Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Cartolina dalla Milano Design Week: quello che le (fashion) blogger non dicono…

Dovrei raccontare il primo appuntamento con la (fashion) blogger alla Milano Design Week con le mie scarpe lucide senza lacci per paura che si accorga di quanto sono trasandato e cammino con i lacci sciolti. Dovrei raccontare il suo passo spedito, l’entusiasmo che ci mette prima di aggiornare la sua community di Facebook.

Dovrei raccontare quando ti piazza in mano lo smartphone, sussurrando “Ti spiace? Mi fai una foto?” e tutte le raccomandazioni necessarie. Dovrei raccontare quando all’improvviso ti molla la borsetta, mette in carica il cellulare e si sposta a destra e sinistra: scruta, osserva, prende un foglio di carta e appunta come quelle studentesse certosine che mi passavano gli appunti all’università.

Dovrei raccontare quando ci incamminiamo, incontra persone e ti presenta agli altri come se ti conoscesse da sempre.  Quando meno te lo aspetti la ritrovi con gli occhi sul touchscreen che parla e senza preavviso ti tira dentro, presentandoti alla community. “Sì, salve, in verità stiamo improvvisando, tutta colpa sua…”, faccio io imbarazzatissimo (non è da me) mentre mi rendo conto di essere finito in una delle sue Instagram Stories.

Invece no, voglio scrivere su altro, oltre lo steccato delle persone che abitano il mondo dei social. Voglio scrivere sul comandante della nave da crociera che, al ritorno da mesi di navigazione, abbracciò la sua sposa ed ebbe la notizia che presto sarebbe diventato papà. Il nome della bimba era inciso su una conchiglia trovata sulla spiaggia di Torre del Greco così come quello della sorellina arrivata una manciata d’anni dopo.

Voglio scrivere sul  nonno che, tenendo sulle ginocchia la nipotina, le raccontò della casa costruita sulla lava del Vesuvio del ’45. Voglio scrivere su una valigia piena di sogni in viaggio da Napoli lungo tutto lo stivale italiano, per anni, con testardaggine, determinazione, perché la lotta per rimanere sé stessi vale quanto quella contro i disfattisti benpensanti convinti che con i sogni non si voli.

Queste non sono Instagram Stories digitalizzate, queste sono storie punto e basta, le storie di inchiostro e carta che danno l’anima alle nostre radici. Questa scia di napoletanità briosa che mi ha accompagnato tra Brera, Tortona e piazza Duomo, mi ha fatto ritrovare la Milano persa di vista.

Dovrei raccontare come ha rincorso il tram, come è scomparsa nel buio alla sua maniera di mischiare chiacchiere e riservatezza, mentre io ridevo immaginandola alla prese per ordinare la collezione di scarpe o pronta con la valigia fucsia, grande come una casa. Invece no, voglio scrivere su quello che le blogger non dicono mentre mi ronzano in mente i versi di Pino Daniele: “Anna verrà col suo modo di sorridere per questa libertà.”

19 marzo: Tale padre, tale figlio

Foto di Jorge Brian Di Monte

Foto di Jorge Brian Di Monte

Rosario PipoloLa pizza fritta è l’orgoglio della cucina popolare napoletana ed è una pietanza che può tessere un filo tra padre e figlio, soprattutto quando si tratta della condivisione del mestiere di pizzaiolo. Assaggiarla in un posto lontano da Napoli mi lascia sovrappensiero, per giunta a ridosso della Festa del Papà.

Distante da chi vive l’impolverata sindrome dell’emigrante alla Massimo Troisi, sono convinto che la reginetta dello street food parteneopeo sia ancora più saporita se, oltre la ricotta, cigoli, provola e pomodoro ci mischi ricordi e ritagli di una vita, per giunta in una città non tua come Milano.

Nell’impasto della pizza fritta di Luigi Capuano ho ritrovato la tenacia di chi si è fatto portatore sano altrove della napoletanità laboriosa, che riscatta il luogo comune dello sfaticato e lavativo all’ombra del Vesuvio.
Ricordo quella pizza fritta, premio di nonna Lucia, preceduta da un monito: “Tu non devi riportare i fatti di noi grandi, altrimenti ti diranno che tiene ‘na vocca comme Porta Capuana. Ora consolati con questa pizza”. Io ridevo a crepapelle per questo slang colorito.

Luigi ha imparato l’arte di un mestiere popolare da mastri dalla portata di Magno e Di Napoli, trasmettendola al figlio Enzo, in questi giorni in trasferta a Las Vegas insieme a tanti altri pizzaioli napoletani, per tenere alta la bandiera del Vesuvio oltre oceano.
Ci sono figli che mai farebbero il mesterie del papà; ci sono papà che, invece di sognare figli astronati sulla luna, lasciano in eredità la passione di una professione. Questa volta è il caso di dire: Tale padre, tale figlio. E forse un giorno anche i figli più piccoli, Maurizio e Thomas, seguiranno le sue orme.

Tutta colpa di una pizza fritta? No, dell’amore che ci sta intorno, che ci aiuta a fare meglio, come  quello di Alessia, la moglie innamorata del suo pizzaiolo. Nel frattempo, finisco la mia pizza e ripenso a donna Anna, la mamma novantenne di Luigi Capuano, che non smetterà mai di ripetere: “Giggì, ti ricordi quando ti accompagnavo da Pizzicato a piazza Municipio perché da bambino volevi imparare a fare la pizza? Non te lo dicevo, ai tempi ero già fiera di te”.

La vita unta di ricordi come una pizza fritta? Perché no, ha un buon sapore. Stasera voglio  essere il garzone di questo pizzaiolo, tornare indietro nel tempo e fare assaggiare la pizza fritta di Luigi Capuano alla regina che diede il nome alla famosa pizza Margherita: “Maestà, le ho portato questa pizza dal futuro. La assaggi, sotto il palato sentirà anche una punta di sentimentalismo, quello che nel mio tempo è stato offuscato dalla volgarità”.

Buona Festa del Papà a tutti i pizzaioli napoletani come Luigi Capuano che, in giro per il mondo, infornano e sfornano pizze ogni santo giorno senza dimenticare di essere prima di tutto papà.

La domenica, l’arbitro e il bambino

Foto di Antonio D'Alessandro

Foto di Antonio D’Alessandro

Rosario PipoloLa mia prima stagione calcistica fu quella 1977-1978. Ero seduto sugli spalti di uno stadio di periferia in una domenica pomeriggio. Agli occhi dei tifosi apparivo come un bimbo strano. Non tifavo per nessuna delle due squadre in campo, ma per l’arbitro.

Il ragazzotto baffuto sulla ventina andava sù e giù per il campo, fischietto alla mano, maglietta e pantaloncino nero. Appena era a pochi metri da me, non perdeva l’occasione per farmi l’occhiolino. I tifosi capirono che tra me e l’arbitro c’era un rapporto di complicità. Al termine della partita, mi spiegarono che l’arbitro sarebbe uscito da tutt’altra parte.
Gli andammo incontro mentre lo scortarono fuori dallo stadio. Appena mi vide, non mancò all’appuntamento: tirò fuori dalla sacca un piccolo snack e l’aranciata in una confezione speciale per la federazione e me li cedette come sempre.

Quella domenica ci fu un premio aggiuntivo. Il mio primo viaggio con l’arbitro. Salimmo sul treno e ci sedemmo. Mi sbottonò il montgomery marroncino e mi aprì l’aranciata. Mentre la sorseggiavo, lui accese una radiolina per ascoltare i risultati delle altre partite. Tirò fuori un taccuino per appuntare.
Poi mi fece divertire scendendo le scale mobili della metropolitana. Ci infilammo nelle gallerie ma quella volta non eravamo all’Edenlandia. Pensando che l’arbitro era diventato papà a vent’anni, scaravento nel tempo i versi di una canzone di oggi: “Un giorno ti dirò che ho rinunciato alla mia felicità per te; un giorno mi dirai che un padre non deve piangere mai”.

Usciti dalla metropolitana, io e l’arbitro attraversammo mano nella mano viale Cavalleggeri d’Aosta. Non c’era nessuno per strada, all’orizzonte, in direzione del mare di Coroglio, gli ultimi fili di luce. Fu la prima volta che lo chiamai per nome, io che lo aveva titolato “zio” con la mia nascita e lui fu il più giovane della famiglia ad esserlo.

Non ho mai creduto nei rapporti di parentela. I parenti sono un’imposizione sociale dell’umanità di cui mi sono disfatto nelle piccole rivoluzioni cosmiche. Credo nei legami che ciascuno di noi costruisce singolarmente con l’altro.

Io e l’arbitro mano nella mano per quarantadue anni, nell’istante di una domenica, nella conquista dell’attimo che ricomincia. Accade ancora oggi che nuota nel mare di Coroglio, alla ricerca del suo canotto a remi ormeggiato a largo del’isolotto di Nisida. Finché il buio non ci separi.

Terra dei Fuochi e tv di regime

terra-dei-fuochi

Rosario PipoloNelle province campane di Napoli e Caserta, cuore della Terra dei Fuochi, il tasso di mortalità è aumentato in maniera spropositata. La maggior parte dei casi sono per tumore o leucemia: 28,9 e 27,5 decessi per diecimila abitanti, sono i dati forniti da Corriere.it.

I dati dell’Istat parlano anche di mancanza di posti letto negli ospedali e, di conseguenza, di un doloroso flusso di migrazione per curarsi altrove. Vi siete accorti che il vostro vicino, per giunta gravemente ammalato, sta ipotecando l’appartamento o sta facendo questua tra i  parenti per finanziare il viaggio della speranza?

Nel frattempo a Porta a Porta, salotto televisivo tutto tarlato da Prima Repubblica, si parla di Terra dei Fuochi, annaquando la terminologia del tumore con malattia grave. Del resto in questa tv pubblica di regime, a cui verseremo dal prossimo luglio in bolletta il canone televisivo, i panni sporchi si lavano in famiglia – come recitava nel suo breviario il divo Giulio – sbiancando la coscienza con qualche fiction tv sul delicato argomento.
Chissà se ne prenderà atto il nuovo direttore di Raiuno Andrea Fabiano che dovrebbe svecchiare la rete ammiraglia di mamma RAI.

Tornando alla Terra dei Fuochi, è raccapricciante come nella città di Napoli, colpita anch’essa da dilaganti casi di mortalità,  tornino a farsi spazio i vicerè dello stantio rinascimento partenopeo. Manca poco al 6 marzo, giorno delle Primarie per scegliere il candidato a Sindaco del capoluogo partenopeo. Non basta più la rabbia esplosiva da rapper, la cantata del neomelodico o la promessa politica.

“Masaniello è cresciuto, Masaniello è turnato” per non farsi beffeggiare, per non farsi derubare il diritto alla salute.

Cartolina dai Campi Flegrei: Franco e i Pooh, 50 anni di vita e musica

fan-pooh-red-canzian

Rosario PipoloA Napoli porta bene se il tuo cinquantesimo compleanno coincide con quello della band musicale seguita da una vita. Mentre Roby Facchinetti, Dodi Battaglia, Red Canzian, Stefano D’Orazio e Riccardo Fogli si preparano ai festeggiamenti di mezzo secolo di Pooh, io ritrovo il fan napoletano che proprio oggi spegne cinquanta candeline.

Avevo conosciuto Franco ai tempi dell’università, si era trasferito dal Vomero nel condominio dei Campi Flegrei dove abitavano i miei nonni. Attraversando il cortile dello stabile del ’59, sentivo spesso sottovoce quelle poesie in musica composte dal compianto Valerio Negrini, al tempo in cui le canzoni in Italia non venivano prese troppo sul serio se non erano “politicamente” impegnate.

Ho imparato a conoscere le piccole storie della vita di Franco attraverso la passione per i Pooh. Quante volte ci siamo fermati nel cortile del palazzo a condividere aneddoti: un amore musicale nato nel 1978 da un juke box al lido Bikini di Minturno e poi da allora tante fughe per i concerti dei moschettieri della musica italiana.
A quindici anni Franco scappò a Roma per il primo live della band, mentre la mamma dormiva sonni tranquilli, sapendolo a casa di un amico. Si cresce con ricordi musicali come Eleonora mia madre, senza sapere che, anni dopo, avrebbe conosciuto di persona Red Canzian, voce di quella canzone.

Toccò proprio al fan partenopeo togliere una curiosità al polistrumentista trevigiano, spiegando il significato della parola napoletana cazzimma. Quando Red gli chiese cosa fosse, Franco replicò alla maniera di Alessandro Siani: “Nun t’o voglio dicere. Chest’è ‘a cazzimma.”

Le canzoni hanno il merito di avere appese al collo le pagine del diario del quotidiano, circoscrivendo gli imbarazzi della memoria nel ricordare gli amori della nostra vita. Franco ne ha avuto uno, Rosa, fidanzata di ieri, moglie per sempre, mamma di Umberto, Marco e Sara.
Oggi, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, posso fare una confessione a colui che è rimasto l’unico amico di quel condominio ai Campi Flegrei, custode di una parte meravigliosa della mia vita: negli anni in cui affannavo entrando in quella casa, vuota, buia, senza la luce dei nonni Pasquale e Lucia, le chiacchierate e le canzoni condivise con Franco hanno reso meno faticosa la scalinata verso il sesto piano.

E’ proprio vero, 50 anni di vita e musica quelli tra Franco e i Pooh. In mezzo è diluita anche qualche goccia della mia memoria.

Cartolina da Napoli: Epifania senza ‘a Maronna e ‘o bambiniello

nativita-ivana-pipolo

    Foto di Ivana Pipolo

Rosario PipoloQuest’anno i Magi non hanno trovato ‘a Maronna e ‘o bambiniello nel giorno dell’Epifania. Nella Napoli troppo distratta dal torpore della fine delle festività – la Befana tutte le feste porta via – e dagli affannosi auguri porta a porta in vista delle prossime elezioni comunali, neanche i turisti si sono accorti della fuga premeditata della ragazza madre e del suo bambino.

Scampato il pericolo dell’aborto, dovrà vedersela con gli assistenti sociali che prima o poi tenteranno di scipparle il pargolo, proprio come fece Erode più di duemila anni fa. La riterranno incapace di ricoprire il ruolo di madre, senza chiedersi semmai ci fosse stato qualcuno a metterla in condizione di svolgere il mestiere più utile e complicato nella società.

Mentre tutti erano incantati ad osservare il presepe, ‘a Maronna e ‘o bambiniello se le davano a gambe lungo via Cabonara, via Duomo per poi arrampicarsi, dopo la rincorsa di Spaccanapoli, sui Quartieri Spagnoli.
Per fortuna che a documentare questa natività dei giorni nostri c’era l’occhio fotografico di Ivana Pipolo, scivolando su quello stadio interiore della sospensione, lontano dalla nostra inguaribile frenesia.

Osservando questa foto mi sono tornati in mente gli assistenti sociali prevenuti e con i paraocchi dell’Inghilterra thatcherista, denunciati da Ken Loach nel commovente film Ladybird, Ladybird. Napoli non è Londra, ma questa Maronna cela sotto il velo l’emerginazione galleggiante che spodesta la sicurezza di essere guidati da una coscienza civile.

Oro, incenso e mirra, i doni di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, p’a Maronna e ‘o bambiniello, ragazza madre sedotta e abbandonata nella Napoli dei giorni nostri.

Natale in casa De Filippo senza Luca: A nuje ce piace ‘o presepe

Rosario PipoloSe apprendi la notizia triste e inaspettata dall’altra parte del mondo, preferisci posticipare la riflessione al rientro. Delle tante interviste fatte a Luca De Filippo tra il 1994 e il 2009, mi è rimasta impressa quella all’Augusteo di Napoli, in occasione del reading “Penzieri mieje” nel decimo anniversario della scomparsa di Eduardo.

Riavvolgendo il nastro di un’audiocassetta mi torna in mente questo: “Il teatro è una cosa seria ed è la lezione più grande che mi ha lasciato papà. Dal letto mi disse di andare perchè il pubblico non poteva e non doveva aspettare. Quella fu l’ultima volta che lo abbracciai”.

Luca De Filippo non mi ha trasmesso mai soggezione, questo no, quanto la serietà e l’etica che fanno dell’uomo calato nella quotidianità la reversiiblità dell’uomo del palcoscenico.
Luca non è stato soltanto il figlio accorto, fattosi missionario della complessa e sterminata opera del padre, ma l’attore che ha fatto della napoletanità la congiuntura tra memoria e futuro, tra Eduardo e il mondo. Non a caso Peppino Patroni Griffi mi disse alla prima del suo remake di Sabato, domenica e lunedì: “Eduardo è il mondo”.

I messaggini e le banalità confezionate e spalmate sui social network, nel giorno della scomparsa prematura di Luca De Filippo, mi hanno fatto pensare.
Se tutte quelle persone fossero stati realmente pubblico assiduo nei nostri teatri, non avremmo subìto il vuoto tra le platee dell’ultimo decennio e potremmo ancora parlare del ruolo civico del teatro di prosa.

“Nun me piace ‘o presepe” è diventato l’assillante tormentone per la scena guitta e amatoriale che il più delle volte ha soffocato la drammaturgia eduardiana nella macchietta divoratrice di prospettive. In pochi conoscevano la formula magica: dietro la celebre battuta di Natale in Casa Cupiello c’era il “Non mi piace il teatro” del piccolo Eduardo ripetuto a papà Scarpetta, perchè da grande avrebbe voluto fare un mestiere utile alla società, il pompiere, il medico.

Noi andiamo controcorrente. A nuje ce piace ‘o presepe perchè il teatro resti la corteccia dell’esistenza. Senza Luca De Filippo c’è il vuoto intorno, ci sentiamo più soli.

Aniello Montano, l’ultimo apostolo tra socialismo e laicità che fece brillare l’Università Federico II di Napoli

Rosario PipoloSossio Giametta, luminare di filosofia, mise nero su bianco una verità scomoda al mondo accademico napoletano: “Se penso alle invidie che popolano l’Accademia, Aniello Montano è un santo per l’assoluta assenza nella sua anima irenica, pura e francescanamente semplice e umile, di ogni segno di bassezza e meschinità”.

A poche ore dalla scomparsa del Prof. Aniello Montano (1941-2015) continuiamo a chiederci come abbia fatto l’Università Federico II di Napoli, punto di riferimento dell’istruzione pubblica in Europa e tra le istituzioni laiche più antiche del mondo, a farsi scippare da un ateneo di periferia questo talento germogliato all’ombra del Vesuvio.
Persino chi si limitava ad osservarlo o a viverlo a distanza senza per forza essere suo allievo, aveva capito che il promemoria della sua storia era trascritto nei suoi occhi chiari di ghiaccio: negli anni ’80 instancabile ricercatore alla Federico II di Napoli; poi le traversate dell’Italia per raggiungere l’università di Genova in veste di docente di filosofia e infine l’approdo a Salerno, dove fu anche direttore del Dipartimento di Filosofia.

Negli anni in cui, all’interno dell’ateneo dove mi sono formato e con cui ho collaborato, padroneggiavano le lobby marxiste, quale terreno fertile sarebbe stato riservato ad un anti-accademico perbene come Montano?
E’ stato lui l’ultimo apostolo dalla visione laica e socialista che, sceso dalla cattedra accademica, ha portato la filosofia tra la gente comune e nella vita di tutti giorni, dando una gran bella lezione di umiltà alla presuntuosa classe docente di provincia.

Aniello Montano portò tra studenti, operai, casalinghe, appassionati, il verbo di Giordano Bruno, l’eretico ammazzato dalla stessa chiesa che secoli dopo avrebbe sparso, attraverso prelati spregevoli, arretratezza nella feudale landa nolana.
Mentre i faraoni di provincia si facevano erigere monumenti, intitolare strade, costruire cappelle cimiteriali per autoproclamarsi eroi e nascondere mezzo secolo di malefatte politiche, l’umanista Montano schiodava dal torpore più generazioni, lasciando in eredità una verità: l’amore per la cultura e per la filosofia ci salveranno così come la bellezza del mondo classico.

Oggi sventoli un drappo nero nel cortile della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Federico II di Napoli in memoria di Aniello Montano, punta di diamante dell’Istruzione Pubblica del nostro Meridione.
Chinino il capo mortificati i baroni e gli accademici miopi. Noi cresciuti qui, anche se abbiamo fatto ricerca su discipline diverse, ci arroghiamo il sacrosanto diritto di riprenderci ogni parete del Dipartimento di Filosofia e dedicarlo al prof. Montano.

Le onorificenze e la gloria appartengono alla nostra umanità. Resta la memoria sedimentata tra le persone. E se “Dio è anche mamma”, come ci scandalizzò Papa Luciani, allora vorrà dire che lo studio e l’evangelizzazione filosofica di Aniello Montano varranno il doppio. Lassù avrà finalmente conosciuto di persona Giordano Bruno.

Nati per leggere, profumo di ginestra sulla Terra dei Fuochi

nati_per_leggere_castello_cisterna

Rosario PipoloE’ stato emozionante sabato pomeriggio entrare nella scuola primaria Gianni Rodari di Castello di Cisterna, alla periferia di Napoli, e trovare un mucchio di bimbi alle prese con i libri  perchè dopo tutto “si può amare la lettura attraverso un gesto d’amore”.

Questo è uno dei Punti Lettura di Nati per leggere, meraviglioso programma che illumina tutto lo stivale italiano attraverso 400 progetti locali su quasi 1200 comuni.
Grazie all’alleanza tra l’Associazione Culturale Pediatri, l’Associazione Italiana Biblioteche e il Centro per Salute del Bambino Onlus., dal 1999 Nati per leggere promuove la lettura in famiglia fin dalla nascita.

La grande energia arriva da tutti i volontari che contribuiscono alla crescita e al successo dell’iniziativa. Ad accogliermi nel Punto Lettura di Castello di Cisterna ci sono Anna Riva e Mariagrazia Russo che mi mostrano con orgoglio lo spazio realizzato con l’impegno di tutti: dalle pareti imbiancate da un giovane papà dopo le ore di lavoro alle cassette colorate di legno, contenitori di libri, di un ingegnoso nonno; dalla pedana di legno fatta da un giovane compaesano per l’angolo dei lettori volontari ai libri donati grazie alla genoristà di tanti.

In un territorio martoriato e dilaniato, prima dell’estate scorsa finito sulla cronaca dei giornali per una rapina e un omicidio in un supermercato a pochi passi dalla stesa scuola Rodari, la coalizione del comune di Castel Cisterna, le associazioni Emeis e Proloco Castrum fa germogliare una radiante ginestra, lì in un angolo della Terra dei Fuochi.
I sorrisi dei piccoli lettori Giovanna, Luca, Salvatore, Niccolò e Zoe ci fanno sperare in un futuro diverso  perchè sarà proprio la loro curiosità e i piccoli passi sul viale della lettura a maneggiare il cambiamento: la Terra dei Fuochi non è solo rifiuti tossici, criminalità organizzata, baby gang che assalgono treni.

La Terra dei Fuochi oggi brilla nella ginestra, cantata da Giacomo Leopardi, e rispunta alle falde del Monte Somma, le spalle grosse del Vesuvio. Sì, lo ribadisco come quando feci storcere il naso ai miopi professori della mia generazione.
Lo cantò Giacomo Leopardi, perchè questa lirica anticipò il cantautorato italiano degli anni ’70: “E tu, lenta ginestra, che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni, anche tu presto alla crudel possanza soccomberai del sotterraneo foco, che ritornando al loco già noto, stenderà l’avaro lembo su tue molli foreste. E piegherai sotto il fascio mortal non renitente il tuo capo innocente”.

Quando  Giovanna, Luca, Salvatore, Niccolò e Zoe, i Nati per Leggere di oggi, diventeranno i grandi di domani e usciranno allo scoperto, calpestando la viscida omertà di questo tempo, affronteranno a muso duro la malvagità. Mentre voleranno pallottole, i piccoli di oggi alzeranno i libri che faranno da scudo e cancelleranno dalla memoria il terrore delle faide cutoliane. Allora sì che la Terra dei Fuochi si trasformerà con il loro coraggio in Terra della Ginestra.

Sanità Pubblica, la sfida di Napoli nella lotta contro il tumore al fegato

Rosario PipoloNon ha fine la lotta contro il tumore al fegato: con tre morti al giorno la Campania è l’area geografica più colpita per cirrosi ed epatocarcinoma in Europa. Lo sa fin troppo bene a Napoli il dott. Giovan Giuseppe Di Costanzo, direttore dell’Epatologia AORN Cardarelli, che in un precedente articolo avevo soprannominato  “il  cavaliere Jedi” della termoablazione laser.

Lo stesso Di Costanzo ha organizzato, con la collaborazione della prof. Filomena Morisco, specialista in gastroenterologia ed endoscopia digestiva, e della dottoressa Raffaella Tortora, la II Multidisciplinary Conference on Viral Hepatitis and Hepatocellular Carcinoma, ospitata lo scorso weekend dal Museo Diocesano di Napoli.

Patrocinata dall’Università Federico II di Napoli, dall’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato e dal Ministero della Salute, la tavola rotonda è stata un acuto momento di riflessione e aggiornamento su questo tema delicato in ambito salute.
Quanto vi contribuiscono i farmaci per l’epatite da virsu C?
Come hanno ribadito i relatori queste cure farmacologiche eliminano l’infezione in media nell’80% dei casi, con variazioni dipendenti soprattutto dalla risposta a precedenti trattamenti, dalla presenza di cirrosi e dal genotipo virale.

Quali sono invece i contributi della nuova chirurgia? Ci sono segnali positivi in merito all’aumento della sopravvivenza dei pazienti con tumore del fegato. E’ stata presentata e illustrata la famigerata ablazione laser, messa a punto all’ospedale Cardarelli di Napoli, che consente di distruggere in maniera non invasiva anche neoplasie non trattabili con altre tecniche percutanee.

Tra il Cardarelli e il Policlinico di Napoli ho visto con i miei occhi decine e decine di giovani medici, che ogni santo giorno donano il meglio della loro professionalità a favore dei pazienti. Osservare all’opera donne in camice bianco come Maria Guarino e Silvia Camera conferma che la vera bellezza femminile abita nello sguardo impavido e premuroso di queste ancelle della Sanità Pubblica.

C’è una scena che mi sono portato a casa la primavera scorsa da una corsia del Cardarelli. Una donna sulla cinquantina che, avendo appreso della miracolosa cura farmacologica contro l’epatite C, ha sussurrato al marito: “Affronteremo anche questo e venderemo pure la casa se fosse necessario”. No, questo non accadrà, perchè i principi attivi della Sanità Pubblica sono a tutela di tutti. Di Costanzo  e i tanti collaboratori sono tornati all’opera, non c’è da perdere tempo, è una lotta senza fine quella contro il tumore al fegato.

La guerra è lunga, ma tante battaglie sono già state vinte, come quella di permettere ad un paziente, proprio oggi 9 ottobre, di festeggiare 43 anni di matrimonio.