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Lettera a una mamma operaia di Pistoia, che amava la vita e sognava il futuro

Cara Mamma, la nonna mi sta aiutando a cucire una stella di stoffa perché domenica è la festa della mamma. Te l’ho mai detto di quanto sono fiero mentre mi aspetti all’asilo perché non sei di turno in fabbrica? Ieri mi dicevano che avevo una mamma giovane e bella, oggi mi ripetono che sei diventata un angelo e non ti vedrò più, perché sei volata in cielo.

In televisione tutti parlano di una giovane operaia morta sul lavoro perché mangiata da una macchina. Nella foto al telegiornale sembri tu e continuano a ripetere che sei un’altra vittima delle morti bianche. Non comprendo le parole scritte dalla signora Natalia su un famoso giornale:

Una ragazza che come tante di voi si fotografava per TikTok, aveva i capelli lisci e lunghi e sorrideva al mondo; che era bella e non aveva foruncoli di cui vantarsi per lamentarsene coi follower, che non si offendeva se qualcuno le fischiava in strada, che quasi bambina, a 17 anni, aveva accettato chissà con quanto…


Mamma, lo dici tu alla signora Natalia che devo ancora crescere per capire che il mondo è fatto anche da (ex) femministe da salotto? Grazie per avermi accolto nella tua vita senza seguire il suo arrendevole “destino delle donne non è fare figli, ma vivere”.

Mamma, la settimana scorsa abbiamo visto insieme il concertone del Primo Maggio e tu mi hai spiegato che si dicono tante parole e si fa poco per proteggere le persone sul posto di lavoro.
Perché Fedez, il rapper che ascoltavamo insieme in macchina, prima di cantare non ha dedicato il tempo a disposizione ai tanti figli senza mamma e papà in Italia per questo motivo? Per fortuna ci ha pensato tutta la gente in piazza a Prato dedicandoti tanti striscioni e gridando forte basta, basta, basta!

Sì, basta, perché noi figli abbiamo il diritto di crescere con una madre al nostro fianco. Mamma, ora chi mi farà tornare tra le tue braccia? No, mamma, no. Non voglio perderti, ti voglio qui con me. Sono convinto che ritornerai a prendere la stella di stoffa che ti ho preparato per la festa della mamma.
Nel frattempo voglio crescere e studiare. Da grande voglio difendere tutti gli uomini e le donne come te e Sabri, troppo presto destinati ad essere angeli bianchi.

Mamma, che silenzio stasera a Pistoia. Sono sul davanzale della finestra e non mi bastano le dita per contare la distanza tra me e quella stella luminosa in cielo, bella come te.

Felice Festa della Mamma, il tuo ometto.

“Amore, non piangere perchè la mamma va a lavoro…”

I viaggi mattutini in metropolitana mi infastidiscono per la frenesia delle persone, prigioniere della routine tra spintoni e rincorse di quel tempo di cui non siamo padroni.
Stamattina, seduta accanto a me sulla linea rossa di Milano, c’era una donna che parlava a telefono. Ho capito dopo qualche battuta che il suo interlocutore era la figlioletta.

“Amore, non piangere perchè la mamma va a lavoro…”

Queste sono state le ultime parole di una conversazione andata avanti parecchi minuti senza una risoluzione.  Di sbieco mi sono soffermato sul viso sgomento di questa mamma che, dopo aver concluso la telefonata, è scoppiata in lacrime affondando nello sciarpone intorno al collo.
La gente distratta continuava a salire e scendere con indifferenza, mentre io mi sentivo impotente di fronte a questo urlo sibillino di immenso dolore.

Ho ripensato a quelli della mia generazione che avevano soltanto il papà da spartire con il lavoro. Mia mamma di professione ha fatto la casalinga e mi sono risparmiato la paura e l’angoscia infantile del distacco quotidiano, se non nelle ore dei tempi della scuola materna, in cui non si andava mai oltre l’ora di pranzo.

Non bisogna essere un sociologo per cucire i cambiamenti nella nostra società degli ultimi quarant’anni così come non occorre un pediatra o uno psicologo per rendersi conto del dolore e della frustrazione che scatta da entrambi le parte, figli e mamma.

Un lettore ha commentato così il mio tweet del buongiorno:

A proposito del giudizio mi è tornato in mente Platone:

“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre.”

Il viaggio in metropolitana di questa mattina è dedicato a tutte le mamme che ogni mattina combattono questa battaglia dentro e fuori il cuore.

Storia di un backstage “a prova di futuro”

Chi viene da lunghi anni di esperienze lavorative con le troupe video sa bene che, nonostante la grande illusione dell’avvento digitale, per fabbricare emozioni oltre uno schermo non basta una videocamera e qualche gioco di prestigio in fase di montaggio.

Negli anni di lavoro al Festival del Cinema di Venezia, quando il girato giaceva su metri e metri di nastro BETA, imparai sulla mia pelle che il backstage era il recinto in cui già il fertilizzante umano svelava l’orma del primo passo per raggiungere l’obiettivo comune. Erano le singole personalità che facevano il team, il fidarsi l’uno della professionalità dell’altro nel rispetto dei ruoli della troupe, l’alchimia di essere noi stessi per la buona riuscita di ciò che avremmo realizzato.

Se eri capace di far venire fuori te stesso durante il backstage, anche condividendo con gli altri i piccoli ritagli della tua quotidianità o del tuo privato, potevi tirare il meglio dal tuo interlocutore durante l’intervista. Chiunque sia il tuo commitente – una casa di produzione, un editore, un brand – non c’è migliore ricompensa della libertà creativa. E’ un atto di conquista da parte di chi la riceve e, al tempo stesso, un atto di fiducia da parte di chi la concede.

Le tecnologie si evolvono, ma la condivisione umana del backstage e dello shooting restano secondo me ancora un bel banco di prova per chi vuole farlo diventare un mestiere.

 

Inventare è mischiare cervello e materiali. Più cervello usi, meno materiali ti servono.
(C. F. Kettering)

Il mio legame con la Francia in dieci anni di lavoro in Europ Assistance

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Martin Vial, CEO del Gruppo Europ Assistance dal 2003 al 2014.

rosario_pipolo_blog_2La Francia mi appartiene da sempre, prima della nascita, fin dai tempi in cui parte della mia famiglia paterna si era trasferita nel Sud del Paese. Questo legame fu sigillato quando mi iscrissi a Lingue Straniere all’università e il francese fu il passe-partout per le porte d’oltralpe.
Furono viaggi continui, fughe che mi spinsero tra Tolone e Marsiglia, facendomi diventare parte di quella comunità; furono canzoni, quelle di Gainsbourg, Brassens, Dalida, Ferré, Brel, Piaf, Pagny; furono quintali di romanzi e chilometri di pellicole cinematografiche francesi tra Cannes e Venezia; furono chili di pain au chocolat a colazione e litri di Perrier; furono interviste a Charles Aznavour e Juliette Greco; furono scarpinate a Parigi e la mia prima volta nel ’96 da giornalista accreditato al Moulin Rouge; fu la mia penna che firmò un articolo sul quotidiano francese Le Corse-Matin.

Quando dieci anni fa Europ Assistance, la compagnia d’assistenza di Generali fondata da Pierre Desnos nel 1963, spalancò le sue porte al mio percorso professionale, mi sembrò una beffa del destino: la Francia tornava nella mia quotidianità.
In questo lungo tempo di attività tra le file della comunicazione digitale, c’è uno scatto inedito che oggi tiro fuori dal mio archivio e mi ritrae con il CEO del Gruppo Martin Vial, in carica dal 2003 al 2014. In vent’anni e passa di attività giornalistica le mie frequentazioni sono state personaggi dello spettacolo e della cultura e non di certo grandi manager della portata internazionale.

Ebbi modo di conoscere Vial in occasione di un viaggio a Parigi nella sede del Gruppo per il lancio  di NetGlobers, primo portale online sulla sicurezza in viaggio. Mi colpì l’attenzione data anche a “risorse invisibili” come me, che per ruolo e mansione restavano lontane da vetrine e riflettori, passando  del tutto inosservate.

Ritrovai allora la Francia luminare, quella della Quinta Repubblica guidata da François Mitterand, capace di cogliere nel talento di un manager umanista come Martin Vial l’equilibrio tra Pubblico e Privato, la congiuntura tra l’alta carica istituzionale e le sfide di un grande gruppo aziendale. La Care Revolution dell’ex numero uno delle Poste d’oltralpe ha rappresentato la visione lungimirante per trasformare il brand francese di Europ Assistance, inventore assoluto dell’assistenza, in patrimonio dell’umanità.

Questa è una polaroid che conserverò dopo dieci anni di lavoro in Europ Assistance. Al di là di quelle che saranno le mie scelte future, la Francia, in quel viaggio di ritorno da Parigi, mi restituì la piena consapevolezza che sul posto di lavoro non ci saranno intelligence artificiali o algidi algoritmi che rimpiazzeranno mai il valore di una risorsa umana. 

Cartolina d’estate: Gina Mastrangelo, capotreno Trenitalia medaglia al valore

Rosario PipoloUna domenica sera caotica sulla linea ferroviaria Ancona-Bologna a causa di un guasto tra Forlì e Bologna. I passeggeri temono che possa ripetersi il tracollo di una settimana prima: passeggeri in ostaggio in treno per tutta la notte a causa di un nubifragio a Firenze.

Questa volta i treni si limitano ad accumulare ritardi tra i 60 e 90 minuti, facendo perdere a tanti viaggiatori le ultime coincidenze per ritornare a casa. Sul Regionale Veloce 1734 in direzione Milano alla stazione di Bologna sale un capotreno occhialuto.
E’ una donna minuta, sulla trentina. A conti fatti a Milano Centrale arriveranno diversi passeggeri, tra cui anche un minorenne, condannati a trascorrere la notte in stazione: addio treni per attraversare la stessa Lombardia, raggiungere il Piemonte o il Veneto.

Gina Mastrangelo – è il nome del capotreno in questione-  va su e giù per i vagoni, telefonando in Centrale a Milano per risolvere la criticità. Trenord, la società costituita da Trenitalia e Ferrovie Nord che gestisce il trasporto ferroviario in Lombardia, rimbalza la patata bollente a Trenitalia. Due società che dividono l’Italia lungo il Po con una carta dei viaggiatori differente, duellando spesso e facendo a scaricabarile.
E’ passata da un pezzo la mezzanotte, la Mastrangelo tiene duro e con un rimbalzo telefonico che va da Bologna a Milano la spunta, fa la voce grossa, ottiene quattro taxi per far riportare i passaggeri a casa.

A Milano, sotto un diluvio universale, il capotreno bolognese si prende la briga di accompagnare ogni viaggiatore al tanto agognato tassì. Su una di quelle auto ci sono io, mi volto indietro, mentre lei scompare sotto la pioggia.
Mi piace raccontare quest’Italia, fatta anche dalle donne capotreno che di sera e di notte attraversano l’Italia, mettendo a repentaglio la vita su linee ferroviare, poco sicure in alcune tratte.

Siamo diventati così piagnucolosi da raccontare solo il peggio del Belpaese. Il meglio è invisibile all’isterismo collettivo, perchè spesso opera all’ombra. Stamattina a Milano Centrale, poco dopo le 7,  hanno sentito un fischio.
Era la Mastrangelo in divisa, impeccabile come sempre, orgoglio del trasporto ferroviario locale.  E forse su quel treno Regionale con destinazione Bologna qualcuno l’avrà riconosciuta, porgendole un fiore come per dire: “Grazie Gina, perchè la passione che ci metti ogni giorno su questo treno rende a piccole dosi l’Italia migliore”.

Tradimenti e la parabola del backyard

Rosario PipoloTradimenti, piccolo perla della drammaturgia di Harold Pinter, ha quasi quarant’anni ma non patisce l’invecchiamento, soprattutto oggi che la labilità di qualsiasi legame è messa alla prova. Il tradimento verso gli altri e verso noi stessi, di qualsiasi entità, dovrebbe essere spedito al patibolo, senza “se” e senza “ma”.

Sulle bacheche di Facebook in tanti starnazzano, perché delusi dal piccolo o grande tradimento subìto dalla compagna, dal collega di lavoro, dall’amico di una vita, dalla moglie, dal vicino di casa, dal fidanzato, dal parente. Potrei andare avanti ancora tanto.

Quelli più insidiosi restano i “tradimenti minuscoli”, quasi impercettibili, che minano una relazione molto più di quelli eclatanti e che fanno rumore. Sfogliando le pagine della drammaturgia religiosa, il rinnegamento dell’apostolo Pietro, passato in sordina, è più infido rispetto al tradimento di Giuda Iscariota e alla svendita di un amico per trenta miserabili denari.

Attraverso i social network ci disabituiamo a tutelare una relazione autentica: ci illudiamo che una manciata di “like” o un paio di repost di vecchie foto patinante di nostalgia aggiustino tutto. Incide l’arroganza e la spavalderia 3.0, che ha abbattuto la colonna portante di un legame: entrare a far parte della vita dell’altro è un privilegio da non sciupare e non è poi così scontato il reintegro.

Il backyard di una casetta inglese mi lasciò una lezione durante il primo viaggio in Inghilterra nel 1988: si chiuse la porticina della cucina e finii nel cortiletto posteriore senza riuscire più a rientrare. Pur facendo ancora parte dell’unità abitativa non avevo più accesso alle mura domestiche.

Questo episodio mi ispirò la parabola del backyard, ovvero la parabola dell’isolamento senza saldi, resoconto perfetto di cosa capita a chi viene allontanato improvvisamente dalla nostra vita, in silenzio, senza sollazzi chiassosi.

Tornando alla commedia di Harold Pinter, nel ’78 Tradimenti fu un feroce attacco contro l’ipocrita middle-class britannica. Oggi invece che la crisi globale ha sbiadito i contorni della classe media, la pièce teatrale è un punto di partenza per una riflessione generica sul tradimento, la molla che può far scattare in noi la legittima voglia di calpestare la mediocrità, lentamente e in silenzio, senza sconti.

Jobs Act, buonanotte articolo 18 e sogni d’oro Italia!

Rosario PipoloBuonanotte, Italia. Habemus il Jobs Act. Ci siamo allineati all’Europa. Siamo un paese moderno e con lo sguardo al futuro perché abbiamo reso il fardello dell’articolo 18 una vecchia foto in bianco e nero.
Buonanotte, Italia. Habemus il Jobs Act. Noi che siamo il Belpaese dei farabutti e degli eroi alla Schettino, noi che sappiano chiudere un occhio, anzi due fino alla cecità, se si tratta di tutelare caste o l’insidioso fancazzismo cronico, all’ombra di posti di lavoro fatti di poltrone e poltroncine assegnate.
Buonanotte, Italia. Habemus il Jobs Act e siamo costretti a traslocare sui manuali di storia per restituire una fisionomia all’articolo 18, alle lotte e ai rantoli sessantottini per tutelare un diritto che, in pasto a partiti e sindacati, con il passare dei decenni si è ridotto a strumentalizzazione politica. Il lavoro non è né di Sinistra né di Destra ma è un diritto di tutti.
Buonanotte, Italia. Habemus il Jobs Act perché da una parte si dà e dall’altra si riceve. E ci è toccato vedere certe sceneggiate in Senato, attuate da molti di quei politici cresciuti nello stagno dove le assunzioni facevano parte di un sistema clientelare, macchina del mammasantissima che macinava voti per il seggio elettorale.
Buonanotte, Italia. Habemus il Jobs Act e siamo destinati al Pronto Soccorso per pagare le ustioni lasciate sparse dai nullafacenti, infiltrati negli apparati pubblici, che hanno fatto del badge la carta di credito della bella vita da burocrate.
Buonanotte, Italia. Habemus il Jobs Act e ci tornano utili i versi di quella canzone di Enzo Jannacci che non smetteremo mai di cantare: “Quelli che votano scheda bianca per non sporcare, oh yeh; quelli che organizzano la marcia per la guerra, oh yeh; quelli che puttana miseria, oh yeh; quelli che l’ha detto il telegiornale, oh yeh; quelli che da tre anni fanno un lavoro d’equipe convinti d’essere stati assunti da un’altra ditta, oh yeh”.

Buonanotte, Italia. Habemus il Jobs Act. Sogni d’oro, oh Yeh!

Laura non c’è: Io e quella scrivania vuota in un maledetto lunedì

Rosario PipoloLa scrivania di fronte alla mia è vuota. Il pc è spento. Le penne, un pennarello e un taglierino sono al solito posto. E’ lunedì e l’umore non è dei migliori. Oggi dalla finestra entra con invadenza più luce, perché la sagoma seduta a quella scrivania non c’è. Faccio finta di nente. Aspetto. Sono le 10.30 e penso: “Forse stamattina entrerà in ritardo”. Riavvolgo un flashback. Il mio arrivo in quest’ufficio cinque anni fa e lei lì a spiegarmi, passo dopo passo, l’utilizzo di un nuovo CMS, quegli aggeggio senza cui non potremmo inserire contenuti in rete.

E’ mezzogiorno. Mi guardo intorno. La scrivania è ancora vuota. Ripenso alle piccole confidenze condivise, quelle private, che andavano oltre la corteccia dell’essere colleghi di lavoro, e ai nostri caratteri diametralmente opposti: lei riservata, di poche parole; io chiassoso e chiacchierone. E’ ora di pranzo. Mi invitano a mangiare ed io rispondo alla sua maniera: “Oggi, salto”.  Dopo quaranta minuti cambio idea e scendo giù a mangiare un boccone. In fila al self-service, mi vengono in mente le volte che mi aiutava a scegliere i piatti giusti per la dieta. Tutta fatica inutile. Il weekend successivo sarei finito in bici nelle cempagne piacentine e non avrei resistito alle ghiottonerie della cucina emiliana.

Sono le tre passate. Mi frego di proposito tutte le penne dalla sua scrivania con la speranza che lei, al ritorno da una riunione, se ne accorga ed esclami: “Vorrei sapere perché in questo ufficio le mie biro fiiniscono sempre su un’altra scrivania!”. Tutto tace invece. Ripenso a quando mi regalò per i 40 anni una guida turistica sul Po. Sosteneva che era atipico per un napoletano amare il fiume che accarezzava la sua Piacenza, il territorio dove spesso fuggo alla ricerca di vecchie memorie legate alla pittura naif di Ligabue e ai castelli musicali di Verdi.

Sono quasi le sei. La scrivania è ancora vuota. Tiro fuori l’iPod, lascio scivolare via “Born to Run” che lei adorava. La voce di Bruce Springsteen, avendo tolto gli auricolari, affoga nel silenzio.
Sorrido al pensiero dei guru delle università di business e dei loro sermoni per il bene di ogni grande azienda che si rispetti: sul posto di lavoro vince la competizione sfrenata, contano i numeri, niente sentimentalismi e umanisti o filosofi dietro le scrivanie.
Io piuttosto resto dall’altra parte della barricata. Preferisco il volo degli aquiloni, che sanno muoversi anche a bassa quota, senza perdere di vista i dettagli. E’ l’unica scorciatoia per avvistare il valore di un legame vissuto su un posto di lavoro, per tornare ad essere più umani e autentici, liberandoci da quella prigionia del business che ci vorrebbe tutti omologati.

Manca un quarto alle sette. La scrivania è vuota perché Laura ha semplicemente cambiato lavoro. Rimetto le penne al suo posto. Spengo il mio pc e la luce. Per il resto lascio fare a Guccini con una canzone: Laura e l’Emilia-Romagna restano un pezzetto della mia vita.

Quando su Linkedin e Twitter vogliamo passare per ciò che non siamo

Rosario Pipolo“Strateghi del digitale”, “social media manager”, “giornalisti enogastronomici”, “creativi”, “guru P.R.”, “fashion blogger” sono soltanto alcuni termini di cui abusiamo ogni santo giorno. Tutti siamo o abbiamo l’arroganza di sapere far tutto, soprattutto nel campo dell’intrattenimento e della comunicazione digitale. Insomma, mentre per fare il meccanico, l’idraulico o il fresatore occorre essere specializzati, basta mettere il naso tra Linkedin e Twitter per capire che l’illusione di massa può essere vista così: tutto sommato ci sono delle professioni che possiamo inventarci dall’oggi al domani e la sindrome del “tuttologo” imperversa. Prendi l’arte e mettila da parte? No, mi invento una posizione lavorativa extra-large.

E così l’impiegata strozzata dalla routine vorrebbe farsi passare per mente creativa; il bancario in prepensionamento, da “buona forchetta” che era a casa di mammà, (s)vende frustrazioni improvvisandosi giornalista enogastronomico; il piazzista del paese mette giù il megafono da “arrotino” e fa le digital P.R.; l’infermiera, dopo una vita nelle corsie degli ospedali, apre un bel blog e diventa stellina fashion tra i cosmetici che vendeva sottobanco per arrotondare lo stipendio.

Chissà quante risate si fanno quelli delle Risorse Umane sbirciando tra i profili e quanti mal di pancia diventano incurabili per le medie e grandi aziende quando scambiano piccole botteghe a gestione familiare per startup. Ah, ci fossero le vecchie botteghe di una volta, abitate dal mastro che conosceva il suo mestiere!

Finita l’epoca dei maxi bigliettini da visita, affollati di titoli e mansioni, comincia quella dell’about us nella giungla confusionaria dei social network. Le job title bizzarre durano il tempo di una stagione, perché a confermare la professionalità sono la storia e l’esperienza che ognuno di noi si ritrova alle spalle. A ciascuno il suo… mestiere!

Barzelletta all’italiana alla Fiat di Pomigliano d’Arco

L’Italia è un terreno fertile per aggiornare un barzellettiere. Ahimè, se fosse vivo Gino Bramieri ne inventerebbe una garbata da dedicare al braccio di ferro Fiat-Fiom nello stabilimento di Pomigliano D’Arco. Un altro colpo basso nella stagione grigia per la Fiat di Marchionne, che non può succhiare più finanziamenti statali: i 19 operai reintegrati da Fiom sul posto di lavoro sono compensati da Fiat con altri 19 licenziamenti. La Procura apre un’indagine e una nuova bufera si abbatte nella cittadina alla periferia di Napoli in pieno decadimento: invivibile, sporca, vittima di un piano di viabilità che la rende impraticabile, per non parlare delle strisce blu di cui è stata tappezzata ovunque.

La Pomigliano lustrata degli anni ’80 è roba di tempi andati e lo sa bene pure il sindaco della vecchia guardia socialista che strizza l’occhio alle scelte dell’imperatore Fiat. Morale della favola: Marchionne, teniamocelo buono. Meglio 19 famiglie in mezzo alla strada che rischiare di fermare una volta per tutte la produzione di Pomigliano d’Arco e seguire le sorti di Termini Imerese. Dall’altra parte della barricata, sul filone di una sceneggiutura alla Peppone e Don Camillo, c’è il parroco di frontiera don Peppino Gambardella che chiede “un equilibrio tra capitale economico ed umano”. Scusate, ma i preti non dovevano starsene buoni buoni a dare lezioncine di catechismo dagli altari? Voce fuori dal coro di una diocesi conservatrice come quella di Nola, il parroco della chiesa di San Felice non ne vuole sapere di farsi gli affari suoi e continua la battaglia al fianco delle famiglie degli operai di Pomigliano con questo slogan: “Il lavoro è un diritto di tutti. Quando manca, bisogna spartirlo in parti uguali. Questa si chiama solidarietà”.

Tornando al nostro barzellettiere. A chi spetterebbe di scivolare sulla buccia di banana per far scattare la risata convulsa come in ogni barzelletta che si rispetti? Non sempre accade che funzioni il meccanismo della risata. Questa volta si tratta solo dell’ennesimo ricatto da “riso amaro” e dei mutamenti tropicali del mercato del lavoro del Belpaese.

  Fiat di Pomigliano: Petizione Anti Fiom

  Procura in campo per 19 licenziamenti