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Ancora tagli di posti di lavoro. Alitalia insegue la Fiat?

Continuiamo pure a far finta di niente, nascondendo la testa sotto il cuscino. Dopo esserci caricati di altre tasse per evitare il collasso di Alitalia, adesso veniamo a sapere per via traverse che la compagnia di bandiera mette a rischio altri 2 mila posti di lavoro. Se facciamo un rapido calcolo su come il mercato del lavoro sia finito sul precipizio nel Belpaese “spaccone”, i conti non tornano. E cioè quelli di chi urla che la recessione si passeggera, mentre, tra licenziamenti e casse integrazioni, potremmo fondare una vera e propria “disoccu-poli”. E di lavoro ce ne sarebbe a bizzeffe per i sindacati se facessero serie riflessioni, mentre i nostri politici sono impegnati a reclutare gli ultimi soldatini per far andare avanti l’armata Brancaleone.
Confindustria si tappa il naso e chi sente odore d bruciato è Sergio Marchionne, che ormai con la sua “sottoveste” politica detta le linee guida agli industriali italiani. Che in ballo ci siano le sorti di migliaia di famiglie dietro il tira e molla degli stabilimenti Fiat di Melfi e Pomigliano d’Arco, poco importa a chi un lavoro ce l’ha e si dondola sull’amaca tutta tricolore del “tirare a campare”.
Marchionne sa pure che il bello o il cattivo tempo – dipende dai punti di vista – dell’assistenzialismo statale a favore della Fabbrica Italiana Auto Torino fa parte dei capricci meteo del Belpaese di ieri. Così nelle giornate uggiose della globalizzazione, scrivere il nuovo Vangelo del Lavoratore non spetta più né ai sindacati né ai lavoratori stessi, bensì al numero uno di un brand (o di una macchina arruginita para-statale?) che con il suo diktat vuole stabilire quale sia il confine tra antichità e modernità. L’errore più grande è quello di accettare in silenzio una “Fiatizzazione” di tutte le industrie italiane, così come due secoli fa il processo di “Piemontizzazione” ci illuse di poter fare un’Italia, giovane e pure bella. Mentre Alitalia pensa che le soluzioni di un malessere sociale siano a Torino,  non sarebbe surreale se i migliaia di disoccupati in Italia si mettessero in coda ai precari della scuola e decidessero di cambiare mestiere. Tra otto anni il ministro Gelmini un posto in cattedra ce lo ha assicurato. Basta solo capire come impiegare il tempo fino ad allora!

Mondiale 2010, la disfatta dell’Italia dentro e fuori dal campo

Questo è iniziato come un Mondiale strabico oserei dire: l’uscita della Francia di Domenech, l’instabilità dell’Inghilterra di Capello, gli sgambetti alla Germania battuta dalla Serbia e, infine, la disfatta dei Campioni del Mondo del 2006. Quei Campioni eravamo noi e l’uscita della Nazionale italiana da Sudafrica 2010 ci fa pensare. I bocconi amari li abbiamo già ingoiati nel fine settimana, prima dei titoli apocalittici della stampa italiana e internazionale.
Marcello Lippi ha abusato della sua testardaggine, ha fatto il despota, si è concentrato su calciatori provenienti dalla stessa famiglia calcistica, ha messo in panchina il tatto “tattico”, ha fatto il sentimentale quando occorreva essere arroganti in campo, ha messo in atto il malumore in una squadra che non ha portato a casa una vittoria. Non è mai successo e una figuraccia così l’Italia non la faceva dal 1974.
Il calcio italiano si interroga e mette in discussione la macchina potente che la tiene in piedi. I soldi e il potere corrono dietro ad un pallone in un business che rispecchia il malessere dell’intero Paese, nel braccio di ferro tra l’abusivismo della politica e l’autorevolezza delle istituzioni. E a far uscire fuori dai giochi gli Azzurri non sono state le gufate dei “secessionisti” o di chi vorrebbe che il Belpaese mischiasse le carte in tavola tra il patimento dei sudisti e l’aggressività dei nordisti. E’ lo stato confusionario che ci accerchia da troppo tempo, è l’assenteismo cronico di punti di riferimento, è l’ombra del tiranno che manovra le nostre coscienze, perché la partita si gioca tutta qui: dentro un campo c’è lo sport, fuori dal campo c’è la metafora della vita e la sua perdita di credibilità.
Io non mi sento italiano – così cantava Giorgio Gaber – per lo strapotere dei calciatori, ma perché la mia generazione non riesce a trovare la traiettoria giusta per segnare almeno un gol, che ci fascia uscire da questo inferno che arde sotto i nostri piedi. La palla tornerà al centro prima o poi, ma a calciarla chi ci sarà?

Tania, l’insegnante con i sogni lasciati al vento

Il Presidente Giorgio Napolitano ha firmato la nuova manovra finanziaria del governo, ricordando a tutti gli italiani che è il momento di “fare sacrifici”. Cosa abbiamo fatto fino a questo momento? Il commento che Tania ha lasciato al mio post sulla nuova Finanziaria 2011-2012 mi ha colpito e mi sono detto: per una volta voglio bloggare con le parole di una lettrice. Ho conosciuto Tania su un autobus che ci portava a scuola alla fine degli anni Ottanta. Poi ci siamo persi di vista e il web ci ha fatto ritrovare. Quella di Tania non è una lamentela, è un’amara presa di coscienza che si rifugia in quella che appare come la pagina da strappare di un vecchio diario di scuola. Questa pagina va conservata alla luce dei fatti di questi giorni:

“In questi giorni avverto una strana sensazione di impotenza dinanzi a cotanta indifferenza, a scuola tutti proseguono per la loro strada come se nulla accadesse, qualcuno sibila un piccolo e rassegnato “mamma mia”. Personalmente ho una rabbia tremenda, è stato già difficile accettare che nonostante la fatica, l’impegno, non ho potuto fare il tanto ambito scatto sociale: io figlia di un autista dell’Atan con madre casalinga e proveniente da una cittadina di periferia non ho mai sognato di diventare ricca. Anzi ricordo le battaglie al liceo quando il prof mi replicava che l’insegnamento mi avrebbe relegato ad una vita di stenti. Io ostinatamente urlavo la mia voglia di dedicare l’esistenza alla conoscenza esplorata ma anche tramandata, speravo al contempo di non condurre una vita tanto sacrificata, mi dicevo tra me e me che comunque avrei avuto un lavoro,ambivo,forse ingenuamente, ad entrare nella così detta classe media, quella che poteva permettersi le vacanze, il cinema ed una pizza al sabato sera.
Oggi a 34 anni, sono insegnante, mio marito è capo stazione, ho due bimbi, un mutuo trentennale per un alloggio di 80 metri quadri. Non posso certamente andare al cinema neanche una volta al mese, abbiamo una piccola utilitaria e ringrazio già Dio perché posso pagare le attività sportive ai bimbi e fare un po’ di mare (in campeggio però!). Poi ad un tratto mi viene chiesto di fare ancora sacrifici. Mi chiedo: o sono l’unica sfigata di Italia che non ha rendite, che ha una famiglia d’origine amorevole, ma che può donarle solo aiuti morali – essendo anche loro solo pensionati a stento ci invitano a pranzo un paio di volte l’anno – oppure qui il Paese è in uno stato remissivo e non si rende conto che l’Italia sta andando alla deriva”.

Caro Presidente Napolitano, mi scuso per la sfacciataggine: ci pensa lei a rispondere a Tania? Io non ne ho né il coraggio né l’autorevolezza. Tania ha un sacrosanto diritto, quello di riprendersi i sogni lasciati al vento.

Italia amore mio, da Fastweb indietro tutta!

Mi sa che la canzone sanremese di Pupo ed Emanuele Filiberto porti sfiga. Altro che “Italia amore mio”, visto che galleggiamo nel pantano. E qui mi pare che siamo bel oltre la guerriglia professata tra magistratura e classe dirigente italiana. Lo scandalo che ha coinvolto Fastweb e Telecom Italia Sparkle, tra le frodi più colossali, è l’ennesima puntata di una fiction che va avanti da mesi, con punte di ascolto per i festini con le escort, i misteri dei trans, le accuse a Bertolaso e la prescrizione del caso Mills. L’ultima puntata dedicata al riciclaggio del denaro sporco (qualcuno mi dice cosa ne sarà degli utenti e dei dipendenti Fastweb?) sembra un “fuori onda” che mi lascia l’insolito sospetto: cosa c’è dietro l’angolo. La mia generazione – secondo l’osservatorio del popcorn movie di Gabriele Muccino aspetta ancora l’ultimo bacio tra separati e famiglie allargate – è stata schiaffeggiata ai tempi da Tangentopoli ed ecco che ci risiamo. Meglio non guardarsi allo specchio perchè oggi c’è un aggravante. E’ scomparso il senso del pudore perchè si nega anche di fronte all’evidenza. E da questo punto di vista il Belpaese soffre ancora del virus democristiano. L’ipocrisia ha inzozzato lo show business tra chi si è indignato per le dichiarazioni di Morgan e chi fa finta di niente dinanzi all’inciuco del televoto. Accendo la tv e cosa vedo? Pino Insegno che vuole  “insegnarmi a sognare” (che oltraggio Magalli che duetta col grande Rascel) o l’Isola dei Famosi che prova a distrami tra chiappe e figli di Rambo.  Canta che ti passa, mi suggeriscono.  Ci proviamo: “Sì stasera sono qui, per dire al mondo e a Dio, Italia amore mio. Io, io non mi stancherò, di dire al mondo e a Dio, Italia amore mio”. Non funziona, siamo fuori tempo, siamo stonati. Quei pochi solisti su cui potevamo contare si sono fatti fottere dalle manie di protagonismo e sono finiti nella mischia.

L’acqua è un diritto, no ai privati!

Ci hanno tolto uno dei pochi diritti in nostro possesso: l’acqua. Il decreto Ronchi è diventato legge e la gestione dell’acqua finisce tra le grinfie del processo di privatizzazione. Già è dura mandar giù il business spavaldo che, negli ultimi quindici anni, ha tolto l’acqua del rubinetto dalla maggior parte delle tavole degli italiani. In Italia, siamo pieni di acque minerali e continuiamo ad essere sedotti da quella “diavoleria” chiamata etichetta.  Finiti i tempi in cui riempivamo le bottiglie per strada – fatta qualche rara eccezione – al supermercato mi imbatto in discorsi da fantascienza sulla scelta dell’acqua in base alle proprie esigenze. Pagare una bottiglia d’acqua quasi quanto il vino è davvero vergognoso. E adesso ci tocca pure rinunciare alla gestione idrica “pubblica”. Per il gas ci hanno infinocchiati con la promessa di riduzione dei costi e miglioramento del servizio. Avete visto qualcosa di tutto questo? Insomma, appiccichiamo un’altra etichetta all’acqua che uscirà dalla nostra doccia o dal nostro lavandino! Dovremmo avere lo spudorato coraggio di mettere i sigilli alle nostre condutture idriche, non solo per “protesta”, ma per prendere coscienza di dove finiremo se andiamo avanti così!

Alitalia, finalmente la fine di una casta?

Il crollo di Alitalia, la compagnia di bandiera italiana, è l’ultimo atto dei residui della Prima Repubblica dell’Italia corrotta e sprecona. Questo tira e molla che va avanti da tempo continua a farci essere lo zimbello di mezza Europa. E il peso sulle tasche degli italiani? La situazione grottesca ha stuzzicato persino lo humor british della Ryan Air, che su alcuni aerei ha scritto a carattere cubitali: “Bye Bye, Alitalia”. Le low cost hanno messo fine al monopolio, rendendo i cieli europei alla portata di tutti. Nel 1998, per la mia tesi di laurea, sono stato costretto ad andare a Londra in autobus perché quella tratta aveva davvero prezzi da capogiro. Lo stato comoso di Alitalia mette fine alla casta dei piloti e degli assistenti di volo, abituati ad essere super pagati e a ricevere continui benefit, facendo rizzare i capelli ai colleghi europei. Li vedi arrivare in rogorosa divisa la mattina in aereoporto, a Fiumicino come a Malpensa, belli e lindi come Ken e Barbie. Hanno quella puzza sotto il naso e quello sguardo superbo tipico di pensa: “Chi cazzo se ne frega, chi mi toglie più dal trono”. Girovagando in rete si trovano una marea di dati allarmanti: tutto sommato un pilota vola per una media di “93 minuti al giorno” e pretende da Alitalia più di 108.000 euro all’anno. Per non parlare degli assistenti di volo che, con un buon grado di anzianità, possono azzuffare in busta paga fino a 87.000 euro. Mio padre ha lavorato con diginità all’Enel per 35 anni come caponucleo, rischiando ogni volta di scapezzarsi. Non metteva a repentaglio pure lui la vita quando si arrampicava con la squadra sui pali della luce? O il pericolo è solo di chi vola? Da ragazzino sognavo di essere figlio di un pilota per potermene andare a zonzo gratis in tutto il mondo. Oggi sono fiero che il mio papà abbia indossato “una tuta blu” , e non quella “divisa verde da casta” che nasconde sotto “merda e feccia”.