Ricordare John Fitzgerald Kennedy nel “mio viaggio” 50 anni dopo
Voglio ricordarlo così John Fitzgerald Kennedy con uno scatto ingiallito del ’92 che mi ritrae a Washington di fronte a quella fiamma che arde su pezzi di marmo gelido. Voglio ricordarlo attraverso un viaggio: da fresco diplomato, figlio di una casalinga ed un operaio, che sognò di diventare Forrest Gump per mettere piede alla Casa Bianca e stringere la mano al Presidente, ammazzato a Dallas il 22 novembre di 50 anni fa.
L’anziana signora, che portava al guinzaglio un barboncino bianco nel cimitero di Arlington, aveva stretto la mano a JFK. Me lo raccontò quel pomeriggio. Era rimasta affezionata al Presidente e, appena poteva, passava a fargli un salutino al camposanto.
Voglio ricordarlo così John Fitzgerald Kennedy, senza scomodare il mio archivio e tirare fuori alcuni ritagli di riviste che misi via una marea di anni fa. Nel 2005, durante i settemila chilometri di traversata in USA con un autobus, feci tappa a Dallas. Non fu casuale. Cercavo persone che avevano assistito al tragico corteo texano, volevo memorie, ricordi. Non trovai niente. Pochi rimasugli erano assiepati al Museo del Sesto Piano, sorto nell’edificio da dove JFK fu ammazzato.
Me ne tornai a mani vuote, ma con il peso in valigia delle contraddizioni che sobbarcano la coscienza degli Stati Uniti d’America. Il Presidente più mitizzato d’oltreoceano era stato partorito dal grembo delle lobby e del potere, per giunta cattolico, ma pur sempre un democratico. Finì come un martire, dando spunti a giornalisti, sceneggiatori e scrittori per sostenere la legittima teoria del complotto, che andava oltre il perimetro semplicione della Guerra Fredda.
I colpi che fecero fuori JFK, riflessi nel volto spaurito di Jackie nelle sequenza più celebre della tv in bianco e nero, spazzarono via l’idillio degli “Happy Days” degli anni ’50 e infilarono tanti bottoni nel tunnel della guerra del Vietnam, nel diktat dei petrolieri texani, nel ghigno del rivale di sempre Richard Nixon.
L’America canterina mise al tappeto l’America sognatrice nello stesso giorno in cui, per ironia della sorte, in Gran Bretagna usciva l’album musicale “With the Beatles”. La colonna sonora dei Kennediani doveva essere il fronte del palco che si spartivano Bob Dylan e Joan Baez. Fu invece la canzoncina sensuale Happy Birthday, Mr. President di Marilyn Monroe, che affrescò la Casa Bianca con le prime pennellate di impeachment, prima ancora che la volgare Monica Lewinsky venisse al mondo.
Dopo mezzo secolo ancora mistero, fiction, menzogne, complotti, rimorsi, rimpianti. Allora non c’era Wikileaks per beffeggiare la CIA o l’FBI. Ci restano un mucchio di foto ingiallite con in cima quella in cui John John saluta il feretro del papà Presidente. E pensare che c’era il figlio di un operaio e di una casalinga che voleva stringere la mano a JFK. Forse ero io.