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A Piccoli Passi: Perché ho sposato un’educatrice di asilo nido

Quando ho sposato un’educatrice di asilo nido sapevo che sarei tornato a sbirciare nel mondo dell’infanzia. Le piccole storie di un asilo nido comunale del milanese mi hanno accompagnato negli ultimi due anni. E se non era mia moglie a darmi corda nei racconti, ero io stesso a dargliela. E adesso chi lo dice a Gabriele e Caterina che si è conclusa l’esperienza dell’asilo nido in vista di una nuova avventura?

LUSA

Tutte le volte che il piccolo Gabriel mangiava una vocale e chiamava la sua educatrice “Lusa”, sono tornato in Albania, nei giorni di quell’incredibile viaggio on the road verso Tirana. Tengo stretta ancora tra i cimeli la statuetta della donna che in una notte cucì la bandiera dell’indipendenza albaese. La giocosità di Brayan, quando si infilava nel lettino, e i suoi occhi chiari mi hanno fatto ritrovare l’alba sul mare di Durazzo che fronteggiava l’Italia.

FRATELLANZA

La generosità del piccolo Adam e il suo continuo buttare l’occhio al fratello e sorella minore Yassin e Sofia mi hanno fatto tornare alle elementari, ai tempi in cui sbirciavo nell’aula di fronte: accanto alla porta era seduta mia sorella minore. L’infanzia è il tempo privilegiato in cui germoglia quel barlume di protettività che farà, negli anni avvenire, della fratellanza una congiuntura della vita.
E Martolina, piccola acrobata da una sala all’altra, ripeteva agli altri: “Luisa è amica mia”. A te, cara Marta, che hai rotto la barriera immaginando di prendere un caffè con la tua educatrice, dedico i versi della canzone dei Beatles Martha my Dear.

IL PICCOLO PRINCIPE E LA LUCE DELL’EST

“E pecché?”, ripeteva Manuel che senza saperlo aveva già il mantello esistenzialista del Piccolo Principe. Del resto la curiosità del piccolo per l’universo circostante lo accostava al personaggio di Saint-Exupéry così come la luce dell’Est, nello sguardo delle radici di Veronica e Emily, mi ha fatto immaginare il prossimo viaggio sulla rotta di Kiev e Chişinău, in auto con alla guida il mio amico di sempre Luca.

E MMO’ VADO GIU’

Chi mi ha riportato a casa è stata Ambra dagli occhi vispi made in Sud, con i suoi capelli arruffati e la tenera “scugnizzeria” della mia Napoli, l’allerta “‘a bufera” accompagnata dalla sua mimica da eccellenza meridionale, i suoi slang che sono anche i miei: “E mmo’ vado giù”.
Senza saperlo Ambra mi fatto ritrovare il Vomero, quel quartiere napoletano dove dai microfoni di una radio regionale è partita una fetta della mia storia, le serate al teatro Diana, l’intervista in camerino a Pupella Maggio, quella volta a passeggio in via Luca Giordano in compagnia di Gino Rivieccio, gli appuntamenti con mio cugino Massimiliano davanti allo stadio Collana, i momenti spensierati al teatro Cilea tra Giacomo (Rizzo) e Rosalia (Maggio), il caffè pomeridiano a piazza Medaglie d’Oro canticchiando Tony Tammaro e Federico Salvatore per fare dispetto ai “chiattilli”, il segno della croce dinanzi alla madonnina a piazza Immacolata per dire “Pienzace tu, Maronna mia”.

IL NONNO GUARDASTELLE

Nel disegno di Asia, che ho scelto come copertina di questo diario, ci sono i colori del suo legame speciale con il nonno che assomiglia al mio. Ci sono anche le linee che tracciano il dolore per la sua dipartita improvvisa.
Cara Asia, il mio si chiamava Pasquale e, dopo trent’anni, sento ancora la sua mano sulla spalla destra, perché i nonni sono uno dei doni più belli di Dio. Affacciati alla finestra, le stelle più luminose sono loro che da lassù continuano ad illuminarci, al tuo è stato affidato il compito di guardastelle. E come hai ricordato, attraverso i versi di Cristina Bellemo, regalate alla tua educatrice:

Eccomi, sono pronto a ripartire. Non è mica finita, sai, la strada. Adesso vado in viaggio nella vita.

A PICCOLI PASSI

Buone vacanze a voi tutti che siete una speranza sospesa tra il presente e il futuro. Difendete la vostra libertà, la vostra italianità nel rispetto delle radici, perché la diversità è un serbatoio di ricchezza.
Ho sposato un’educatrice di asilo nido perché sapevo che queste storie, le vostre, avrebbero fatto rumore nella mia anima. Non dimenticate mai l’amore donato da ciascuna educatrice e da tutto il personale, custoditelo gelosamente per sempre.

Buona vita, cari bimbi… a piccoli passi!

“Stupendo, mi viene il vomito… Non lo so se sto qui o se ritorno.”

Svolta in quella strada. Rallenta, lo vedi il perimetro in cui ci siamo giocati la partita dell’infanzia, tra casa tua e quella di nonna? Forse questi trentott’anni d’amicizia li abbiamo fatti correre troppo velocemente come degli acrobati accovacciati tra le corde della strafottenza che ci accomunava.
Non era superficialità la nostra, piuttosto la leggerezza ribelle che ci ha fatti crescere sovversivi nella provincia mediocre infangata dal vivere per apparire.

Guardando una fotografia
mi rendo conto che il tempo vola
e che la vita poi è una sola…
E mi ricordo chi voleva
al potere la fantasia…
erano giorni di grandi sogni… sai
erano vere anche le utopie.

Fermati al semaforo anche se è verde, così i clacson delle auto impazzite orchestreranno l’ennesimo concerto del fuje fuje.
Guarda, alla tua sinistra, la panchina di via Diaz dove ti venivo a cercare nelle serate di giugno stiracchiata su quella vespa bianca. I tramonti d’estate, che avevano spettinato la fine dell’anno scolastico, ci facevano galoppare sui nostri sogni, sul futuro difeso a denti stretti, niente ce lo avrebbe scippato, neanche la morte.

Ma non ricordo se chi c’era
aveva queste queste facce qui
non mi dire che è proprio così
non mi dire che son quelli lì!

E ora che del mio domani
non ho più la nostalgia…

Andiamo contromano, non c’è nessuno in quella piazza, ci siamo io, tu ed Elisabetta che cantiamo a squarciagola Stupendo di Vasco, proprio come in quella sera d’autunno in cui la gente ci guardò come se fossimo ammattiti.
Poi sulla via del ritorno, dal sedile anteriore della mia 127 ciondolante, mi sussurrasti: “Ti piace la mia amica?”. Fu allora, sull’onda dei miei vent’anni, che mi convinsi: tu sapevi leggermi dentro, perforavi il mio cuore come solo una ragazza sa fare con un caro amico.

E cosa conta “chi perdeva”
le regole sono così
è la vita ed è ora che cresci!
devi viverla così…

Rallenta pure, guarda gli alberi, le foglie morte, come hanno ridotto il paesaggio della nostra adolescenza.
Li vedi quei faccioni sui cartelloni giganti che elemosinano voti per le prossime elezioni amministrative? Sono figli e nipoti di coloro che svendettero il diritto alla vita e alla salute in cambio di potere, poltrone, incarichi, posti di lavoro. Gli spargimenti di veleno nella nostra terra oggi generano morte senza pietà.

Però ricordo chi voleva
un mondo meglio di così!
ancora tu che ci fai delle storie…(ma dai)…
cosa vuoi tu più di così…

Siamo arrivati. Cosa fai, scendi dall’auto? Non chiedermi di guidare, di tornare indietro da solo nella terra dei fuochi governata da assassini in giacca e cravatta, non ce la faccio, sei la mia vita, sei la mia famiglia.

Mi viene il vomito,
è più forte di me
non lo so
se sto qui
o se ritorno.

Aspetto qui. Non voltarti indietro, Maria Grazia. Che luce abbagliante, allora Dio esiste davvero.

Ciao Antonio, amico e dono della “strada” di periferia

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rosario_pipolo_blog_2Ci ho messo mezza vita per bollare la consapevolezza che la strada mi ha donato la maggior parte delle persone che hanno abitato la mia esistenza. Non ho detto un condominio, un appartamento, il terzo piano di un palazzo. Ho detto la strada, una strada di periferia, punto. L’infanzia ti dona gli amici, ma poi con il passare del tempo te li sottrae.
La strada no, li spinge tra le braccia della quotidianità e li lascia vivere lì, in un angolo, anche quando te ne vai, anche quando sei dall’altra parte del mondo, illudendoti che nei posti in cui sei cresciuto tutto resti immobile e la memoria sia protetta da una forzuta campana di vetro.

Quella con Antonio è stata un’amicizia fiorita per strada, lì alla periferia di Napoli, anche se con suo fratello minore c’eravamo conosciuti tra i banchi dell’asilo. Con il passare degli anni mi divertiva il fatto che io e Antonio avremmo potuto comunicare con i segnali di fumo, perché i nostri balconi erano dirimpettai in linea d’aria.

Il posto dove lo rincorrevo era un polveroso campetto di calcetto, soprannominato da noi ragazzini “campetto dell’Avis”, perché si trovava a pochi passi dall’associazione dei volontari donatori di sangue. Io con il pallone non c’entravo nulla, ero assolutamente imbranato e l’unica scusante era il destino da piccolo occhialuto “quattr’occhi”. Antonio era sempre garbato in occasione di quelle poche partitelle in cui mi tiravano dentro.
Quando anni dopo lo ritrovai con i fratelli a gestire un negozio di noleggio video – lì respiravo l’atmosfera del film indipendente Clerks – me ne uscii con questa battuta per cui mi attribuirono un futuro da pubblicitario: “Altro che Warner Bros, tutt’altro cinema con i Cerbone Bros”.

Antonio prese in sposa una mia adorata compagna delle scuole elementari ed io mi convinsi che “la strada” era capace di cucirti addosso una nuova famiglia, fatta da quelle stesse persone che costellavano la tua quotidianità e soltanto in apparenza erano delle comparse.
Le amicizie da strada,
come quelle tra me e Antonio, non hanno niente a che fare con queste odierne misurate tra i mi piace convulsi di Facebook o le logorroiche chat di WhatsApp. Erano tutt’altra storia, avevano il tanfo dell’asfalto, il rialzo di un lungo marciapiede, il recinto di una panchina dove ritrovarsi a chiacchierare e spingere i sogni di quelli della nostra generazione.

Il dolore e la rabbia ti assalgono quando ripensi all’ultima volta che lo hai incontrato, qualche anno fa, senza immaginare che quella sarebbe stata l’ultima. Nessuno ti avverte quando un’amicizia da strada finisce lassù, perché nessuno immagina quanto conti ancora davvero per te.

Adesso chi glielo dice ad Antonio che non ho mai smesso di volergli bene? Gli ho fatto un bel dispetto per questo doloroso scherzo, ho fregato una sua bella foto. La guardo e me lo ritrovo accanto in una notte milanese. Piango lacrime di marzo. Sono sempre io, l’amico di strada con i capelli brizzolati, occhialuto come allora.

Giornata Internazionale dei Diritti dell’Infanzia: basta allo sproloquio su Facebook!

Rosario PipoloPiù di cinquant’anni fa sui rotocalchi di mezzo mondo circolavano gli scatti degli inquilini della Casa Bianca con i propri pargoli. Questo di JFK è uno dei tanti. Chissà se oggi, nell’epoca del consumismo usa e getta dei social network, le stesse immagini cadrebbero nella trappola che fa dell’infanzia “la merce” dell’egocentrismo di mamma e papà.
Il 20 novembre si celebra la Giornata Internazionale dei Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Sarebbe “cosa buona e giusta” far pulizia nel marasma di Facebook e rottamare l’abuso di immagini e racconti che trasformano i nostri figli in piccoli super-eroi.

I primi a farsene promotori dovrebbero essere insegnanti ed educatori. Si sa però che è arduo intromettersi, perché la paternità e la maternità si alimentano di piccole soddisfazioni che vanno assolutamente condivise. Ai tempi del telefono SIP si chiamava la suocera e si raccontava che “il pupo aveva fatto il primo caccone”.
Ai tempi di Facebook si inizia dalla gravidanza con un racconto quotidiano. Poi arrivano le foto della nascita e gli status dei primi mesi di vita, finché scatta il campanello d’allarme: le immagini del bimbo seminudo e il primo bagnetto.

Ai tempi delle scuole elementari, in attesa che suonasse la campanella, origliavo discorsi raccapriccianti. “Il mio secondo è davvero un genio. Fa la cacca profumata”, proclamava il papà di un mio compagno di classe. E l’altra mamma, dallo sguardo invidioso, replicava: “La cacca deve puzzare, altrimenti che maschio è?”.
Oggi ai tempi dei social network, i pupi si ritrovano in prima elementare un bell’account di Facebook tutto per loro, con gli elogi di mamma e papà, che li vogliono tutti bravi “cantanti, ballerini, musicisti, calciatori” e la promessa di spedirli presto dalla regina del talent show Maria De Filippi, che farà di loro una vedette.

Il primo passo potremmo farlo proprio in occasione della Giornata Internazionale dei Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza: spegnere tutto questo e mandare in corto circuito la giostrina virtuale. Potremmo rincasare prima, goderci in privato il sorriso dei nostri cuccioli. Non sono “supereroi” perché sono bravi in questo o in quello, ma semplicemente perché sono la meravigliosa espressione della generosità della vita nei nostri confronti.

L’uovo di Pasqua: “Sono piccola. Come farò adesso senza papà mio?”

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà guardarti diritta nei tuoi occhi azzurri e far finta di niente. È invece è successo prima che i tuoi sei anni bussassero alla porta dell’età adulta.
Solo gli sciocchi dicono che era già tutto previsto. Non era previsto un bel niente ed è legittimo il tuo sussurro di disperazione: “Io non sono grande, sono piccola. Come farò adesso senza papà mio?”

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà non versare lacrime di rabbia perchè questa volta la risposta bella e fatta non ce l’ha nessuno, né gli strizzacervelli di turno, né i predicatori o i preti. Si diradano le mistificazioni di chi vive nella gabbia di un luogo comune. La morte è roba seria.

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà far finta di esser forte per te, perchè da grandi dicono ch e la rabbia, mescolata al dolore, dovrebbe evaporare. È una bugia. Mi prende ogni volta che finisce tra le mani un pezzetto di carta, su cui ti sei esercitata a scrivere, evitando le solite zampe di gallina da prima elementare, “Sei forte, papà”.
Solo gli sciocchi dicono che era già tutto previsto. Era prevedibile il ritorno degli ipocriti, i cacasotto che un dì se la sono data a gambe. Adesso se la fanno addosso dai rimorsi e vorrebbero portarti a fare una scampagnata al parco. Le loro coscienze valgono quanto le pozzanghere, in cui ogni volta caschi tuffandoti dall’altalena.

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà far finta che il cioccolato dell’uovo di Pasqua sia dolce e farti le fusa mentre ti insozzi il musetto. Mi perderò nei tuoi occhietti azzurri e mi ricorderò di quando all’età tua mi rassicurarono: La luce sarebbe tornata dalle ferite dell’ultimo “Cristo finito in croce”.

Per questa Pasqua, nonostante sia un deplorevole mendicante di parole, vorrei pregare a modo mio, affinché l’ultimo Cristo finito in croce lasci tornare il tuo papà per un istante soltanto. Quello in cui, da grande, vestita di bianco, ti avvierai all’altare come una bellissima principessa scalza e raggiungerei l’uomo della tua vita.
Ti accompagnerà chi ha sostenuto, fino all’ultimo respiro, la convinzione che solo l’amore tra un uomo e una donna diano significato alla nostra esistenza. Lo riconoscerai perchè sarà uguale all’ultima volta che ti ha fatto toccare il cielo con un dito: tuo padre.

Sei proprio un Taricone! Chi glielo dice a Sophie che papà non c’è più?

 

Diario di viaggio: Primavera sull’A1 su e giù per l’Italia…

Io e Antonio non ci vedevamo da anni. Ci siamo ritrovati nella stessa auto per attraversare l’Italia dal basso all’alto. Io ero un ragazzino, ma lui già era adolescente e mi ricordo di quando si beccava le ramanzine dai genitori perché studiava poco per correre a giocare a pallone. Dovrebbero sentirlo parlare oggi, papà Gennaro e mamma Clara sarebbero così fieri di lui per come è diventato.
Siamo sull’A1 all’altezza di Caianiello, è quasi l’alba, Antonio va alla guida spedito e mi racconta con orgoglio dei figli, di quanto sia importante il ruolo della famiglia, degli spostamenti per lavoro, di quei pezzi della vita che mi sono perso. Siamo all’altezza di Roma e il condominio Stella Maris, dove abbiamo vissuto, diventa un dolcissimo avanzo della nostra memoria: la ragazza dai capelli lunghi della scala A, la signora del secondo piano, la ciurma dei bambini del quinto piano, l’amministratore baffuto, il nostro vocio nel cortile del palazzo, le litigate dei più grandi e la magia che noi più piccoli creavamo quando rincorrevamo il cielo, quello che ci sovrastava alla fine degli anni Settanta.
Siamo all’altezza di Firenze Sud, c’è traffico e restiamo in silenzio sulle note di una canzone. E’ lì che lascio ad Antonio la mia confessione: la scomparsa prematura della mamma, a cui ero legato particolarmente, ha marcato il passaggio dalla mia infanzia all’adolescenza, perché allora pensavo che gli angeli prima di diventare tali dovessero invecchiare. Siamo all’altezza di Bologna e ci sembra che l’energia della memoria ci abbia fatto ritrovare il significato dei legami, e la certezza che quelli che nascono nella prima parte della vita non si dileguino mai.
Arriviamo ad un Autogrill a Parma. Cambio auto, sono in ritardo, mi aspettano per un’intervista. Io e Antonio ci salutiamo con un caloroso abbraccio, ma appena lui va via avverto la stessa sensazione di quando lascio il mio Sud: quell’indolenzimento che provavo da bambino appena sua mamma mi faceva la puntura. Questa volta però non ci sono le carezze della signora Clara a tranquillizzarmi e neanche una telefonata per sapere come sia andato il viaggio.
E’ Primavera, e me lo ricorda stranamente Milano appena arrivo nel tardo pomeriggio. La partenza di qualche giorno fa è tornata ad essere arrivo. Eppure una milanese atipica cancella quel piccolo livido con un messaggio casuale: “Tutto bene il viaggio?”. Qualcuno è tornato a preoccuparsi di me e quel gesto è stato uno scossone, un pizzicotto che mi ha finalmente risvegliato, forse grazie ad un’Alice, che ha percepito la stanchezza di questo mio viaggio, lei l’unica sopravvissuta “nel paese delle meraviglie”.

Zanzibar, anche i conigli vanno in Paradiso!

Nove anni fa mio padre si prese una bella fregatura: gli dissero che quel leporide era nano, invece lui è cresciuto a dimensione normale. Mia sorella sognava un cane e papà  le portò un coniglio. Io gli diedi soltanto il nome, Zanzibar, perché ai tempi volevo fuggire lontano, lì in quell’arcipelago dell’Oceano Indiano. Pure mia madre, che non voleva avere animaletti tra i piedi, si rassegnò e si affezionò a lui. La sua padroncina andò via di casa qualche anno dopo e quel batuffolo con gli occhi azzurri restò a casa nostra. Una bella consolazione per i miei. Avevano perso in un colpo due figli – c’eravamo appena trasferiti a Milano- ma in compenso avevano qualcuno da allevare. Lo ammetto, io sono colui che non si concede facilmente agli animali, ma quel dì che portai Zanzibar dal veterinario per il controllo annuale, mi convinsi di una cosa. I conigli non sono stupidi e sciocchi e possono essere addomesticati. Tutte le volte che tornavo a casa dopo mesi di assenza, Zanzibar era lì che mi aspettava, mi osservava, mentre io lo rimproveravo: “Lasciami perdere, con me non attacchi”. Nel suo atteggiamento di fedeltà, assomigliava più ad un cane che a un leporide. Per un destino beffardo, ho trascorso con lui l’ultima notte senza saperlo. La mattina mi sono svegliato all’alba per ripartire, senza accorgermi che quel coniglio non era più chiassoso perchè era malato. Zanzibar aveva un sogno: assomigliare ad un cagnolino per rendere felice mia sorella. C’è riuscito, ma con la sua fierezza ha abbattuto il clichè del “coniglio fifone”, evitando quella dolorosa puntura che mette fine a tutto. E’ andato da solo incontro al suo destino, quello che spetta ad ogni essere umano.Gli animali non hanno un’anima? Zanzibar mi ha insegnato il contrario, adesso che girando per Milano, lo sento che mi sta dietro passo dopo passo. Nei suoi nove anni di vita c’è qualcosa di ciò che sono stato. Perciò avrei dovuto dargli più carezze, per traghettare il prima possibile la mia anima dalle delusioni dell’età adulta alla beatitudine dell’infanzia.

Ciao Niny, mamma del coro che diede voce all’infanzia

Avrebbe meritato più spazio nel nostro calderone mediatico, ma Niny Camolli è stata una milanese semplice e modesta, come era l’Italia a cui apparteneva. Pochi se ne sono accorti, ma  Il coro dei piccoli cantori di Milano è rimasto orfano della madre putativa, la prima musicista donna della Rai in bianco e nero, quando ancora in tv si discrimanavano “donne” e “omosessuali”.  Fu lei ad aver avuto cinquanta anni fa l’intuizione geniale del primo Festival di canzoni per bambini, che poi Bologna avrebbe strappato a Milano ribattezandolo Lo Zecchino d’Oro. Negli ultimi anni era diventata una pacata signora ultranovantenne afflitta dalla cecità, che però riconosceva ancora la voce di chiunque avesse fatto parte del suo amato coro. Sabato mattina, nella Basilica di Sant’Ambrogio, i Piccoli cantori di Milano la hanno salutata con una toccante Ave Maria.  Niny Camolli ci solletica un riflessione per rievocare il tempo in cui il rapporto tra musica e infanzia era lontano dagli scempi televisivi di oggi. La sua direzione musicale severa e appassionata, non solo ha contribuito alla creazione di sigle memorabili nel passaggio dalla tv pubblica a quella commerciale (Portobello e Bim Bum Bam), ma a prolungare l’anima sonora meneghina quando la canzone per bambini aveva raggiunto l’omologazione sotto il regime delle vocalità monotone di Cristina D’Avena.  I bambini di ieri sono gli adulti oggi, che devono una briciola di infanzia spensierata a mamma Niny!

Peter Pan, lascia fuori i nostri bambini dalla tv!

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Rosario PipoloNel calderone della tv generalista, affollata di veline e volgarità ad oltranza,  ecco che spuntano i bambini per evitare che lo share finisca ai minimi storici. Negli anni ottanta c’era Sandra Milo e i suoi Piccoli Fan e l’altro ieri Antonella Clerici con Ti lascio una canzone. Del resto la bella Antonella deve proprio al successo di quel programma la promozione all’ambita conduzione del prossimo Festival di Sanremo! I bambini in televisione funzionano ancora: inteneriscono, commomuovo il Belpaese con la loro ingenuità, e fanno ritornare in auge l’orgoglio di genitore e lo slogan pronto per la vicina di casa: “Hai visto ieri mia figlia in tv? Brava, anzi bravissima”. Ed ora anche Paolo Bonolis insegue la moda con la nuova edizione di Chi ha incastrato Peter Pan?. Non riesco a capire dove abita la controtendenza televisiva, se nel taschino di chi professa la tv del futuro e cade nelle trappole del vecchio tubo catodico . Non mi sento prevenuto a lanciare segnali di allarme e lo testimonia la recente dichiarazione al quotidiano La Stampa  dello scrittore Daniel Pennac: ” I bimbi di oggi sono clienti di una società consumistica perché la società li strumentalizza come clienti”. Nei primi anni ’80 ho partecipato ad una trasmissione per bambini su una rete televisiva campana. I miei genitori hanno accompagnato il mio stato emotivo, mettendomi subito in guardia dai “Peter Pan falsari” di allora. Sapevo che non sarebbe cambiato niente nella mia vita e non sarebbe stata di certo “una telecamera” a fare la differenza.  

Agata, la bimba con le trecce e un piccolo batticuore

agata150Charlie Brown aveva nel mondo magico delle sue strisce “la ragazzina dai capelli rossi”, che gli fece perdere da subito la testa. Io ho recuperato dalle sequenze dell’infanzia il mio primo batticuore. Era un pomeriggio estivo del 1976. Mio padre si fece aiutare da un collega per montare la porta blindata all’ingresso di casa. Quest’ultimo si fece accompagnare dalla figlia, una deliziosa bimba con le trecce che prese la mia palla rossa e iniziò a farla rimbalzare contro il muro. Neanche mia mamma si accorse di quanto la guardassi incantato. Agata era assorta nei suoi movimenti, mentre a me piacevano le sue lunghe trecce. Ogni tanto si voltava e mi sorrideva, invitandomi a palleggiare. A me aumentava il battito cardiaco in panne per la prima “cottarella” (i pediatri sostengono sia improbabile all’età di tre anni!) e per non fare figuracce restavo lì imbambolato (lei aveva un paio d’anni più di me). Rimase da noi tutto il pomeriggio e fece merenda con me. Poi arrivò l’ora di andar via e si dissolse come un tramonto. Lasciai la palla immobile in un angolo della casa, sperando che lei ritornasse il giorno dopo, o l’altro ancora. Niente, Agata non si fece più viva. Sperai che qualcuno sfondasse quella “maledetta porta blindata”,  con la sperenza che tornasse col papà. Così come ha fatto Charlie Brown con la sua ragazza dai capelli rossi, io l’ho cercata invano e, col passar del tempo, Agata è diventata un ricordo vaporoso come un dolce fiocco di zucchero filato. La settimana scorsa ho ricevuto una telefonata inaspettata con la complicità dei miei. Era Agata, incredibile! Adesso non ha più le trecce, è cresciuta anche lei e dopo tutto non abitiamo poi così lontano. Al di là di quello che pensino gli altri, il ricordo di quella “bimba dalle lunghe trecce” mi ha fatto riafferrare l’intensità dei legami creati nell’infanzia, anche se poi durano pochi istanti. Agata è riapparsa come una dolce sorpresa da un uovo di Pasqua ed è perciò che voglio condividere con lei qualche briciola pasquale, in questi tristi giorni dopo il terremoto in Abruzzo.  Sì, proprio con Agata, che forse crescendo si è tagliata su misura un manto di speranza come succede nel film Agata e la tampesta di Silvio Soldini. Ed io? Io preso da una nostalgia canaglia ho lasciato volare quel ricordo come un aquilone, con l’augurio che arrivi sul davanzale della finestra di Agata.