mamma”. Fino alla Toscana tutto filò liscio, ma il primo contrattempo spuntò ad Orvieto dove fu fermata dai carabinieri per aver bevuto un bicchierino di troppo. E la mamma da Napoli replicò: “Azz !!! Alza pure il gomito ‘sta cicogna! Speriamo che non arrivi tutta ‘mbriaca”. Alle porte del Lazio, la cicogna e il bimbo dovettero fare un atterraggio di emergenza perché pioveva a dirotto. E la mamma tirò un sospiro di sollievo: “Meno male, va’! Così mi dà il tempo di organizzare le ultime cosette”.
Dopo aver ripreso la sua missione, nei paraggi del raccordo anulare di Roma, la cicogna fu multata per eccessi di velocità. E il papà di Federico urlò, facendosi sentire da tutto il palazzo: “Non mi mandate le multe, che io non le pago!”. Arrivata in Campania, cambiò direzione improvvisamente, dirigendosi verso Mondragone. Si fece afferrare per pazza: “Prima della consegna, una mozzarella di bufala non me la toglie nessuno”. Pochi istanti dopo, si fece consigliare dalla ragione, facendo un’inversione verso Sessa Aurunca: “E se mi viene il cagotto dopo tutta ‘sta burrata che ho mangiato stamattina prima di partire? – disse tra sé e sé – Rinuncio alla mozzarella”.
Dopo una luna sosta al passaggio a livello di Villa Literno – era incazzata nera perché il treno locale Roma-Napoli l’aveva superata – sorvolò il litorale domitio e svolazzò beata tra Cuma e Pozzuoli. Anzi, per fargliela pagare a quel maledetto autista indisciplinato, lasciò che il bimbo gli facesse addosso una piccola “cacatella”.
Giunta sul Vesuvio, dopo esserci incantata planando sul Golfo di Napoli, trascorse  lì l’ultima notte assieme a Federico. Poi gli sussurrò: “Ricorda che non sarà il posto dove nascerai a fare la tua persona. Al di là dell’amore delle persone vere che ti saranno accanto, sarai sommerso da tante ipocrisie. Ti sbaciucchieranno in tanti che si credono poeti e invece sono dei miserabili; o quelli che si fanno chiamare Maestro e invece sono dei sepolcri imbiancati; quelli che avranno la presunzione di dirti cosa devi fare. Tu ascolta solo la voce del tuo cuore, della tua coscienza. Viaggia e conosci. E spero che questo viaggio condiviso ti resti addosso, anche quando ti affaccerai alla vita. Caro Federico, questo è il mio ultimo viaggio, vado in pensione. Sono invecchiata anche’io. Non ti dimenticherò mai. E spero che quando un giorno diventerai papà e la tua amata aspetterà la cicogna, ti ricorderai della tua Rosilde. Sì, io mi chiamo Rosilde ed ho portato a destinazione centinaia di bimbi”.
Dicendo queste bellissime parole, la cicogna fece il passaggio di consegna, affidando il bimbo a Martin, il suo angelo custode. Poi, alzand0 lo sguardo al cielo, disse: “Signore, il mio ultimo viaggio è stato compiuto. Dona alla mamma di questo bimbo la forza per allevarlo, consegna nella mani del papà la costanza di sostenerlo in qualsiasi momento. E a me,cicogna da una vita, fammi ritrovare sulla via del ritorno tutti quei bimbi che in questi 32 anni ho consegnato”. La cicogna ripartì e il buon Dio ordinò all’angelo custode: “Vai Martin, è giunta l’ora. Spingilo verso la vita e fallo diventare un bambino vero. E’ lui Federico!”. Martin Rispose: “Signore, l’anestesista è in ritardo. Cosa faccio?”. E il Signore irritato replicò: “A Napoli mi fanno sempre diventare furibondo. Negli ospedali è sempre la stessa storia”. Federico è nato il 21 giugno poco dopo le 10 e sul viso aveva il sorriso dell’estate. Mentre la cicogna Rosilde era in fila all’Inps per verificare i suoi contributi, il buon Dio la fermò: “Non puoi andare in pensione, cara Rosilde. Ho scoperto che sei la stessa cicogna che il 12 aprile di tanti anni fa consegnò Ada, la mamma di Federico, ai suoi genitori. C’è un incantesimo in atto che passa di generazione in generazione. E deve continuare”*.

(*) La fiaba è stata scritta da R. Pipolo in maniera estemporanea e pubblicata a puntate sulla bacheca di Facebook della mamma di Federico Luigi dalle 19.43 del 18 giugno alle 10.15 del 21 giugno 2010.

Quindici anni senza Mia Martini

Il 12 maggio sono quindici anni senza Mia Martini. Sembrano pochi, ma in realtà sono un’infinità di tempo. Sì, gli omaggi e le commemorazioni; sì, il rimpianto dei discografici che a volte sfocia nel “già sentito dire”, sì, gli inediti che spuntano a singhiozzo, ma non basta. Nel panorama musicale italiano ci sono tante voci, ma poche personalità. Mia Martini si è giocata la sua partita “fuori dal coro” perché, dietro la maschera imposta dal marketing ufficiale, c’era una persona vera e sincera: Mimì Bertè. E questa sincerità che rende l’interprete ancora più grande, perché le canzoni non sono banalità, ma i segni che decifrano il nostro esistere. E il rimpianto è quello di non aver fatto in tempo ad incontrarla. Il destino ha voluto che adesso io abiti a pochi passi da Cavaria con Premezzo, il paesotto che raccoglie le sue ceneri. Sarebbe bastata un’intervista per scrutare il suo complesso e variegato mondo interiore? Il web continua a ravvivare la sua memoria. Su Facebook spopola una pagina a lei dedicata, mentre il sito Chez Mimì è la voce pulsante del suo fan club. La redazione mi ha scritto recentamente, invitandomi a raccogliere in poche battute una sbadataggine: Mia Martini è stata anche una brava cantautrice. Non è ora che se ne torni a parlare, sul serio?

San Valentino ai tempi di Facebook

Corteggiare una ragazza ai tempi di Facebook è uno stress, ma non è da meno la festa di San Valentino su un social network da 400 milioni d’utenti. I tempi cambiano anche per noi trentenni, abituati negli anni ’80 ad indebitarci per comperare il maxi Tubo da 100 baci Perugina. Chi preferiva la stravaganza, trovava un’alternativa e rischiava di perdere la faccia. Nel primo S. Valentino da patentato, ho addobbato con tanti palloncini  la Fiat 127 bianca di mio padre, organizzando una mini cena a “lume di torcia” in auto. La sfiga ha voluto che se n’è scesa la batteria e le ho chiesto: “Ti spiace, darmi una mano a spingere?”. Ai tempi Facebook , inizia l’assillo: usare o non usare le solite applicazioni e i regali virtuali?  Il cuore che si spappola o il mazzetto di fiori esplosivo potrebbero ottenere l’effetto contrario. Mettiamo subito le cose in chiaro: il 14 febbraio è la festa degli innamorati e non dei fidanzati! Pertanto, se uno è innamorato (ma lei non lo sa o fa la finta tonta!) deve darsi una mossa.  Invitarla a cena mentre lei è in chat? Magari sta chattando con 10 persone diverse e rischi di passare inosservato. Inviarle un messaggio in privato con oggetto “Invito per S. Valentino”? Peggio che andar di notte, perchè potrebbe scambiarlo per spam promozionale. E la bacheca? Quella è off limits, sperando che non sbuchi quel sondaggio del cavolo che recita così: “Sei single. Con quale dei tuoi amici accetteresti di trascorrere questo S. Valentino?”. Lì è davvero la fine e devi prendertela con quelle maledette applicazioni che rompono le uova nel panierie ai single! L’ultima spiaggia è mandarle la richiesta di fidanzamento su Facebook, augurandoti che non la prenda come uno scherzo di pessimo gusto. Con tutti i fidanzamenti virtuali che ci sono in giro, vuoi vedere che proprio tu resti come il fesso? Ci può stare.