Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Vieni-via-con-Sanremo-2013: Il peggiore Marco Mengoni vince il festival televisivo di Fazio

Rosario PipoloPoteva tornare ad essere il festival della canzone italiana, invece si è riconfermato il “festival della canzone in televisione sotto il ricatto del televoto”. Marco Mengoni ha vinto il 63° Festival di Sanremo. Niente giacobinismo musicale come avvenne all’Ariston negli anni Settanta, ma riverberi del baudismo televisivo che imposero Sanremo ad evento mediatico, allungato a cinque serate, oggi a metà strada tra Che tempo che fa e Vieniviaconme.

Maurizio Crozza, che non ha preso lezioni di satira politica dal compianto Oreste Lionello, non ha la stoffa di Roberto Benigni, giullare che non si clona mai, e scambia il palco dell’Ariston per lo sgabuzzino di Ballarò. A compensarlo c’è Claudio Bisio con la sua classe, quella che appartiene ai comici veri, coloro che nascono dal legno del palcoscenico di un teatro. Tra i due litiganti gode la Littizzetto che, con il monologo a favore delle “donne maltrattate”, ci restituisce da reginetta un angolo di televisione intelligente. Il pallottoliere dell’auditel resta l’unica misurazione di autocompiacimento, mentre bisognerebbe interrogarsi su quanto una canzone durerà nel tempo, senza l’assillo dell’essere “radiofonica” o no. La doppia canzone è un sussidio da prima serata, niente a che fare con gli anni d’oro del Festival, quando più brani cantati dalla stessa voce sgomitavano fino all’ultima nota e l’ispirazione del televoto era brutalità da incubo di fantascienza.

La generazione social si precipita su Twitter e Facebook a movimentare la telecronaca di un evento che deve un merito al pifferaio progressista Fabio Fazio: sbattere fuori dalla porta le vecchie glorie, che oramai appartengono al vezzo retrò della nostalgia canaglia. Purtroppo sul palco c’è Albano o Raphael Gualazzi, Anna Oxa o Simona Molinari, si inciampa nel solito ed imperdonabile errore: la gioia e l’orgoglio di vedere il proprio beniamino all’Ariston distoglie l’attenzione dal valore di ogni singola canzone, indipendentemente dall’interprete.

Il talent vince l’ennesima scommessa perché il pezzo dai canoni sanremesi è “Il futuro che sarà” di Chiara, gran bella voce, con uno stile musicale che rievoca quello della dimenticata Lena Biolcati. L’olimpo è per pochi, con impasti musicali di matrice diversa: “A bocca chiusa” di Daniele Silvestri, “Vorrei” di Marta sui Tubi, “Sai” di Raphael Gualazzi, “Scintille” di Annalisa, “Sotto casa” di Max Gazzè e “Mamma non lo sa” degli Almamegretta. La suite strumentale con appigli e citazioni zappiane valorizzata in corner è “La canzone mononota” di Elio e le storie tese e la rivelazione sanremese si chiama Maria Nazionale che, lasciando a casa il cliché dei neomelidici all’ombra del Vesuvio, sprigiona dalla gola lapilli di fado portoghese.
Infine, i Giovani, esiliati a ridosso della mezzanotte, ci hanno fatto sbadigliare (avrei tenuto la Porcheddu al posto del vincitore Antonio Maggio) o stizzire come lo sbuffo ruffiano della “la(sa)gna” di Rubino “Amami uomo”.

Dimenticheremo tutto in fretta e furia e, nel giro di pochi mesi ,queste canzoni annegheranno nel marasma del jukebox digitale. “Perché Sanremo è Sanremo”, il gingle inventato da Caruso e Bardotti, è finito tra le cianfrusaglie messe in soffitta, a parte la soddisfazione di aver visto alcune facce che mai avremmo immaginato all’Ariston.

 Sanremo 2013, la compilation (2CD) su Amazon.it

Sanremo 2012 #1: i sermoni del Molleggiato

Luca e Paolo l’hanno detta tutta in meno di una tweettata: sticazzi! Questo è sottotitolo per i non udenti della prima serata del Festival di Sanremo 2012. Canzoni in secondo piano come al solito, Gianni Morandi sottotono, in attesa del salvagente festivaliero: il Molleggiato.

Che noia, che barba, che noia, che barba, con il solito sermone tra religione e politica che scimmiotta un quadretto del teatro dell’assurdo. Pochi silenzi per Celentano, personaggi in cerca d’autore – Pupo & Canalis in primis – e i soliti attacchi scontati. Sticazzi. Questa volta tocca a Famiglia Cristiana e Avvenire, ma non fa nessun effetto, così come tirare in ballo il profeta Gesù o il tango tra musulmani e cristiani. Religione, consulta e tattarattà.

E le canzoni? Sticazzi. Si fa a fatica al primo ascolto, spostando l’attenzione sull’interprete. Un dì era il Festival della Canzone Italiana. Si adegua ai tempi Van De Sfroos, che canta in italiano per bocca della sibilla Irene Fornaciari. Si salvi chi può dai saldi sociali di Emma, dalle coppie scoppiate D’Alessio-Bertè, dalla melodia sgonfiabile di Dolcenera e dalla solita pappa sanremese di Fabrizio Moro, affidata alla voce graffiante di Noemi. Sulla scialuppa di salvataggio ci sono Nina Zilli, Samuele Bersani e Marlene Kuntz.

E la beffa del televoto? Ci risiamo: niente buttafuori per la prima serata. Sticazzi.

Sanremo 2011 Atto II: Il soldatino di piombo al Festival della Canzone

Rassegniamoci perché questo è un Festival di Sanremo da dimenticare. Ha deluso persino la categoria Giovani, mandata in onda poco prima della mezzanotte, quando i più insofferenti avevano spento già il televisore da un pezzo: passano il turno, graziati dal fantomatico Televoto, Serena Abrami che fa l’indossatrice per Niccolò Fabi e Raphael Gualazzi con lo swing da faccia da schiaffi che tira un rimbalzo al sound di Bublé.
Svestiamoci di tutto senza tralasciare un particolare: questo è il Festival della Canzone Italiana e non del cantante. E allora se con la dovuta spensieratezza emotiva vogliamo rincorrere un bagliore, stiamo dietro a Tricarico, che nonostante la sua esecuzione traballante, ha azzeccato il brano nel giubileo civico verso l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Tre colori è una filastrocca musicale, ben congeniata, perchè disegna i contorni a matita di piccole storie che sono quelle di ognuno di noi. Ho ripensato a mia madre quando una trentina d’anni fa si presentò regalandomi il libro illustrato del Soldatino di piombo. Attraversando la fiaba di Andersen mi ero illuso che chi indossasse la divisa era una miniatura giocattolo, che poi al momento opportuno sarebbe tornata nel cassetto. Altro che soldatini di piombo, quelli erano stati lì armati di fucili a farsi ammazzare per cucire quei tre colori.
E in uno dei tre della bandiera italiana si intrufola, sotto la ballata d’amore, il grido del professor Roberto Vecchioni: “Per il bastardo che sta sempre al sole, per il vigliacco che nasconde il cuore, per la nostra memoria gettata al vento da questi signori del dolore”. La storia si ripete e noi magari ci accontentiamo di mandarla giù a memoria, come se poi il dovere civico e la coscienza collettiva di un Paese si misurassero con molte frottole che affollano i tanti libri di storia. E qui “Chiamami ancora amore, chiamami per sempre amore” non è la sviolinata ricercata da dedicare a chiunque percorra senza saperlo il nostro cuore in questo momento, ma è il richiamo all’adunata, quella delle coscienze e di una presa di posizione precisa rispetto a tutto il resto, alle oscene banalità che scontornano l’essenza della vita. Cosa ce ne facciamo di un mondo finto, costruito a tavolino tra lacrime da coccodrillo ed euforia virtuale? Cosa ce ne facciamo di un mondo che ha rinunciato consapevolmente al sapore dell’amore? Chi corre troppo in fretta qualcosa se la perderà pure. Sanremo è il Festival della Canzone Italiana e non dei cantanti. Torno a ripeterlo. Così abbiamo l’unica chance di tornare sui nostri passi e accorgerci che dopotutto in qualche canzonetta è ancora nascosto il segreto per riappropriarci della collettività e scrollarci di dosso il nostro miserabile individualismo.

Sanremo 2011 atto I: Che barba, che noia!

Abbiamo sperato fino all’apertura del sipario che non fosse catastrofe. Invece questa è davvero la tragedia dell’Italia dalle canzonette che non sa più che pesci prendere. Il Festival di Sanremo condotto da Gianni Morandi è sicuramente il peggiore del nuovo millennio. Chi ha avuto la bizzarra idea di cominciare con la mamma baby-sitter Antonella Clerici, che trasforma un copione da prima serata nella più maldestra cantilena recitata? E’ proprio vero quando si dice che il Festival della Canzone Italiana rispecchi per filo e per segno ciò che siamo in questo momento. Ce lo ricordano i maliziosi siparietti di Luca e Paolo, i veri showmen della prima serata, che sono lapidari tra le belle statuine di Belen e la Canalis.

Gira e rigira la frittata è quella di sempre, con lo spettro del solito intruso, l’innominato ficcanaso che guida l’intera corte a distanza. Questa edizione 61 del festival più amato dagli italiani è così sottotono da sembrare un favore costruito a tavolino per far rallegrare la concorrenza. Gianni Morandi è un pessimo conduttore – perché non ritorna a fare il suo mestiere? – e l’immediatezza scenografica così fantasma da farci scordare che all’Ariston c’è un’orchestra che suona dal vivo.
E delle canzoni ne vogliamo parlare? Quelle dei Campioni le buttiamo tutte giù dalla torre e ci teniamo strette la poesia del prof. Roberto Vecchioni, l’impasse vocalico di Emma & i Modà, la ricercatezza (forzata in qualche punta) di Nathalie, la filastrocca di Tricarico, il folk spedito di Van De Sfroos, la lenta alzata in volo di Battiato. Il brano di Giusy Ferreri non è malaccio, ma l’ex cassiera ha perso così tanta voce da rischiare di tornare tra le corsie del supermercato. Sbadigli a non finire per un Sanremo senza show e senza canzoni. E poi sarà che porta sfiga, ma fa bene una mia lettrice a ricordarmelo. Il Festival non è più lo stesso senza il motivetto della seconda Restaurazione baudiana: “Perchè Sanremo è Sanremo”. Qui c’è poco da ridere e tanto da piangere. Tatangelo via (era ora!), ma avrei tenuto la Oxa cestinando i riciclati Barbarossa e Pezzali, due bidoni in un colpo solo.