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Cartolina d’estate: insieme a Luca sulla collina di Posillipo

Rosario PipoloSapevo che ti avrei trovato qui. Luca, sei proprio un milanese dal cuore napoletano: niente Navigli, niente Darsena, ma la cima della collina di Posillipo. Aspetta che mi siedo più vicino così riesci a sentire questo mio farfugliare.

Te lo avevo raccontato una volta e forse è accaduto negli stessi anni in cui hai vissuto nella mia Napoli. Nonno Pasquale mi portò qui da bimbo indicandomi questo posto come finestra spalancata su uno scorcio della città, lontano dalla solita cartolina con il Vesuvio intascata da chi vorrebbe questa Napoli culla del chiasso.
Proprio questa immensa terrazza, che affaccia sul parco sommerso della Gaiola, è il luogo più appropriato per appartarsi con i pensieri della propria anima.

Posillipo non appartiene ai napoletani radical chic, soffocati dalla goffaggine della loro finta signorilità, ma a Dio. Luca, non ridere: dai tempi dell’infanzia sono convinto che Dio non sa nuotare.  Secondo te se il Padreterno fosse stato un abile nuotatore, avrebbe lasciato annegare pescatori e marinai che da questo golfo non sono più tornati?

Pure nonno Pasquale assecondava, ridendo sotto i baffi, la mia stralunata idea. Dio usa la collina di Posillipo come materassino per galleggiare in acqua e puntualmente torna qui, lasciandoci innamorare.
Luca, la senti questa brezza che ci accarezza ora? Sembra la mano di Dio, ci libera, ci fa sentire più leggeri. Basta davvero una manciata d’amore per seppellire il dolore, per zittire il tamburo di latta della solitudine.

Mi sono convinto che ad arrugginirci in fretta sui nostri posti di lavoro è il maledetto muro alzato tra una scrivania e l’altra e cementato dalle banalità che spopolano alle macchinette del caffè. Per fortuna io e te ci siamo spartiti un capo donna capace di ricordarci che soltanto la nostra umanità può valorizzare i successi e i fallimenti nel lavoro di tutti i giorni.

Perciò Luca, anche tra colleghi, non dovremmo vergognarci di ripeterlo. Sono ritornato a Napoli d’estate non per farfugliare questi pensieri bizzarri, bensì per dirti che ti ho voluto bene.
Luca, pianto un fiore qui così la prossima volta sapremo quale sarà il punto esatto dove rincontrarci, qui sulla collina di Posillipo.

Storie di casa mia: Antonio, il guerriero su due ruote

Rosario PipoloQuando alla fine degli anni ’80 i miei genitori cambiarono condominio e quartiere, entrarono nella mia vita nuove persone. Sono i volti che nascondono storie e solo in apparenza sembrano comparse della nostra vita. In realtà alcuni di loro ne diventano incosapevolmente coprotagonisti, dando consistenza alla “nostra esistenza da mendicanti”.

Sì, perchè siamo luridi mendicanti tutte le volte che viviamo sotto il ricatto della distrazione. Durante gli anni del liceo scoprii che dietro il sorriso di Antonio si insidiava la sclerosi multipla: minacciosa, lenta, improvvisamente aggressiva. Furono la strada e il nuovo quartiere a farmi affacciare nella sua vita.
Nei giorni a ridosso della maturità era Antonio che mi incoraggiava, lì sulla sua carrozzella. Con Antonio non si facevano discorsi banali da macchinetta del caffè: si parlava di progetti, di sogni, di politica, di Dio, di filosofia spicciola infusa di quotidianità. Antonio era più grande di me ma aveva tanti bei sogni sul comò.

Mi piacevano di lui la sana ironia e il sarcasmo, perchè fanno di un giovane intelligente anche un uomo di buona fede. In un pomeriggio di maggio, a pochi mesi dalla mia laurea, mi chiese di spingerlo in carrozzella fino al supermercato. Tappai limbarazzo, io avevo l’uso delle gambe e lui no. Antonio lo capì e mi spiazzò, dandomi una bella lezione: “Prestami le gambe, spingi, spingi, non avere paura”.
In quell’istante presi coscienza del fatto che Antonio fosse un guerriero impavido e coraggioso, che con la sua passione per la vita metteva a tappeto giorno dopo giorno la sclerosi multipla. Antonio aveva da dare tanto a tutti noi “mendicanti distratti dalla routine”.

Dopo il trasferimento a Milano, io e Antonio ci siamo persi di vita. Ci siamo ritrovati la scorsa notte quando, fuori da un supermercato, è sbucato un carrello vuoto e abbandonato. L’ho afferrato, ho iniziato a spingerlo furiosamente tra rabbia e dolore, nel buio della notte tra i semafori lampeggianti, come se fosse la carrozzella di Antonio. Sapevo che il guerriero su due ruote non poteva rispondermi più.

Vent’anni fa prestai le gambe ad Antonio. La scorsa notte ha ricambiato il prestito altrove, a pochi passi da dove vivo oggi: il ricordo del sorriso del guerriero su due ruote ha schiaffeggiato mie lacrime da quarantenne bagnate dalla pioggia, ricordandomi che la bellezza di Dio sedeva accanto ad Antonio, amico di quartiere, su quella carrozzella.

Napule è… ‘e mille culure di Papa Francesco in primavera

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Rosario PipoloNella prima visita del Pontefice all’ombra del Vesuvio, Papa Francesco troverà tra la gente e le strade di Napoli la sua Buenos Aires. Bergoglio, dopo due anni di pontificato scomodo e rivoluzionario, troverà in Napoli la culla del Sudamerica rivolto al Mediterraneo, distante dalla Roma clericale di via della Conciliazione.

La stessa Piazza del Plebiscito, dove celebrerà nella mattinata del sabato che bacia la Primavera, non è da un bel pezzo sorella gemella di Piazza San Pietro. Il popolo la spodestò rendendola territorio di rivolte laiche perché “Masaniello è crisciuto, Masaniello è turnato”.
Noi napoletani sappiamo convivere con quel misto di religiosità e superstizione, tanto da essere gli unici a camminare sgranando una coroncina del Rosario e tenendo in tasca un paio di corni rossi.

Napule è… ‘e mille culure di Papa Francesco: il Pontefice accarezzerà gli scugnizzi di Scampia, il quartiere periferico stanco di essere considerato la cenerentola dell’area metropolitana, e si soffermerà sul tintinnio delle posate del pranzo con i detenuti di Poggioreale. Sarà l’occasione per ricordare le parole sante di Roncalli nel carcere di Regina Coeli: “Scrivete a casa, raccontate alle vostre madri ed alle vostre mogli che il Papa è venuto a trovarvi’”.

Napule è… ‘e mille culure di Papa Francesco: il Pontefice guarderà con sguardo severo gli alti prelati della Diocesi di Napoli, tra ombre e scheletri nell’armadio dell’ultimo ventennio da Giordano a Sepe.
In Largo Donna Regina ci vorrebbe un terremoto come a San Pietro dopo l’elezione di Bergoglio. Il trasloco di Mons. Gennaro Pascarella, equilibrio perfetto tra spiritualità e rigore, dalla Diocesi di Pozzuoli a Napoli sarebbe un segnale confortante per uscire dal tunnel.

Napule è… ‘e mille culure di Papa Francesco: il Pontefice stringerà a sé prima gli ammalati al Gesù Nuovo e poi i giovani e le famiglie, la sua gran forza, sul lungomare Caracciolo. Questo Papa, spirituale come Francesco giullare di Dio e profeta come il Nazareno che duemila anni fa cambiò il mondo, è adorato dai giovani di ogni razza, credo politico e religioso. L’incontro avverrà a pochi passi dalla Madonnina di Piedigrotta, faro nel buio della notte nella Napoli antica dei pescatori, la cui devozione si scatenò attraverso la drammaturgia popolare della Festa di Piedigrotta, tra sacralità e profanità.

Quando dal porto di Napoli Papa Francesco si alzerà in elicottero, incantandosi sul meraviglioso Golfo di Napoli, noi napoletani lo saluteremo a squarciagola con la nostra preghiera: “Chi tene ‘o mare s’accorge ‘e tutto chello che succede po’ sta luntano e te fa’ senti comme coce; chi tene ‘o mare ‘o ssaje porta ‘na croce. Chi tene ‘o mare cammina ca vocca salata; chi tene ‘o mare ‘o sape ca è fesso e cuntento; chi tene ‘o mare ‘o ssaje nun tene niente”.

Papa Francesco si ricorderà di questo 21 marzo a Napoli come la Primaverà in cui Dio tornerà a parlare napoletano.

Diario di viaggio: Giovan Giuseppe Di Costanzo e le eccellenze all’ombra della Sanità Pubblica a Napoli

Rosario PipoloCi sono più generazioni che vivono sotto la spada di Damocle. Si tratta di un milione e mezzo di italiani infetti da Epatite C, la patologia mostruosa che agisce sul fegato e lo riduce come un rottame.
Il fegato cirrotico è la condanna di 300 mila diagnosticati (fonte L’Espresso on line), la maggior parte dei quali fu infettata tra gli anni ’60 e gli anni ’80, quando bastava una piccola negligenza per entrare nel tunnel, dall’ago di una siringa alla lametta riciclata dal barbiere; da una trasfusione al bisturi malandato.

Mentre da una parte c’è chi grida alla salvezza con i costosissimi farmarci miracolosi messi sul mercato, dall’altra ci chiediamo: cosa ne sarà degli ammalati in stadio avanzato, ai quali nessuna azienda farmaceutica potrà dare supporto?
Escluse le possibilità di intervenire con il trapianto o con il dolorosissimo interferone, non resta che affidarsi al medico sperimentatore della Sanità Pubblica, colui che il più delle volte agisce all’ombra e del quale dovremmo tornare a scrivere.

Non è una beffa scoprire che proprio all’ospedale Antonio Cardarelli di Napoli, finito di recente nell’occhio del ciclone per i malati assiepati in corsia e il morto in barella, sopravvivano delle eccellenze. Giovan Giuseppe Di Costanzo, direttore dell’unità di fisiopatologia epatica dell’omonima struttura ospedaliera partenopea, rientra in questa categoria.
La mia generazione aveva ereditato il laser dall’immaginario collettivo cinematografico di Star Wars: per noi era l’arma letale con cui annientare il malefico Darth Vader. Di Costanzo trasferisce questa visione fantastica in campo medico e eredita dal pioniere Claudio Maurizio Pacella la tecnica sperimentale della termo-ablazione laser.

Di Costanzo, concreto e sobrio, è lontano dalle luci della ribalta e dal divismo che quale volta contagia pure “i camici bianchi”. Basta fare toc toc alla sua porta e trovare tanta disponibilità per un confronto. E’ davvero uno dei fiori all’occhiello della nostra Sanità Pubblica, quella che ha il dovere sacrosanto di calpestare il baronato delle corsie preferenziali del privato;  quella che non deve guardare al portafogli, perché un ammalato non è né ricco né povero ma è un ammalato punto e basta.

Diamo il merito alla nostra Sanità Pubblica che, nonostante le deficienze, riesce ancora a mettere in condizioni migliaia e migliaia di pazienti di supportare i costi ed affrontare cure senza indebitarsi, ipotecare la casa o i piccoli sacrifici di una vita.
Giovan Giuseppe Di Costanzo sa di non essere un Jedi che deve affrontare il male diabolico nella saga di Guerre Stellari, piuttosto un uomo che, armato di laser, battaglia per aiutare altri uomini a sopravvivere, entrando con rigore in una sala operatoria del Cardarelli.

Dobbiamo tornare a fare viaggi nelle corsie degli ospedali all’ombra del Vesuvio ed imparare a riconoscere senza soggezione medici alla Di Costanzo, capaci di trasformare Napoli da Cenerentola della Sanità in principessa dal mantello bianco che fa della vita e delle cure un diritto di tutti.

Napoli e le spose di Oreste Pipolo, fotografo-antropologo della bellezza imperfetta

Rosario PipoloDa quando sono nato, a Napoli mi fanno puntualmente la stessa domanda: “Sei parente di Oreste il fotografo?”. Ai tempi del liceo mi spinsi fino al suo studio fotografico in via Carbonara, per conoscere il fantomatico Oreste Pipolo con cui spartivo il cognome senza un legame di parentela.
Non fu quella l’occasione. Sarebbe arrivata anni dopo, prima del mio trasferimento a Milano, mangiando una pizza da Michele. Era seduto a fianco a me. Dopo le presentazioni, Oreste Pipolo tiro giù gli occhialini e mi disse scherzosamente: “Ora ti riconosco. Tu se il giornalista che mi ha fregato il dominio Pipolo.it”.

Più che “fotografo di matrimoni” – come recita il bel documentario che Matteo Garrone gli tributò  – Oreste Pipolo è stato l’antropologo delle spose napoletane. Le osservava con occhio critico e le denudava da tutti i vezzi pacchiani, di cui molti dei suoi colleghi ne fanno un vanto, prima e dopo il servizio fotografico da matrimonio, per immortalare così le principessine cafone di mammà e papà.

Tutte le spose, raccontate dall’obiettivo stilografico di Pipolo, diventavano la polvere di stelle con cui era stata creata Napoli dal Padreterno: non erano colte nella finta bellezza, che popola la maggior parte delle sposine “photoshoppate” ammucchiate sugli album dell’era digitale, ma in un misto di imperfezioni, lapilli poetici della bruttezza insidiata in ciascuno di noi. Perciò il matrimonio raccontato da Pipolo si staglia netto da ispirazione per il cinema.

Alla fine degli anni ’90 avevo conosciuto un gruppo di matrimonisti pugliesi che, dopo aver fatto un seminario con l’artista napoletano, mi dissero: “Osare come Oreste nella scelta degli scenari, significa non lavorare dalle nostre parti. Qui da noi le spose vogliono il ritratto accanto al mobiletto della mamma. E’ una malattia cronica del Sud”.

Il destino delle spose di Oreste Pipolo, per fortuna nostra, fu lo scatto su i binari dismessi della stazione di Gianturco o sotto un’arrampicata dei Quartieri Spagnoli, per essere misteriosamente velo della Napoli che nasconde la bellezza principesca sotto i cenci di una gatta cenerentola.

Evocando la sposa felliniana nel film Amarcord, avrei voluto un’ultimo scatto nel portfolio di Oreste Pipolo: una sposa scalza sulla spiaggia abbandonata di Coroglio, tra il lido Pola sbarrato dove si conobbero i miei genitori e il tanfo di catrame dell’ex Ilva di Bagnoli che arrivava fino alla finestra dei miei nonni. Nella tessitura visiva immaginata, accanto alla donna col velo, lo sposo volevo essere io.

La napoletanità di Pino Daniele ritrovata grazie a “Unici” di Giorgio Verdelli

Rosario PipoloQualche volta capita che il Servizio Pubblico televisivo ci sorprenda. Lo ha fatto con lo speciale che Unici di Raidue ha dedicato a Pino Daniele a un mese della scomparsa. Fuori dal perimetro della retorica, ci sono diversi spunti che ci spingono verso un’unica riflessione, oltre il commiato popolare: Pino Daniele è stato napoletano fino alla fine, nonostante le malelingue abbiano tentato di convincerci del contrario, puntualizzando su un mucchio di banalità.

Il rimbalzo delle polemiche da rotocalco tra gli eredi sulla possibilità di salvarlo lo lasciamo svanire nel falò dei social network. Noi invece ci teniamo la sagoma dell’artista, quella del musicista sul palco, anche perché noi addetti ai lavori conosciamo tanti retroscena che sfuggono al pubblico, compreso il gran bel caratterino del musicista partnenopeo.

Parto da una battuta che mi lasciò al termine della mia intervista alla Feltrinelli di Milano alcuni anni fa, per la quale ringrazio il social team di Unici per averla rilanciata su Twitter: “Guagliò, la memoria deve guardare avanti senza rimpianti”. A quello che disse Pino Daniele aggiungerei: questo vale soprattutto per chi decide di andare via da Napoli senza rimpianti, senza portarsi in valigia lo scheletro dell’emigrante raccontata da Massimo Troisi.

Nonostante Pino Daniele abbia cantato “‘o munno” con gli occhi della Napoli metropoli del Mediterraneo, la sua napoletanità è cresciuta nella fuga geografica che ne ha segnato crescita artistica. E paradossalmente le meravigliose note di Eric Clapton al “dear friend Pino” da una parte fungono da ninna nanna e dall’altra sottolineano ciò che Gad Lerner e tanti altri non sono stati all’altezza di capire.

Quando all’alba degli anni ’70 mia mamma si trasferì da Napoli per andare a vivere in periferia dopo il matrimonio, mio nonno ne fece una tragedia. Il suo risentimento è comprensibile ad un napoletano, perché chiunque ne varchi i confini è considerato in un certo senso un traditore. Ce lo siamo sentiti ripetere tutti noi che ce ne siamo andati.

Ho imparato che la napoletanità è prima di tutto uno stadio interiore e non si misura facendoti seppellire a Napoli ma se, mangiando un frittella nel cuore di Sarajevo, ritrovi il sapore di quelle che ti cucinava nonna Lucia. La napoletanità non scema se sei andato via da Napoli per esplorare nuovi mondi, anzi aumenta quando sei a Tirana, in Albania, e trovi nella generosità della gente locale quella dei partenopei.
La napoletanità non si sbiadisce se non canti più nella lingua che ti partorì, ma riappare tutte le volte che alla tua donna ti scappa, prima e dopo aver fatto l’amore, Te voglio bene assaje invece di I love you.

La generosità di Giorgio Verdelli e del suo programma Unici ha restituito a Pino Daniele e a tutti noi quella napoletanità che nessuno mai potrà scipparci perché, come ha ribadito Lina Sastri, “la vera bellezza di Napoli è la sospensione come la poesia musicale di Pino Daniele”. 

Napoli senza Pino Daniele è come il golfo senza il suo Vesuvio

Rosario PipoloOggi non posso che attraversare Spaccanapoli, perché quando nell’81 persino la casa dei miei nonni ai Campi Flegrei tremò per il concerto di Pino Daniele in piazza del Plebiscito, una voce urlò alla finestra: “Quando il cuore di Pino smetterà di battere, tu dovrai essere a Napoli, ccà”.
E così è stato. La profezia si è avverata. Sono qui, nella Napoli “nera a metà”, che nonno Pasquale mi portò a scoprire alla fine degli anni ’70 mentre dai balconi della Bagnoli di allora si udiva la voce del primo Pino Daniele.

A ciascuno una “terra mia”. A me toccò quella alle falde del Vesuvio, dove il blues di Pino Daniele fu tappeto per srotolare dense storie di denuncia attraverso la Napoli appena uscita dal tunnel dello zarismo populista di Achille Lauro.

La mia generazione fu “nera a metà” quando il blues napoletano e il contrappunto melodico del “mascalzone latino” fecero della world music l’apogeo del Mediterraneo; quando le strofe di Pino Daniele trasfigurarono in musica la poesia di Salvatore Di Giacomo e la teatralità del vico di Raffaele Viviani; quando il suo canzoniere ci diede le chiavi dell’inquietudine per raccontare il mondo attraverso gli occhi di Napoli; quando uscimmo sconfitti dalla grande illusione e delusione bassoliniana perché capimmo che i “mille culure” di Napule è… vendemmiavano l’amaro destino della nostra città, abbandonata dagli dei: “Napule è ‘na carta sporca e nisciuno se ne importa e ognuno aspetta a’ ciorta.”

E forse ‘a ciorta è toccata a noi napoletani, popolo condannato a vivere tra speranza, dolore e malinconia, perché altrimenti Dio non avrebbe mandato quaggiù lo scugnizzo Pino Daniele, le cui canzoni resteranno l’unico specchio in cui è riflessa l’intimità della nostra storia contemporanea.

E se si avverasse la profezia apocalittica dell’anziana mendicante conosciuta da studente a piazzale Tecchio – “Guagliò, ‘nu juorne Napule schiatterà sotte ‘a lava d’o Vesuvio” – rinasceremo da sotto la lava del vulcano buono grazie a questi versi che faranno da mantra per riacquistare la memoria: “Chi tene ‘o mare ‘o ssaje porta ‘na croce, chi tene ‘o mare ‘o ssaje nun tene niente.”

Oggi contano solo le lacrime di Napoli, perché noi napoletani abbiamo il pregio di essere carnali e fatalisti strafottenti.

30 anni senza Eduardo all’ombra dei suoi “attori”

Rosario PipoloNon ho bisogno solo di questo 31 ottobre 2014 per ricordare Eduardo De Filippo. Ho abbastanza capelli brizzolati per dire di aver partecipato, attraverso i primi articoli apparsi sui quotidiani napoletani nel 1994, alle celebrazioni del 10° anniversario dalla scomparsa del grande attore, drammaturgo e regista napoletano.

A suo tempo rimproverai mia madre per non avermi portato al San Ferdinando alle ultime repliche che videro Eduardo in scena. Lei rispose che ero troppo piccolo e mi finanziò, nella stagione teatrale 1985-1986, il mio primo spettacolo di Eduardo a teatro: Uomo e Galantuomo per la regia di Luca De Filippo. Fu proprio allora che iniziai l’attività del ragazzino abusivo nei camerini di teatro, così mi conoscevano alla periferia di Napoli. Alla fine degli spettacoli, mi infilavo dietro le quinte e, con un registratore a cassette fregato a mia sorella, raccoglievo testimonianze dagli attori eduardiani.

Negli anni che hanno preceduto la mia attività teatrale sui quotidiani, gli incontri con i tanti attori che furono sul palco al suo fianco mi fecero esplorare la Napoli del dopo Eduardo. Al di là delle registrazioni sul nastro di vecchie audiocassette, restano intatti i ricordi e le conversazioni. Pietro De Vico mi raccontò di quando si addormentò davvero in scena durante una replica di Natale in Casa Cupiello; Franco Angrisano dei viaggi che lo portavano da Salerno a Napoli per andare in scena; Angela Pagano mi parlò di quanto provare con Eduardo fosse irrinunciabile scuola di teatro; Regina Bianchi della grande severità fuori e sulla scena; Mario Scarpetta di questo legame di parentela che andava oltre il sipario; Luisa Conte di quanto fossero indispensabili per lui i giovani come motrice del teatro.

Luca De Filippo sottolineò il ruolo del suo teatro nel mondo; Lina Sastri dei segni che aveva lasciato il teatro di Eduardo sul suo percorso; Carlo Giuffrè lo acclamò come il suo grande maestro. E poi ancora a parlare di Eduardo con Vincenzo Salemme, Marina Confalone, Nuccia Fumo, Antonio Casagrande, Sergio Solli, Marisa Laurito, Enzo Cannavale, Tommaso Bianco, Isa Danieli, Ugo D’Alessio, Aldo Giuffrè, Nello Mascia, Marzio Onorato.

Il momento più emozionante fu nel ’97 nel camerino del teatro Diana di Napoli con Pupella Maggio. Alla fine dell’intervista azzardai la domanda: “Chi è stato per lei Eduardo De Filippo?”. Mi osservò con uno sguardo agghiacciante e replicò: “Semplicemente, Eduardo”. Tirai dalla borsa la videocassetta di Natale in casa Cupiello. Lei fece finta di niente. Restai fuori al camerino finché tutti la salutarono. Poi mi fece cenno di rientrare e mi allungò la mano per darmi un pizzicotto, aggiungendo: “Guagliò, sii tuosto”. Impugnò la penna e mi lasciò questa dedica: “A Rosario, con tenerezza. Pupella”.

Oggi mi piace ricordarlo così, ripensando a molti di quegli attori che, forse a quest’ora, insieme ad Eduardo stanno deliziando il Padreterno con uno spettacolo scritto apposta per lui.

90 anni di Radio con storie e voci, vicine e lontane

Rosario Pipolo90 anni di Radio in Italia non sono noccioline. Nonostante l’imperialismo di Internet e social media, la radio è viva, anzi sembra ringiovanita. Ognuno di noi ha una storia da raccontare per condividere questo compleanno.

La radio ha scandito il tempo della mia infanzia: il buongiorno di nonna Lucia nel lettone ad ascoltare i radiodrammi trasmessi dalla RAI, nella seconda metà degli anni ’70, o le domeniche di nonno Pasquale a rincorrere le radiocronache calcistiche del suo Napoli.  Ai tempi Twitter era fantascienza e l’unico uccellino di mia conoscenza era quello con il cinguettio che indicava il passaggio da una stazione all’altra.

La prima radio toccata con le mie mani? Quella che nel ’71 papà aveva regalato a mamma per il fidanzamento, con il sospetto che quella “scatola parlante” fosse oggetto di stregoneria. Le trasmissioni delle prime radio libere napoletane, inclusa SpaccaNapoli, diluivano il tempo dei pomeriggi  tra mamma che completava le faccende domestiche e le dediche romantiche fatte a telefono dagli ascoltatori.

Il primo autoradio invece non si scorda mai. Lo infilai nella mia Panda nel 1995 e feci credere alla mia ragazza di allora che stavano dando in diretta una trasmissione tutta per lei. In realtà, feci partire un’audiocassetta su cui avevo registrato con un mixer una vero e proprio programma. Non impiegò tanto a capire che lo speaker fossi io.

La mia prima volta in uno studio radiofonico fu nei primi anni ’90: ero a Radio Kiss Kiss per un’intervista. Fu lì la resa dei conti. Si dissolse la magia “solo voci” e fui costretto ad associarle ad un volto. Perciò non amo i ricatti del digitale terrestre, che ha costretto la radio a rifarsi un alterego dinanzi alle telecamere.

Solo voci, punto e basta. Voci che, dopo 90 anni, continuano ad aprirci un mondo ovunque ci troviamo. Voci che fanno vibrare minuscole storie infilate tra una canzone e l’altra. Voci che, dentro o fuori dal coro, confermano i versi cantati dal saggio Eugenio Finardi: “Amo la radio perché arriva dalla gente, entra nelle case e ci parla direttamente. Se una radio è libera ma libera veramente, piace anche di più perché libera la mente”.

Diario del testimone della sposa: le sorelle sono un dono di Dio

 

Rosario PipoloMentre l’auto della sposa corre spedita sul lungomare di Napoli, mi torna in mente una sera del ’76 in cui sedevo in una Cinquecento rosso corallo. Mamma sedeva davanti con il pancione. Il posto accanto a me era vuoto. A quei tempi pensavo che una sorellina si ordinasse al supermercato. Quando nonno Pasquale, in quella domenica del 3 ottobre, mi tirò giù dal letto di prima mattina, pensai: “I supermercati non sono chiusi a quest’ora?”. In clinica, attraverso un muro di vetro, osservavo una nidiata di neonati piagnucoloni. Pensavo potessi sceglierla come al supermercato. Puntai il dito verso quella più pacioccona. Era proprio lei, mi era andata bene. Si avvicinò Nonna Lucia e mi disse sottovoce: “Si chiama Rossella, è tua sorella e devi prenderti cura di lei”.

Pochi mesi dopo mi ricordai delle parole della nonna. Nel condominio dove vivevamo erano tutti preoccupati, perché dal palazzo vicino si sentivano spesso colpi di pistola. Nessuno osava dire niente, tutti erano ammalati di omertà. Mamma andò a fare la spesa e mi disse di badare a lei. Fuori era maltempo. Sentii un boato forte. Pensando avessero sparato, mi lanciai sulla culla della piccola Rossella e la strinsi forte a me come un piccolo soldato in trincea. Per fortuna, era solo un tuono.

Ricordo questo episodio come il punto di partenza della mia vita condivisa con mia sorella. Il più delle volte sono stato un fratello distratto, prepotente, poco premuroso. Nonostante tutto, ho maturato la consapevolezza che avere una sorella ha significato per me vivere a pieno la mia esistenza. Mia sorella è stata la continuità di ciò che non sono stato; si è rivelata il significato che la vita mi ha donato, attraverso il pancione di mia madre; è stata punto di riferimento per il mio futuro. E in questa Napoli, che ci ha partoriti ed ha custodito i ricordi più belli sulla zolla dei Campi Flegrei, oggi ritroviamo memoria e storia della nostra famiglia.

Ho finalmente imparato la lezione. Le sorelle non si scelgono al supermercato, ma sono un dono di Dio, anche per i fratelli “mascalzoni” come me. E nel giorno in cui sono proprio io “il testimone della sposa” posso urlare sottovoce: “Grazie per esserci stata a pieno, nella mia vita”.