Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

A ripetizione di teatro da Regina Bianchi, l’ultima grande Filumena Marturano

Rosario PipoloNel 1988 mi presentai in camerino a fine spettacolo. Avevo un piccolo registratore a cassette. Regina Bianchi mi rimproverò: “Guagliò, vai a giocare con quelli dell’età tua. Che ce fai a sentì ‘na vecchia comme me?”. L’attrice era della stessa generazione di mia nonna Lucia. Le dissi che non mi interessava quello che facevano i miei coetanei. A quindici anni volevo capire da lei di che materia fosse fatto il teatro.
Regina cominciò a struccarsi. Il mio sguardo incrociava il suo attraverso lo specchio di un teatro alla periferia di Napoli, mentre mi accennava all’incontro con il palcoscenico e all’esperienza con Eduardo. Alla fine di questa breve lezione, precisò: “Guagliò, il teatro è sacrificio costante e quotidiano. E’ come la vita. Finché non lo avvertirai sulla tua pelle, non capirai mai questo mestiere”.

Ogni stagione teatrale capitava che la incontrassi, puntualmente alla fine dello spettacolo. Mi ricordo una volta la sua assistente: “Signò, c’è quel ragazzino con gli occhiali. Ve lo ricordate?”. E lei, dopo avermi riconosciuto, ripeteva: “E tu ccà nata vota staje”. Regina Bianchi aveva capito che il mio “toc toc” alla porta del camerino assomigliava alla voglia di prendere ripetizioni di teatro. Si trasformò in un piccolo rito e una volta aggiunse: “Mi sento una nonna che racconta il teatro al nipote incuriosito”.

Per diversi anni la persi di vista. La incrociai a metà degli anni Novanta. Lei non lo riconobbe quel giovane giornalista, che fu annunciato per una breve intervista. Le chiesi della severità di Eduardo De Filippo e dell’aneddoto che circolava tra noi addetti ai lavori: pare che Eduardo l’avesse buttata fuori dalla compagnia perché, dopo una rappresentazione di Filumena Marturano, chiamata dal pubblico che la acclamava, avesse fatto un passo in avanti per prendersi gli applausi. Secondo il rigido protocollo, non avrebbe dovuto commettere questa gaffe perché sarebbe toccato al capocomico, Eduardo in questo caso, prenderla per mano e condurla verso il pubblico.

Regina Bianchi fu molto diplomatica e replicò: “Crede pure agli aneddoti?”. Cambiò discorso. Io per smorzare i toni, le rivelai chi fossi. Sorrise e si ricordò. Anzi, mi chiese anche di mia nonna Lucia,  perché una volta aveva apprezzato un suo maglione all’uncinetto che indossavo. Quando avvertì il mio dolore – l’avevo persa da pochi mesi – mi diede una lunga carezza. Mi guardò con lo stesso sguardo della sua Filumena Marturano, come a voler dire che “io la soddisfazione di piangere l’avevo potuta avere perché il bene lo avevo conosciuto”.
L’accompagnai all’auto, tenendola sottobraccio. Quella fu l’ultima volta che la vidi. Scomparve nel buio l’attrice Regina Bianchi, che con il suo stile recitativo sobrio e interiore aveva dato voce all’anima di Napoli,  e riapparve la sagoma di donna Regina D’Antigny. Adesso il sipario è calato, per sempre. Per me no, che ho avuto la fortuna di prendere qualche ripetizione di teatro da lei.

  E’ morta Regina Bianchi, grandissima del teatro napoletano.

Il Teatro Segreto di Ruggero Cappuccio: La lezione che segnò la mia vita

Tutto sommato il finale di partita di una fetta della mia vita non si giocò agli esami di maturità, ma l’anno dopo su un palcoscenico. Ad aprirmi la strada fu proprio il Teatro Segreto di Ruggero Cappuccio. Nel ’93 a Napoli molti si erano fermati sulla sponda drammaturgica di Moscato, Ruccello e Silvestri. Pochi di noi avemmo fortuna e attraversammo senza accorgercene il nuovo rinascimento drammaturgico, quello che diede le prime scintille con Delirio Marginale, premio IDI 1993. Attraverso la penna di Cappuccio ritrovammo storie e personaggi sepolti dalla volgarità del nostro tempo.
Dicevo la mia partita si giocò tutta lì, durante una prova generale, da allievo su quel palcoscenico. Ruggero Cappuccio si alzò dalla seggiola e fermò le prove. Salì sul palco, mi guardò diritto negli occhi e disse con tono severo: “Persino un controscena, senza una battuta, ha il suo valore. Basta un dito fuori posto e sarai condannato ad essere guitto per il resto della vita”. Attraversò il teatro con il sigaro fumante e scomparve nel buio.
Quella per me fu come una sberla, ma ne compresi il valore tempo dopo. C’era una sacrosanta verità, che trasformò me e i miei compagni di scena in uomini di teatro, destinati a dare un senso alle nostre esistenze fuori o oltre il sipario. Quel regista e drammaturgo, attraverso il suo Teatro Segreto, ci aveva difesi e protetti dal divismo amatoriale che dilaga ovunque oggi come allora, professato dalla maggior parte dei poveri illusi, destinati ad essere messaggeri di volgarità.
Quando ho visto in Shakespea Re di Napoli il corpo di Claudio Di Palma imprigionato in una cornice, mi sono convinto che la visione di un universo drammaturgico può essere localizzato ovunque – anche all’ombra del Vesuvio Shakespeare alita il suo spirito – così come l’impasto della scrittura si denuda in eternità sotto più sembianze. E la lava che travolge i protagonisti di Fuoco su Napoli, l’ultimo  e acclamato romanzo di Ruggero Cappuccio, mi riporta proprio nella landa della mia infanzia, i Campi Flegrei, dove ho vissuto la paura che il bradisismo capriccioso di Pozzuoli potesse spazzarci via prima di quanto credessimo e farci diventare personaggi dell’ultima tragedia sul Golfo di Napoli. Non è uno stonato gioco di parole: su quel palcoscenico molti scomparvero da personaggi, in pochi invece cominciammo ad esistere, perché Cappuccio ci svelò attraverso il teatro il primo segreto della vita. E quella lezione segnò la mia per sempre.