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Tag morte

Il funerale

Da bambino ero irrequieto, ma ho imparato la compostezza ad un funerale. Qualche volta mio padre mi portava con lui e rimaneva stupito di come diventassi serio per l’occorrenza. Restavo in silenzio ad osservare tutti, a decifrare il significato delle lacrime. Poi mi soffermavo su quella cassa di legno. Mi ero convinto che tutti gli alberi, abbattuti nei frutteti delle campagne della mia terra natia, avvolgessero con la loro legna i defunti.

Che bizzarra idea mi ero fatto. Crescendo ho avanzato una spiegazione alla mia teoria infantile. Se da quel legno gli alberi fossero rinati, avrebbero rivestito con un manto di foglie verdi l’involucro, che ingabbia l’umanità della morte.

Ieri mattina ero in un obitorio della Lombardia. Prima che arrivassero i parenti, mi sono trovato da solo con il defunto. Non ho osato aprire la porta, perché non l’ho mai conosciuto di persona. Ero immobile al di là di una parete a chiedermi cosa ci accomunasse: essere figli del Sud Italia.
Da piccolo pensavo che, chi morisse fuori dalla terra-madre, ritornasse al suo paese, tra la sua gente. Non accade sempre così. Sottovoce ho chiesto al defunto se volesse andare via da qui, ma lui non ha risposto. I morti non parlano, o perlomeno così pensiamo.

Al termine delle esequie, ho avuto la risposta. Sulla bara ho visto spuntare un bonsai e mi è tornata in mente la mia teoria infantile, che ripetevo a mio padre: quando i nostri cari ci lasciano, dovremmo piantare un alberello nel luogo in cui viviamo, perchè loro non stanno mai nello stesso posto.

Scappando via, di corsa verso la stazione, ho incrociato un’anziana signora che rimproverava il figlioletto: “Giuseppe, non imbrattare il muro con la bomboletta spray”. Il bambino, dopo avermi sorriso, ha replicato con tono deciso: “Mamma, non l’ho mai svelato a nessuno. Da grande voglio disegnare alberi per non essere mai nello stesso posto. Quest’albero è per te, per le mie sorelle. Tenetemi con voi, per sempre”.

Quella volta con Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della mia gioventù

Il Presidente della mia infanzia fu il partigiano Sandro Pertini, quella della mia gioventù il costituzionalista Oscar Luigi Scalfaro. Mi conquistò con il primo discorso di fine anno, quello del 31 dicembre del 1992. L’Italia era smarrita sotto il tunnel di Tangentopoli, io attraversavo una svolta personale: da una parte il dolore indefinito per la perdita di mio nonno Pasquale, dall’altra la nuova corsa verso la realizzazione dei miei sogni, che oltrepassavano lo steccato del percorso universitario intrapreso.

Del presidente Scalfaro mi colpì la fiducia che ripose nei giovani in quell’invito deciso e convincente: “Non arrendetevi mai, per nessuna ragione al mondo”. Le sue parole bucarono lo schermo televisivo, mi entrarono dentro, decisi di portarmele appresso. Nonostante i suoi toni accesi a volte prendessero la forma colloquiale di un vecchio monarca, la compostezza e il paternalismo di Scalfaro assomigliavano alla premura che un nonno dovrebbe mantenere con costanza nei riguardi dei nipoti.

Un nonno non ce lo avevo più, ma mi restava un Presidente. Dieci anni fa, proprio in questo periodo, lo conobbi personalmente a Striano, un piccolo paese poco distante da Sarno. Lo avvicinai alla fine del suo intervento e gli sussurrai all’orecchio: “Non mi arrenderò mai, per nessuna ragione al mondo”. Lui mi sorrise e aggiunse: “Quando ti ritroverai senza punti di riferimento, recita gli articoli della costituzione italiana”.

Avevo un cappotto di loden quel giorno. Non era l’abbigliamento consono ad uno della mia età, ma indossarlo mi faceva sentire più vicino alle generazioni che mi avevano precedute. Quando sono partito per Milano, alcuni mesi dopo, ho indossato quel cappotto in mezzo alla nebbia, al gelo. Ogni volta qualcuno tentava di sparare contro i miei sogni, mi ronzavano nel cuore le parole di Oscar Luigi Scalfaro, il Presidente del “non ci sto”, il Presidente che se n’è andato in una fredda mattina di gennaio ed ha attraversato con me una parte della mia gioventù ribelle.

 E’ morto l’ex Presidente Oscar Luigi Scalfaro

 La morte di Scalfaro su Twitter

 Il discorso del non ci sto

Diario di viaggio: sotto l’albero di Tonino

L’ultima volta che entrai in quella camera da letto sarà stato una trentina d’anni fa. Sul comodino a sinistra del letto c’era una copia dell’Espresso, su quello a destra un foglio scarabocchiato. Io, Gabriele e Dino ci nascondemmo lì. Non volevamo farci trovare dai nostri genitori. Volevamo continuare a giocare. Era una domenica sera e di andare a scuola il giorno dopo non se ne parlava proprio.
Ci sono tornato dopo troppi anni. Lui era disteso lì, immobile e ho sperato che aprisse gli occhi e mi dicesse:” Lasciamo perdere la chimica, lo so che non te ne frega niente. Piuttosto andiamo in cucina e facciamo merenda. Pane e pomodori, cosa ne dici?”

Ho cercato di resistere, ma non ci sono riuscito. Lui era immobile in quel letto e mi è venuto un groppo in gola. I ricordi hanno messo lo sgambetto all’infamia della morte e mi hanno travolto: erano milioni, scattanti, prepotenti e pronti ad aggredire la convinzione umana che la morte decomponga il cerchio dei rapporti umani.
Poi mi sono staccato dalla compostezza del corteo funebre e dalla ritualitá. Ho cercato di ricordare la strada per arrivare in campagna. Era passato troppo tempo, mi sono perso. Il paesaggio era cambiato, dei vecchi contadini neanche l’ombra, ma l’albero di Tonino era stato l’unico a rimanere intatto. Lì sotto ho ritrovato l’ultimo segreto svelatomi dalla terra che mi ha allevato: un sottile filo d’olio scivola su un pomodoro. Poi un pizzico di sale e origano danno sapore all’ortaggio. Quella non era una ricetta – gli uomini si affannano per la ricetta della felicità – ma il segreto che Tonino mi aveva lasciato durante quella merenda: si vive per restituire alla nostra esistenza la semplicità con cui la madre Terra ci ha generati.

Io ero all’opposto della generazione di Tonino, eppure nei vagabondaggi del mio esilio volontario ho scoperto finalmente la scorciatoia che mi ha riportato sotto quell’albero. Ed è stato lì che mi sono ricordato cosa ci fosse scritto su quel foglietto scarabocchiato, dimenticato sul comò trent’anni prima: “Tonino, non fare tardi. Ti aspettiamo. Ci siamo tutti per cena. Porta il pane. Ti amo. Annamaria.”

Gino Paoli, Annamaria

Marco Simoncelli, tieni stretto al di là della curva l’ultimo sogno di SuperSic

Marco, stai attento alla curva. Rallenta, perché prima di arrivare dove c’è l’ultimo puntino ci sono in pista i tuoi vent’anni: lì sulla riviera romagnola, a Coriano, con la tua moto giocattolo a rincorrere i sogni, prima che diventassero ruggine.I gabbiani all’orizzonte del mare Adriatico seguivano la tua stessa traiettoria. Tra il cielo e una pista c’è però una differenza: il cielo ci rende liberi, la pista ci obbliga a seguire un maledetto percorso, che prima o poi coinciderà con il beffardo destino costruito dagli dei a nostra insaputa.

Marco, stai attento alla curva. Accelera di poco, come la volta in cui, all’età di un ragazzino delle scuole medie, ti ritrovasti campione italiano. I tuoi compagni marinavano la scuola e facevano merenda sui gradini della chiesa, e tu eri lì che ti allenavi. C’eri solo tu e il manubrio; il vento che ti accarezzava il corpo come la sensualità della donna che abitò il tuo cuore; i capelli imprigionati nel casco. Cosa vedevi dinanzi a te? Il sorriso sornione di mamma nel retrobottega della gelateria o lo sguardo fiero di papà, di corsa sulla sfrenata scia della passione per le due ruote?

Marco, stai attento alla curva. Fermati e grida in alto che tu fai il pilota. Butta via il casco. Non ti serve più. Spalanca gli occhi perché l’udito non sentirà più il vocio miserevole di quest’umanità. La polvere di stelle seppellisce l’ultimo sogno e lo imprigiona in un circuito. In mano te n’è rimasto un pezzettino. Tienilo stretto, portalo con te, dopo l’ultima curva infame che renderà invisibile il nostro Simoncelli SuperSic.

Muore Simoncelli

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Italian rider Simoncelli killed in MotoGP

Addio Amy Jade: prendi la valigia e portati via…

Amy Jade, prendi la valigia e scappa senza il Winehouse. Adesso è di troppo, non ti servirà più. Portati via l’odore del catrame che respiravi passeggiando sulle sponde del Tamigi, le cover dei chitarristi ambulanti sotto le metropolitane londinesi, le lacrime amare dei tuoi, tappate in una bottiglietta come quella che facevi galleggiare nelle estati sul mare di Brighton.
Amy Jade prendi la valigia e scappa spedita, come quando correvi incontro a tuo padre, che ti faceva salire sul suo taxi e ti incoronava reginetta delle vie del tuo quartiere. Portati via lo humor yiddish, le filastrocche cantate in coro a scuola, le foto ingiallite degli ebrei emigrati in Gran Bretagna, quelle smisurate preghiere sussurrate al vento, che non ti hanno mai convinta da quale parte stesse Dio.
Amy Jade prendi la valigia e scappa con l’ultimo gorgheggio che hai innalzato al cielo. Portati via i pomeriggi a “rappare” assieme ai tuoi compagni di merenda, il piercing che scandalizzò i bacchettoni della Sylvia Young Theater School, le canzoni soul che ascoltavi per i fatti tuoi, anche quando il mondo girava da tutt’altra parte.
Amy Jade prendi la valigia e scappa dal patetico piagnisteo riservato alle “anime fragili”. Portati via le 27 candeline che ogni volta riaccenderemo con le tue canzoni, perché d’ora in poi “non occorrerà più fingere”. Svestendoti, ti sentirai leggera come una piuma. Potrai finalmente vagare tra le nuvole. Sono le stesse che contavi da bambina a Southgate.
Amy Jade prendi la valigia, scappa senza quel maledetto ritaglio di giornale del Guardian che recita così: Amy Winehouse, who has been found dead at the age of 27, the cause not immediately clear”. Fanculo, a quel maledetto sabato.

Quelle 36 ore assieme a Olga Mautone Blakeley, specchio del mio privato

Nel 2005 la mia avventurosa traversata negli USA mi portò da lei fino a Houston. Quelle 36 ore trascorse assieme a Olga Mautone Blakeley, scomparsa lo scorso 7 giugno all’età di 91 anni, mi convinsero che l’amore può spegnere la solitudine di un’anziana signora. Di fronte a me non c’era più la napoletana che nel ’46 aveva lasciato l’Italia per amore di Karl, un ufficiale dell’aviazione americana; non c’era più la stilista che tra gli anni ’50 e ’60 aveva vestito le famiglie altolocate del Texas, conquistando persino i gusti della First Lady “Bird” Johnson; non c’era più l’italo-americana che aveva vissuto la favola del sogno americano tra vita mondana e festicciole dell’upper-class, nello stesso Texas dagli occhi di ghiaccio che aveva crocifisso in sordina il predicatore John Kennedy.
Ascoltavo una signora ottantenne che vagava nella memoria dell’infanzia, afflitta dall’Alzheimer e con lucidità sorprendente. Era come se improvvisamente a quel ritratto se ne fosse sovrapposto un altro, sotto l’ombrello della senilità: sul viale del tramonto Olga aveva ritrovato Napoli e la sua famiglia attraverso il riscatto dei ricordi, l’unico valore della sua esistenza. Lei raccontava ed io ero lì bivaccato sul suo divano a prendere appunti, come un vecchio cronista ficcanaso che voleva a tutti i costi salvare una pagina volata via dal ‘900: Olga assieme al papà Francesco per via Toledo; Olga che accarezzava la sorella Emilia; Olga che pianse sulle spalle del fratello Pasqualino la morte prematura di donna Margherita, la mamma fragile che disse basta alla vita.
Man mano che stavamo assieme, quel “film muto” acquisiva le tracce delle sonorità e i suoni di quelle voci mi chiarirono tutto. Olga Mautone Blakely era lo specchio del mio privato, era il personaggio che il mio caro amico Pasquale Mautone – in arte mio nonno – aveva ridisegnato sul foglio della mia infanzia tra pony, ranch e cowboy. Laggiù ci saremmo dovuti arrivare assieme e in un certo senso è stato così. Olga mi guardò diritto negli occhi e mi disse: “Sei tutto Pasqualino nello sguardo, nei movimenti, nel sorriso, in quei baffetti sottili. Sulla porta ti avevo scambiato per lui”.
Quando andai via sapevo che non l’avrei rivista più, ma mi resi conto che era iniziata per me una nuova stagione: quella che ha fatto della mia vita un viaggio continuo, dove i legami non si misurano all’ufficio anagrafe, ma nel tempo di condivisione dell’esistenza. Io e Olga Mautone Blakely avevamo condiviso ciò che siamo stati davvero.
Tempo dopo mi è arrivata una lettera da Houston in cui c’era scritto che Olga tutti i pomeriggi all’ora del té guardava la nostra fotografia e sorrideva. Forse si sentiva meno sola, proprio come oggi. Da qualche parte dell’universo avrà rincontrato il fratello maggiore e gli avrà detto: “Pasqualino, portami subito da mamma e papà. Finalmente siamo tornati a stare tutti assieme. Abbiamo troppe cose da raccontarci”.

Nonno, il dolore che spezza i vent’anni

La condivisione del dolore unisce, stritola le distanze, riporta a galla la parte bella di noi. Quando quel dolore spezzò i miei vent’anni, lei girovagava ancora nel passeggino. Appena ho saputo che lo stesso dolore aveva spezzato i suoi, l’ho telefonata. Era all’università, è uscita dall’aula. Si trovava ad Ingegneria, a Fuorigrotta, negli stessi luoghi che mi appartenevano. Il dolore ha una propria geografia dei posti, che amplifica il ricordo delle persone che se ne sono andate per sempre. E i nostri sono esattamente gli stessi, lì nei Campi Flegrei, tra l’ospedale San Paolo e via Docleziano, tra Cavalleggeri d’Aosta e Bagnoli. Man mano che condividevamo certe sensazioni amare del distacco, della perdita, ritrovavamo le nostre domeniche speciali lì, che ci strappavano alla periferia per catapultarci nell’anonimato della città, dove ogni istante condiviso con loro aggiungeva un tassello alla nostra esistenza. Avrei voluto accompagnarla da sua nonna, il cui volto mi avrebbe ricordato quello della mia, in una buia notte d’autunno in cui le dissero che l’uomo amato per una vita intera se n’era andato. Avrei voluto accompagnarla per tornare ad essere nipote per un istante e nascondermi tra i capelli imbiancati di quest’anziana signora.
Riguardando lo scatto fotografico fatto assieme ad Annalisa, è come se questo identico dolore la avesse trasformata improvvisamente da ragazzina in una donna, l’unica con cui ho potuto condividere fino in fondo l’intensità di questo dolore. E adesso voglio prendere Annalisa per mano e camminare a lungo, fino a stancarci, lungo la spiaggia di Coroglio, con lo sguardo rivolto verso Nisida. Scomparirà l’odore di catrame del fantasma dell’Italsider di Bagnoli; la sabbia tornerà ad essere viva come quella sotto gli ombrelloni del Lido Pola negli anni ’60; le palme della Domenica Santa torneranno a benedire le famiglie come facevano loro; l’amaro del cioccolato fondente delle uova pasquali si scioglierà nella dolcezza di nonno Antonio e nonno Pasquale, che si sono conosciuti lassù e sono diventati inseparabili come due vecchi amici. Remeranno su una barchetta in mezzo al mare della loro Napoli, verranno verso me e Annalisa per sussurrarci che l’amore intenso procura dolore, ma anche la consapevolezza che i rapporti speciali si tuffano nell’eternità, per farci tornare ad essere autentici. E il mio sorriso e quello di Annalisa in questa foto è lo stesso che oggi hanno Antonio e Pasquale, i nostri nonni, che il mare ci restituirà tutte le volte che lo guarderemo.

Le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte

Le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte. Non tocca più solo ai personaggi famosi – criticano noi giornalisti e blogger perché tiriamo fuori dal cassetto “il coccodrillo” su misura – e alle vittime dei fatti di cronaca, ma a chiunque se ne vada all’altro mondo. Mi sembra di essere tornato nei piccoli paesi. Tutti mormoravano nella lettura del manifesto del defunto per capire chi fosse, a chi appartenesse (guai se il tipografo ometteva il soprannome per cui era conosciuta la famiglia), e se poi era un giovane strappato alla vita cominciava la litania collettiva. Eppure non si capiva bene se questa ostinata partecipazione comunitaria al dolore fosse la sindrome paesana dell’appartenere tutti alla stessa razza o si riducesse a una curiosità folcloristica che ci mette poco a diventare cialtroneria inviperita.
Torno a ripeterlo: le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte. Appresa la triste notizia, la morte diventa “social”: trovi un messaggio che ti invita ad andare su una tale bacheca per guardare la foto taggata, accertarti chi fosse il malcapitato e lasciare il tuo messagino di cordoglio o uno degli aforismi mielosi e preconfezionati che circolano nei social network. A questo punto mi permetto di suggerire alle pompe funebri la vendita di un nuovo servizio: una fan page-lapide o la gestione post-mortem del profilo della persona scomparsa secondo i canoni dell’animazione del villaggio turistico “facebookiano”, anzi pacchiano (fa pure rima!).
Il dolore è troppo serio per finire spiaccicato nella piazza rumorosa della rete; il dolore è privato e tale deve restare, e non può essere vissuto come un passaparola, ma con le persone a cui ci sentiamo davvero vicini. E i legami non si costruiscono sul quantitativo di pseudo-amici che abbiamo in rete, ma nella realtà che ci porta a condividere le emozioni e ci mormora l’amaro “fujetevenne” eduardiano da queste visioni grezze e meschine, a cui mi ribello da quando scalpitavo nel pancione di mia mamma.

8 dicembre, 30 anni senza John Lennon

Ci sono modi e modi per andare contromano rispetto alla tua generazione. Il pericolo era uno solo e non era da poco, anche alla fine degli anni ‘80: rischiavi di isolarti, perché mentre gli altri ascoltavano Vasco e cazzeggiavano col Sì della Piaggio, le tue frequentazioni musicali si aggiravano dalle parti di John Lennon (1940-1980) e in sella alla tua Vespa rossa sognavi di fuggire a Liverpool, nella sua città natale. Eppure per molti Lennon è stato il capriccio di una stagione, un fuoco di paglia nel passaggio dall’adolescenza alla gioventù. Per me la musica di Lennon è stato il portone che mi ha fatto rompere le barriere e i pregiudizi di chi pensa che una canzone non possa essere contemporaneamente arte, letteratura e visione.
L’8 dicembre il mondo ricorda i 30 anni dalla scomparsa dell’ex Beatles nella lapidaria esclamazione del fan assassino “Bang, bang! Sei morto!”. Io rivivo invece gli ultimi vent’anni della mia vita tra le notti indigeste a riascoltare le sue canzoni; in viaggio tra Londra, Liverpool e New York; le scorpacciate di libri ed articoli per scoprire quale mistero o pozione magica ci fosse nell’anima contraddittoria di questo artista; quella vigilia di Natale di dieci anni fa in cui il postino suonò due volte al campanello di casa mia per recapitarmi una lettera speciale. Il mittente era la signora Yoko Ono Lennon che, colpita da un mio breve messaggio, mi aveva spedito gli auguri di Natale con una breve poesia, a firma anche del marito.
Tutto questo lungo tempo, in cui mi sono divertito a fare il trasformista da studente ribelle ad universitario per passione, da nomade lontano dalla terra natale a scrivano per mestiere, mi ha lasciato una filosofia inconfutabile: “Immagina che…”, testamento sospeso di John Lennon che non pone “l’immaginazione” su un altarino infantile, ma le restituisce la vitalità nella conquista dell’utopia.
“Imagine all the people living life in peace” non è l’ostinata presa di posizione del Lennon sognatore, ma la riflessione di chi aveva capito che lo scivolone tra “immaginazione” e “utopia” ci avrebbe allungato la vita. Perciò tra la mia capigliatura brizzolata è ancora superstite l’ultima ciocca di quei capelli lunghi che portavo a vent’anni, segno della ciclicità delle stagioni dell’esistenza; perciò nella notte dell’8 dicembre del ’90  mi misi fuori al balcone con una radiolina accesa sulle note di Imagine; perciò ancora oggi vado contromano rispetto alla mia generazione, che spesso ritrovo ammutolita nel suo torpore, qualche volta sconfitta, certe volte afflitta. A John Lennon devo qualcosa di quel che sono: il coraggio di essere rimasto sognatore. Il rischio? Camminare da solo, crescendo come una voce fuori dal coro.

Non dite a Sbirulino che Sandra (Mondaini) non c’è più!

Non dite a Sbirulino che Sandra (Mondaini) non c’è più perché non capirebbe. Tutti hanno pensato che quel personaggio buffo, nato nel bel mezzo degli anni settanta, fosse stato un capriccio infantile o un passatempo di chi aveva vissuto la gloria del varietà. Nel giorno in cui si svolge il funerale della Mondaini, distraete il malinconico pagliaccio con quelle canzoncine che contagiarono la tv dei ragazzi e i siparietti memorabili che consacrarono l’altra faccia della “dama burlona” dello spettacolo italiano. Sbirulino non ha mai capito chi si nascondesse dietro quel trucco perché hanno provato a convincerlo che il suo “esistere” fosse innocua robetta per far felici i bambini.
Non dite a Sbirulino che Sandra (Mondaini) non c’è più, perché scivolerebbe con prepotenza dalla risata furfantesca alla profondità del dolore. Il “trucco” c’era, ma non si vedeva. Dietro la faccia del clown più famoso del piccolo schermo, si era assiepata l’anima di una donna, che aveva lasciato lustrini e paillette e messo nell’angolo l’egocentrismo della diva per indossare la maschera. Era la maschera a far evaporare il cliché del personaggio, apparentemente burlone, ma trafitto dal cinismo e dalla tragicità della vita.
Non dite a Sbirulino che Sandra (Mondaini) non c’è più perché è l’idiozia umana a farci vedere quanto carnevalesca sia la morte. La donna con la maschera da clown, oggi è tornata ad essere bambina per sempre, come quelli della mia generazione che, col faccino infarinato e in po’ di trucco rubato alle nostre mamme, si sono interstaditi ad essere “Sbirulini” per un pomeriggio, restando prigionieri della bellezza e dello stupore.
Non dite a Sbirulino che Sandra (Mondaini) non c’è più, altrimenti lui smetterebbe di ridere e lei da lassù non si prenderebbe più gioco di noi,  che continuiamo a prenderci troppo sul serio, anche tra le righe di un elogio funebre.