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Non occorre “il boss delle cerimonie” di Real Time per sentirsi Kate alle nozze

Eugenia Sposa

Rosario PipoloPer sentirsi come Kate Middleton nel giorno del proprio matrimonio non ci vogliono di certo i docu-reality, imbevuti di folclore napoletano, che propone Real Time. E non è necessario “il boss delle cerimonie”, alter ego del wedding planner in stile meridionale, portavoce del solito e volgare “facimme a chi mette ‘a copp”. Come se poi la grande abbuffata del banchetto nuziale, l’arrivo della sposa con carrozza e cavalli o il giro in elicottero circoscrivessero il significato di un matrimonio nel cerchio dell’essenziale.

Real Time dovrebbe racimolare le storie dei matrimoni delle nostre nonne napoletane, quando sposarsi non si riduceva ad una becera e volgare pagliacciata. Le nonne che si facevano cucire il vestito nel secondo dopoguerra, quelle che promettevano amore per l’eternità, che andavano a fare il viaggio di nozze nel raggio di pochi chilometri in groppa ad un asino o su un treno, quando andava di lusso. Ci sono ancora nonne disposte a svelare i loro pudici segreti e non per smania di protagonismo da reality, ma perché sanno che il dono della memoria è impagabile.

Per sentirsi come Kate Middleton nel giorno delle nozze non occorre neanche piegarsi ai ricatti del vivere per l’apparenza. Basta sentirsi come Eugenia, la sposa di questa immagine, avvolta nella semplicità del suo abito, che ha rateizzato l’attesa per il giorno più bello della sua vita nel significato del rito, sia esso religioso o civile. Il banchetto nuziale è passato in secondo piano rispetto all’atto della promessa, alla gioia di vivere ogni attimo assieme al suo sposo, nel sogno che, come in una fiaba, ha accompagnato il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.

“I reality sono tutti di gran moda in tv in questo momento, ma non si tratta di realtà: è solo un’altra forma estetica della fiction”, ha ribadito il regista Steven Soderbergh. Perciò è necessario toccare la realtà con mano propria. La sposa pensosa, colta in questo scatto di raccoglimento come in un fotogramma del cinema di Pupi Avati, sveste la volgarità del nostro tempo e la riveste con la memoria. Perciò Eugenia sarà ricordata come l’ultima Kate che ha inorgoglito le vecchie nonne napoletane, spose “finché morte non ci separi”.

Quando una sposa cerca una stella…

Su una spiaggia del Sud, un uomo era accovacciato in riva al mare. Aveva lo sguardo puntato all’orizzonte. Accanto a lui c’era una bimba dagli occhi chiari che faceva castelli di sabbia. Dal mare uscì una voce: “Cosa vorresti per la tua piccola quando crescerà?”.
L’uomo, alzando gli occhi, rispose: “Vorrei fosse felice per tutta la vita”. E la voce replicò: ” Scegli una stella. Veglierà sempre su di lei, quella sarà il tuo dono”. L’uomo sbirciò in cielo e ne scelse una che cascava a pelo sulla linea dell’orizzonte.

Molti anni dopo lo sposo prese per mano la sua sposa* e la portò in riva al mare, su una spiaggia del Sud. La sposa allargò le narici e respirò l’odore del mare. Accanto a lei c’era un piccolo castello di sabbia, ma non lo riconobbe. Incisa nella sabbia c’era una data e lei di chiese come avesse fatto quel castello a restare intatto per così tanto tempo. Dal mare udì una voce: “Questo castello di sabbia è il tuo, dentro vi erano custoditi i tuoi sogni e la luce di quella stella lo ha protetto”.
La luce della stella lasciò due orme di mani sulla sabbia. Erano le stesse mani che da bambina la facevano volare; le stesse mani che l’avevano allevata; le stesse mani che le avevano indicato la via del cuore. Fu allora che la sposa si ricordò e due lacrime scivolarono sulla sabbia. Germogliarono tanti fiori in riva al mare.

Da quel giorno si dice che ogni volta una sposa è sulla spiaggia a cercare una stella, è quella che le ha dedicato il suo papà per restarle accanto nei giorni speciali che la renderanno moglie e mamma. E da quel giorno le fiabe non cominciano più con “c’era una volta”, ma si chiudono come se fossero una smisurata preghiera: Amen.

* Dedicato a Paolo e Adele, sposi il 22 settembre 2012.

Dynamo Camp, l’alternativa intelligente all’inutile bomboniera!

Cartolina da Viareggio: Mi sposo con Groupon!

Il “matrimonio” scotta sempre, soprattutto in vista di un autunno davvero caldo per il Belpaese. Scotta in che senso? Nel senso che ci sono un mucchio di soldi da sborsare, anche perché la regola “basta un prete e una chiesa” è rimasta imprigionata nella pagine degli “Sposi Promessi” di Manzoni. Per quanto riguarda l’aspetto folcloristico, il nostro Sud ha molto da insegnare al resto del Belpaese – l’assillo del regalo in busta è legittimo in giorni di crisi nera – perché gira e rigira il terrore è quello: Chi glielo dice a mammà che facciamo fuori un bel numero di invitati o in alternativa dimezziamo le portate del pranzo o della blasonata cena?

Una coppia toscana non ha rinunciato al numero delle portate, ma rischiava di far saltare il banchetto nunziale perché “fare un mutuo” per arrivare all’altare non era proprio il caso. E così si sono presentati al ristorante L’Ocanda Milu, delizioso posto a pochi passi dal centro di Viareggio e hanno trovato la soluzione intelligente: mangiare bene e spendere una sciocchezza, grazie a Groupon. Il ristorante viareggino, il cui menù è anche per celiaci, ha occupato quasi tutta la sala per questo banchetto nuziale che costerà 17 euro a persona.

Scusate, ma al paese mio non bisogna spendere dieci volte tanto? Il trucco c’è o non si vede? Niente, trucchi. Si tratta di acquistare un bel mazzetto di coupon sul sito famoso di offerte giornaliere e accordarsi con il gestore per un pranzo composto da più antipasti, primo, secondo, contorno, frutta, dolce, acqua, vino. Mettiamoci pure una torta buona e dello spumantino. Tutto con semplicità e dignità. Certo non ci saranno addobbi mega galattici, ma basterà la presenza degli sposi a rendere speciale il resto.

Ai tempi dei nosti nonni, la Versilia sapeva indossare “la conottiera” quando la  bellezza si dondolava sulla semplicità , senza il timore di “essere per apparire”. E questa cartolina sa darci una lezioncina, nelle estati magre in cui ci servono i russi per far sopravvivere il litorale.

  Matrimonio alla napoletana: o la busta o non mi sposo!

Racconto d’estate: L’ultimo angelo in volo su Istanbul

La nave sbarcò con un quarto d’ora d’anticipo e la donna, puntando il dito sulle cupole che sovrastavano Istanbul, spiegò alla bimba: “Io e papà siamo venuti qui in viaggio di nozze l’ultima volta”. Non fecero neanche in tempo a farsi travolgere dai frastuoni di prima mattina, che un taxi le balzò a fianco. “Dove vi porto?”, urlò dal finestrino un turco sulla quarantina. La donna afferrò la bambina per mano e saltò nell’auto. Diede all’uomo un foglio di carta scarabocchiato con un itinerario, indicandogli di rispettare il percorso.
Mentre l’auto solcava Istanbul, la bimba aveva gli occhi sgranati: il fasto delle moschee, l’eleganza di Santa Sofia, le bancarelle del Gran Bazar che accostava a quel del mercato sotto casa sua, i bistrot sparsi a Beyoglu. Il tassista incrociò gli occhi della piccola attraverso lo specchietto retrovisore ed esclamò: “Sei uguale al professore napoletano!”. La donna saltò dal sediolino e replicò: “No ci credo. Kadir, ma sei proprio tu?”.

Era lo stesso tassista che alcuni anni prima l’aveva portata a scoprire la città turca assieme al suo sposo. E poi solo Kadir lo aveva battezzato “il professore”. Sosteneva che conoscesse Istanbul meglio di lui che c’era nato. La donna gli spiegò perché il marito non fosse con lei, perché si era ostinata a fare quel viaggio, il dolore che aveva avvolto la sua vita a causa di quella perdita. L’uomo raccontò di avere ancora da qualche parte il disegno che il professore napoletano gli aveva regalato: raffigurava un famoso attore napoletano, protagonista di un divertente film dal titolo “Un turco napoletano”.

Questa nube di aneddoti e ricordi fu spazzata via da un uomo che bloccò l’auto: “Mi scusi. Mi fa salire, vado di fretta?”. Kadir gli fece segno di no perché il taxi era già occupato. La donna intervenne: “Fallo salire pure, tanto ormai il nostro tempo a disposizione sta per terminare. La nave riparte alle quattro e mezzo in punto”. Lo sconosciuto restò in silenzio per tutto il tragitto. Aveva un cappello che gli copriva il capo. Con la coda dell’occhio notò che la bambina osservava le sue spalle, erano identiche a quelle su cui si arrampicava quando giocava con il papà.

Arrivarono al porto. Kadir scese dall’auto, abbracciò la donna e la piccola, donando loro un piccolo portafortuna. La donna e la figlioletta si recarono verso la nave. Il tassista si voltò verso l’uomo, chiedendo: “Dove la porto?”. E lui rispose: “Sono arrivato a destinazione”. L’uomo tirò fuori un disegno e lo mostrò al tassista: “Kadir, era questo il disegno di cui parlavi prima in auto? Che sbadato sei, lo avevi perso durante l’ultimo trasloco”. Il tassista con le lacrime agli occhi lo riconobbe ed esclamò: “Professore!”. E lui concluse: “Non tremare, Kadir. I morti non fanno paura, i vivi sì. Quando ero piccolo mio nonno mi disse che quando saremmo andati all’altro mondo, il Signore ci avrebbe concesso un ultimo viaggio qui. Prima del trapasso mi sono ricordato di questa diceria popolare, e ho scelto Istanbul per rivedere la donna che amo e mia figlia. Ho sperato fino alla fine che non annullasse il viaggio. Lei è una testarda, sapevo che sarebbe venuta perché era il mio ultimo desiderio”. Kadir, incantato a guardare il disegno, non si accorse che l’uomo scomparve nel nulla. Lo distolse il fischio della nave che stava salpando e un arcobaleno che avvolse tutta Istanbul, unendo la parte asiatica a quella europea. Dalla nave la bimba disse alla mamma: “Mamma, mamma, mamma. Guarda l’arcobaleno. Ha gli stessi colori che usava papà per dipingere i suoi quadri”.

Tutto questo accadde ad Istanbul l’ultimo mercoledì di giugno. E da quella volta si dice che chiunque voglia ritrovare un amore, debba girare in tassì, in questo giorno, attraverso la città turca.  Più che una leggenda, è una speranza. Quella fu l’ultima volta che qualcuno vide un angelo volare su Istanbul.

paul mccartney e nancy shevell: il terzo matrimonio non seppellisce il dolore

Nell’estate del 1991 mi presentai al Marylebone Register Office di Londra, e richiesi una copia del certificato di matrimonio di Paul McCartney e Linda Eastman. Gli addetti mi guardarono stupiti quando si accorsero che si trattava dell’ex-Beatles. La spuntai e quella bravata di un ragazzotto incuriosì qualche anno dopo Red Ronnie. Mi invitò ad una sua trasmissione e lo mostrai per la prima volta in pubblico.

Col passare del tempo mi sono reso conto di non aver vissuto il documento come un cimelio, ma come il sigillo di una gran bella storia d’amore. Persino quando ascoltavo i primi album da solista di McCartney respiravo l’affiatamento della coppia. La mia visione infantile della fiaba d’amore si era trasferita in una casa di campagna inglese, dove il marito e la moglie condividevano amore, famiglia, passione per la vita e per il proprio lavoro. Ne ebbi conferma quando li vidi assieme sul palco la prima volta il 24 ottobre del 1989.

E’ complicato capire il dolore per la vedovanza, per la perdita della compagna di una vita. Nonostante il muro di vetro mediatico, abbiamo percepito il disorientamento dell’ex Beatles dopo la scomparsa prematura di Linda. Tuttavia, si fatica a guardare lo scatto di Paul McCartney invecchiato dopo la celebrazione del  terzo matrimonio con la ricca ereditiera Nancy Shevell, nello stesso posto dove si unì alla prima e adorata moglie. La mia non è né la sindrome di possessività del passato né l’attacco di panico nostalgico che potrebbe tornare riascoltando dal vivo  My Love. McCartney dovrebbe ricantarla il prossimo 27 novembre nella tappa italiana del suo tour al Forum di Assago.

E’ piuttosto il tentativo spicciolo di capire quale sia l’ultima strada da percorrere per un comune mortale o una rock star nell’amaro tragitto della vedovanza: seppellire sotto terra il dolore o restare da soli per condividerlo con il resto dei proprio giorni?

 Macca sposa Nancy

  McCartney in Italia: due date a Novembre

 Paul e Linda, Just married!

 

Diario di viaggio: Nel sale, nel sole, nel Sud


Rosario PipoloVentiquattro anni fa, in una mattina autunnale, arrivai in un liceo di Pomigliano d’Arco, alla periferia di Napoli.  Provenivo da un’altra scuola e non conoscevo nessuno. Entrai a lezione iniziata. Trovai un posto libero in un banco in terzultima fila, accanto alla finestra. Era un’esercitazione di latino. Il mio compagno di banco provvisorio era occhialuto come me, questo mi consolava. Gli dissi sottovoce: “Dall’altra parte non me l’hanno spiegata questa regola”. Non se lo fece ripetere due volte, sotto voce me la illustrò in un batter baleno. Poi tornò alla sua esercitazione. Gli chiesi: “Come ti chiami? Io sono Rosario”. Lui, per non disturbar gli altri, prese un pezzo di carta e scrisse il suo nome: “Tiziano”.

Quel gesto non lo dimenticai e quel nome, segnato su un pezzetto di carta, me lo sono portato dietro in tutti questi anni, nei miei viaggi, nei miei spostamenti, che mi hanno dato una lezione: i legami con le persone si alimentano nei gesti della condivisione. E quell’atto di solidarietà mi apparve come un bel ritaglio del libro “Cuore”.
Come ha ribadito don Peppino Gambardella, il prete di frontiera che ha digiunato a fianco degli operai della Fiat di Pomigliano d’Arco, “il matrimonio unisce”. Ed io aggiungerei che i viaggi nel Sud hanno il pregio di farci ritrovare.
Al matrimonio di Tiziano e Lorena ho ritrovato la lealtá lasciata su un vecchio banco di scuola, ma anche il ricordo di una giovane professoressa di greco, che a suo tempo aveva nel pancione una bimba, i cui anni hanno scandito una parte importante della mia vita.

Al ritorno dalla cerimonia, in auto, al mio fianco, non c’era più quella bambina con gli occhi da monella che andavo a trovare puntualmente ogni anno, ma una persona adulta, dolce, semplice e sofisticata al tempo stesso. Quel giorno speciale, il matrimonio di Tiziano e Lorena, lo abbiamo condiviso con intensità, con l’entusiasmo che abbatte ogni frontiera per fare nostro l’unico desiderio: circondarsi di persone vere.

I matrimoni uniscono e i viaggi nel Sud ci restituiscono tutto, anche le indicazioni di un nonno che assomigliava al mio, sull’uscio di una porta. E quando mi sono perso nel buio della notte, tra quelle stradine che spalleggiavano il monte Somma, ho trovato in tasca tutto stropicciato il pezzetto di carta che Tiziano mi aveva dato ventiquattro anni prima.  Non c’era più soltanto il suo nome, ma anche quello delle poche persone di cui non potrei mai fare a meno, perchè mi fanno tornare ad essere ciò che sono: nel sale, nel sole, nel Sud.

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Diario di viaggio: ‘A canzuncella

Sarà stato quel mezzo di litro di birra o la sposa scalza nello stesso locale a far parlare la bresciana: “E pensare che ero anche io ad un passo dall’altare. Poi è arrivato lui ed è andata come è andata”. Lui, il mantovano dal cuore terrone, sempre lì con la battuta a portata di mano, ammutolisce e improvvisamente diventa serio: “Sì, ma se proprio dobbiamo dirla tutta… Appena due persone si piacciono, cominciano inspiegabilmente a cercarsi  a vicenda. Guardandosi negli occhi, riscoprono il fondo dell’anima”. Lui aveva mollato la ragazza, lei il promesso sposo, lasciandosi alle spalle la paura di finire stemperati nella sceneggiatura di una delle tante commediole all’italiane del nostro cinema.
La bresciana ha un temperamento apparentemente algido; il mantovano ha quello spirito da giullare capace di mandare tutto in frantumi, comprese le ultime certezze della vita. “Una sera eravamo assieme ai nostri rispettivi partner in mezzo a tanta gente” – replica lei – “La complicità dei nostri sguardi raccontava tutt’altro. Era come se ci conoscessimo da sempre, come se in un’altra vita avessimo condiviso la storia d’amore più bella”. Temevo che tali parole fossero fantasticherie bizzarre dell’immaginazione,  invece no. L’ho capito appena Elisa e Matteo si sono presi per mano e sono scomparsi nel buio.
Io sono rimasto lì, in aperta campagna, ai confini tra la provincia di Brescia e quella di Mantova. Mi è balzato in mente un motivetto, quello che il mantovano le avrebbe dovuto cantare se questa storia avesse avuto un finale diverso. E mi sono ricordato di un sabato mattina a casa del mio caro amico, il maestro e figlio d’arte Antonio Annona, che mi chiese di tradurre in francese ‘A canzuncella degli Alunni del Sole. Antonio aveva un progetto, ma poi non se ne fece più niente. Quella traduzione è rimasta nel cassetto, ma io in piena notte, in una terra che non mi apparteneva, ho sussurrato al vento quelle parole: “Si ‘nnammurate ‘e me ma sienteme, nun ce pensa’, E torna ‘n’ata vota addu chillu llà”. Ero scalzo e, naufragando nel mio napoletano, sono tornato a sentire la terra sotto i miei piedi.

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Quanto ce ne frega del matrimonio di William e Kate?

Ho tirato fuori dall’armadio lo smoking. Forse lo riutilizzerò il prossimo 29 aprile per imbucarmi al matrimonio di William e Kate. Del resto, sono recidivo: la prima volta che ho messo piede nell’ Abbazia di Westminster mi sono infiltrato, perché, nella mia ottica sovversiva da adolescente, era impensabile pagare l’ingresso per una Chiesa. All’epoca, volevo rendere omaggio ad Elisabetta I, sovrana piena di contraddizioni, grazie a cui mi ero potuto cibare di testi teatrali pregnanti.
Tornando al Principe felice e alla consorte, a parte i souvenir kitch che affollano Londra così come il gossip ridicolo che invade il web, mi sono chiesto quanto ce ne importi davvero di questo matrimonio reale. Nel cuore delle nuove generazioni la monarchia anglossassone non rappresenta neanche più il ridicolo accessorio ingombrante, che continua a costare agli inglesi sudore e fatica. E non ci vuole mica un film di Ken Loach per svelare l’amara verità? Il fumo negli occhi delle nozze di William e Kate non cancellerà i problemi sociali ed economici che stanno divorando la Gran Bretagna, isola infelice dilaniata dai litigi da cortile dei Laburisti e Conservatori.
L’iconografia di Buckingham Palace è finita nell’ultimo gesto che ha decapitato per sempre gli intrighi di corte: la regina Elisabetta che china il capo al passaggio del feretro di Lady Diana Spencer, l’ultima principessa, l’ultima “Rosa d’Inghilterra” che aveva imbarazzato gli Anglicani per l’oltraggioso imparentamento con i Musulmani. Paradossalmente sarà proprio il fantasma di Diana a vagare sulle nozze più attese dell’anno, perché in tanti cercheranno di trovare nel matrimonio di William e Kate quello della principessa ribelle con l’ingessato erede al trono Carlo.
Quel 29 luglio del 1981 ero incollato anche io alla tv per seguire l’evento. Ero in vacanza a Paestum. Presi per mano Benedetta, la mia fidanzatina, le preposi una cerimonia improvvisata tra le cassette di bibite del deposito del nonno: Io ne avevo 8 e lei 5. Le posi sul capo uno scialle velato fregato a mia madre e usai come anello quello che apriva le lattine di Coca-Cola. Io e Benedetta fingemmo di essere Carlo e Diana e, appena la diretta televisiva terminò, sognammo che quella carrozza arrivasse da Londra a Paestum per portarci via. Non so se oggi il matrimonio di William e Kate ispirerebbe una coppia di bambini come è successo a noi. Non credo, perché dopo tutto i futuri reali sembrano una coppia di bambolotti destinati a finire sulle bancarelle dei giocattolai.
Nel caso non usassi lo smoking per le nozze londinesi, sapete cosa vi dico: mi rimetterò alla ricerca di Benedetta per dirle che trenta anni fa avevamo visto lungo. Del matrimonio del 29 aprile non ce ne frega niente, perché da allora i principi e le principesse vivono fuori dai palazzi.

Matrimonio alla napoletana: o la busta o non mi sposo!

Busta o non busta, questo è il problema. Mica quella dell’immondizia, ma la bustarella con i soldi che non può mancare ad ogni matrimonio napoletano che si rispetti. Tutti lo snobbano, ma poi tutti vogliono il regalo in cash. Con la crisi che c’è in giro, ritrovarsi tra gli invitati di un banchetto nunziale non è confortante per niente.
Una volta le indagini si facevano via telefono, adesso basta aggirarsi sulle bacheche dei social network per sondare gli umori e capire quanto bisogna sborsare per far felice i neo sposini. Tuttavia, il regalo in busta è anche l’ultima spiaggia per pagare il conto salato della cerimonia: chi famiglia napoletana rinuncerebbe mai all’evento sfarzoso? Nel 1971, un cugino di mia madre, organizzò il matrimonio facendo i conti sui regali in denaro degli invitati, senza calcolare il rischio di non raggiungere la somma necessaria. Nonna Lucia fu molto chiara con nonno Pasquale dopo il taglio della torta e gli bisbigliò: “Pasqua’ dobbiamo raddoppiare la somma per Enzuccio, altrimenti restiamo qui a lavare i piatti”.
Quarant’anni fa come oggi la ruota gira sempre allo stesso modo, con una differenza: nel nuovo millennio i matrimoni durano il tempo di una stagione. Insomma, gli sposi dovrebbero impegnarsi con gli invitati a restituire il premio in caso di divorzio o separazione entro i primi 36 mesi di vita coniugale. Per non parlare dei separati e divorziati che circolano in Italia, molti dei quali hanno la faccia tosta: si risposano per la seconda, terza e quarta volta e pretendono pure la bustarella! E poi non ha ragione zia Concettina a starnazzare: “Il mio dovere l’ho fatto al primo matrimonio. Mmo’ basta”.
Scampato il pericolo della lista nozze, le alternative sono due: riciclare un vecchio regalo inutile, trafugato da qualche altra ricorrenza oppure donare i soldi agli sposi in sei comode rate.
Povero papà mio, meno male che non legge i miei articoli, altrimenti creperebbe dalla vergogna. Casomai salirò all’altare, ho già la soluzione: matrimonio “sponsorizzato” da piccole aziende agroalimentari locali,  senza dover chiedere niente a nessuno, con la speranza di poter scrivere con una bomboletta spray: “…E vissero felici e contenti”. O quasi!

‘E figlie so’ figlie, ma io mi sono innamorato di tua mamma!

“’E figlie so’ figlie e so’ tutt’eguale!” è una sacrosanta verità così lapidaria che poteva uscire soltanto dalla bocca di una madre coraggio del secolo scorso. Parlo di Filumena Marturano, la prostituta nata nei vicoli di Napoli prima che sul palcoscenico di Eduardo De Filippo. Dopo aver nascosto per una vita i suoi tre figli al compagno Domenico Soriano, Filumena gli rivela che uno è suo. La scena di quest’uomo che cerca a tutti i costi di capire chi fosse, mi fa riflettere nei tempi in cui vanno di moda le famiglie allargate: coppie separate, figli sbattuti un po’ qui e un po’ lì, uomini e donne che si rifanno una vita assieme, mettendo in conto il figlio avuto da una storia precedente.
E qui vengo al punto: si può accettare senza remore un bambino che la tua compagna ha avuto da un altro? C’è chi vive con serenità questo status, ma c’è anche chi si crogiola sulla calma apparente, opponendo una latente resistenza pericolosa e dolorosa. Il personaggio edoardiano Domenico Soriano non li accetta “quelli non suoi” finché si sente chiamare spontaneamente in coro “Papà”. E come se all’improvviso il figlio della tua compagna, che fino al giorno prima ti chiamava per nome e ti trattava con distacco, usasse questa parola magica, pur con la consapevolezza che tu non sei e non potrai mai sostituirti al padre vero. In giro sento raramente: “Mi sono innamorato di una mamma”. Non di una separata, divorziata o peggio ancora di una donna sposata. Di una donna che per professione fa la mamma a tempo pieno.
I bambini ci guardano non è solo il titolo di un bel film in bianco e nero di Vittorio De Sica, ma la consapevolezza che da un bimbo puoi aspettarti la disarmante saggezza che non appartiene più all’età adulta: “Mamma, ho capito perché piangevi ieri sera quando mi hai messo a letto. Ti sei innamorata di un altro”. Chi vuole intraprendere questa strada complicata dovrebbe prima di tutto andare da quel bimbo e spiegargli con la dolcezza come stanno le cose:”Io e te non ci conosciamo, ma siamo legati perchè condividiamo l’amore per la stessa donna. Tu, da monello che sei, le chiedi tutti i santi giorni di sistemare i giocattoli che hai lasciato sparsi per casa; io, da disordinato che sono, mi sono innamorato di tua mamma  perchè lei con un bacio mi ha trasformato in un principe azzurro, quello protagonista delle fiabe che ti racconta”.