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Quelli che partono: Il clochard del San Carlo di Napoli che gennaio si portò via

ph. di Camilla Crescini

“Quelli che partono”, foto di Camilla Crescini

Rosario PipoloNelle ultime ore di gennaio, cercai invano di farmi ascoltare. Bussai forte alla porta della ragazza, ma lei non rispose. Mi aveva lasciato un biglietto: era corsa a curare i bambini che erano stati abbandonati. Non so come riuscii a rintracciare la sorella, ma mi invitò a ripassare il lunedì successivo perchè era impegnata con le pagelle a scuola.
Scappai in cima alla salita, convinto che l’amico mi ascoltasse. Invece lui fece orecchie da mercante, stordito dalle inutili faccende che riempivano la sua noia. Da lontano vidi un prete, non mi diede neanche il tempo di accostarmi, che mi lanciò un’occhiata di rimprovero come a voler dire “non vedi che sto pregando”.

Nell’ultimo bistrot intravidi l’amica di sempre. La invitai a bere un caffè. Era una scusa per poterle parlare, ma lei si defilò perché stava finendo di preparare un concorso e mi chiese di pazientare solo una settimana. Nel parco c’era la bambina, che speravo non restasse indifferente. A stento mi riconobbe, era impegnata a pettinare l’ennesima bambola che le avevano regalato. Entrai nel solito supermercato, perché sapevo che lì avrei trovato la mamma. Provai ad urlare, ma non percepì il mio urlo perchè aveva la testa stordita tra gli scaffali delle offerte. Tentai con l’edicolante in piazza, ma stava chiudendo e non poteva dami retta così come il vicino che se la diede a gambe sulla sua Maserati di ultima generazione.

Non mi sentiva nessuno. Mi ricordai allora del clochard* che avevo incrociato qualche anno prima di fronte al teatro San Carlo di Napoli. Salii sul primo treno e mi misi alla sua ricerca. Arrivato sul posto, trovai la sua casetta di cartone, ma il barbone era sparito. Un uomo mi rimpoverò: “E’ arrivato troppo tardi. Il freddo di gennaio se lo è portato via. E pensare che un anno fa quel poveretto cercò di farsi ascoltare disperatamente, ma lei era troppo indaffarato per dargli retta. Il clochard voleva solo abbracciarla e raccontarle una storia, quella dell’indifferenza, la stessa che lei ha vissuto prima di precipitarsi qui”.

*Dedicato a Franco I., il barbone napoletano che adesso finalmente non soffre più il freddo perchè lassù c’è una casa tutta per lui.

Clochard morto davanti al San Carlo di Napoli

  Roberto Bolle e Twitter: Il ballerino che ha offeso clochard e napoletani

Addio a Mariangela Melato. In un camerino mi diede una gran bella lezione…

Mariangela Melato

Rosario PipoloLa prima volta che la incontrai in camerino, tremavo come una foglia. Accadde al teatro Diana di Napoli. E non perché fossi un giovane alle prese con le prime interviste, ma perché Mariangela Melato a teatro mi confermava sempre la stessa impressione: in quel corpo trovavo l’eleganza di un cigno che avvolgeva la sensibilità, la semplicità, l’intelligenza, l’ironia di una donna autentica ed indipendente.

Il camerino era illuminato. Mi mise ad agio. Chiacchierammo. Non parlammo di cinema, solo di teatro. Teatro, tanto teatro. L’audiocassetta terminò e il registratore smise di girare. Stavo per cambiare nastro. Lei mi fermò con la coda dell’occhio e disse: “Continuiamo noi due. Questi aggeggi danno un tono troppo meccanico agli incontri.” La Melato diede una gran bella lezione ad uno sbarbatello come me. Trasformare un’intervista in un incontro arricchiva l’intervistato, offrendogli il grande privilegio di intravedere l’altra prospettiva di un attore.

Fino a quel momento Mariangela Melato era stata per me la sottoproletaria Fiore in Mimì Metallurgico di cui mi ero infatuato, attraverso un piccolo televisore in bianco e nero in cucina, attaccato alla gonnella di mia madre. Dopo quell’intervista – pardon, incontro – Mariangela Melato si rivelò l’unica donna del palcoscenico italiano a vestire la nudità delle generazioni degli Anni di Piombo e del Riflusso in Italia. I suoi personaggi memorabili, al cinema, in televisione o a teatro, ci hanno aiutato a difenderci dalla mediocrità della quotidianità.

Mariangela Melato se n’è andata proprio in un momento storico in cui la mediocrità è all’ordine del giorno. Soprattutto quella più insidiosa, con cui a volte ci troviamo gomito a gomito nella routine, quella che trapela dalle persone mediocri, di cui dobbiamo imparare a disfarci nella vita privata e lavorativa.
E sono proprio le donne anti-dive alla Melato a restituire al teatro l’inossidabile funzione di depuratore dell’intelletto, del pensiero, dell’anima. Joan Baez disse: “Non si può scegliere il modo di morire e nemmeno il giorno. Si può decidere soltanto come vivere”. Mariangela Melato ha vissuto nel teatro e per il teatro.

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Diario di Viaggio: Il riscatto della periferia di Napoli sul palco del Teatro Rostocco

Le prove al teatro Rostocco

Rosario PipoloQuando meno di una ventina di anni fa a Parigi mi rintanai in un teatrino off da una trentina di posti, mi apparvero spazi enormi i miei nascondigli napoletani come il Teatro Nuovo o Galleria Toledo, dove ero stato svezzato dalla nuova drammaturgia di Ruccello, Moscato, Silvestri. Tornare alla periferia di Napoli e mettere piede in un rifugio teatrale simile a quello parigino, mi ha fatto fare una riflessione: c’è stata finalmente una giovanissima generazione di periferia che ha schiaffeggiato il dilettantismo e il divismo che spesso si riduce a spavalderia sfacciata nei piccoli luoghi di provincia. Un gruppo di appassionati ha messo in piedi una bottega teatrale. Il Teatro Rostocco di Acerra, in provincia di Napoli, è l’unico luogo che oggi lega, attraverso un sotterraneo mistico, la provincia alla metropoli. Ci sono finito perché mi hanno organizzato in anteprima un reading di alcuni passi del mio romanzo. Mi ha fatto effetto ascoltare la voce dei miei personaggi attraverso l’anima di giovani attori, mentre il pubblico era assorto nella sua intimità.

Al di là degli spettacoli della compagnia, che rappresentano una specie di laboratorio per far vivere il teatro anche a chi non lo fa come professione, l’atto coraggioso è la rassegna proposta dal Rostocco: un cartellone che spilucca nelle micro proposte interessanti del panorama teatrale off italiano, che spesso non hanno la visibilità meritata. Ed è così che la “bottega” di cinquanta posti diventa fortino privilegiato di incontri drammaturgici. Gli stessi che sulla scena si trasformano nelle schegge impazzite di cui abbiamo bisogno per tornare a vivere: usciamo dalla prigionia virtuale dei social network e torniamo a teatro, una volta e per tutte!

Nei luoghi dei miei viaggi in Italia, cerco sempre un nesso con i miei vagabondaggi in Europa. E sono contento di essere finito lì perché è una sorta di spazio magico che ti fa sentire un navigante, senza appartenere ai soliti cliché del territorio. Nel paio d’ore trascorse al Rostocco di Acerra sono tornato a convincermi che gli uomini e le donne di buona volontà, giovani e meno giovani, possono fare nel loro piccolo ciò che spesso le istituzioni non sono all’altezza di compiere: far uscire le radici della nostra memoria collettiva da musei e santuari locali per esportarle attraverso le gambe della memoria. In questo piccolo teatro di periferia abbiamo una grande opportunità: riappropriarci di una coscienza collettiva e della nostra civiltà. E me lo ricordò Giorgio Gaber, scomparso dieci anni fa in questi giorni, nell’ultimo nostro incontro: “Libertà è partecipazione”.

Teatro Rostocco

Cartolina da Torino: Il “razzismo” di un cronista e “la puzza dei napoletani”

I social network lo hanno linciato, l’azienda in cui lavora si è limitata a sospenderlo. Giampiero Amandola era un giornalista anonimo fino alla settimana scorsa. E’ riuscito finalmente a guadagnarsi un pizzico di celebrità, firmando un servizio “razzista” per il Tg3 Piemonte in occasione della partita Juve-Napoli di sabato scorso. Nel mirino non c’erano gli extracomunitari o i vucumprà, ma coloro che dagli anni’ 50 del secolo scorso hanno dato al capoluogo piemontese, assieme agli altri meridionali, la più grande forza lavoro dal secondo dopoguerra ad oggi: i napoletani.

“I napoletani che puzzano” sembra un vecchio slogan stampato sui volantini anonimi lasciati all’entrata della fabbrica che produceva le automobiline del Belpaese del Boom. L’urlo e le definizioni della rete bastano e avanzano per sintetizzare la meschinità di Amandola e l’accaduto non merita neanche di essere commentato.
Tuttavia, bisognerebbe fare un passo indietro e capire come possa accadere che vada in onda sul Servizio Pubblico televisivo marciume di una tale portata. E’ legittimo chiedersi, senza per forza fare il mestiere di giornalista: Chi ha dato il benestare per mandare in onda il servizio? Se fosse accaduto all’epoca della lottizzazione RAI del Pentapartito sarebbe scoccata la bufera: Democristiani e socialisti  con il dito puntato contro i comunisti che occupavano il suolo del terzo canale.

Se ciò accadesse in Gran Bretagna, nel tempio della BBC, vedremmo “il cronista d’assalto” sbattuto fuori dalla porta con una lettera di “licenziamento” tra le gambe. Ahimé, siamo in Italia, dove riusciamo a far passare per “un servizio giornalistico di colore” qualcos’altro.

I tifosi che sono stati al gioco, dovrebbero farsi raccontare dai genitori e dai nonni che “i napoletani puzzavano” quando uscivano dalle fabbriche di Torino. Di quell’odore ne andavano orgogliosi perchè, rincasando, potevano guardare negli occhi mogli e figli con la dignità di chi conosce i sacrifici e lo sfinimento della fatica.
Chi ha lanciato invece la scialba provocazione, dovrebbe imparare a memoria un’affermazione di Elsa Morante, che in questi dieci anni in cui vivo lontano da Napoli, recito tutti i santi giorni mentre mi guardo allo specchio e mi sento orgoglioso di essere stato partorito dalla mia terra: “Grande civiltà di Napoli: la città più civile del mondo. La vera regina delle città, la più signorile, la più nobile. La sola vera metropoli italiana”.

 

  Juve-Napoli, Rai sospende giornalista Tg Piemonte

No, non è finita: L’altro striscione per Pasquale Romano

Sabato sera il Napoli ha incassato la sconfitta della Juventus. Avremmo dovuto portare fuori dal campo di Torino l’ultima parola di Mazzarri: “Non è finita”. Avremmo dovuta spruzzarla su uno striscione e appenderlo nel punto dove è stato trucidato Pasquale Romano, ucciso per sbaglio dalla camorra nella faida di Scampia.
Mentre le immagini del match più atteso di questo inizio di campionato passavano sui maxi schermi allestiti nei vicoli di Napoli, saranno stati in tanti a dedicare un pensiero a Lino, che doveva essere pure lui da qualche parte a fare il tifo per il suo Napoli.

Nell’esclamazione dell’allenatore del Napoli c’è la verità che vale nel gioco come nella vita: la singola sconfitta non conta se all’urlo emotivo e rabbioso sostituiamo la riflessione. Che la rabbia per la morte di Pasquale Romano non resti “urlo da megafono” tra le fila di una fiaccolata come è accaduto per le altre vittime innocenti della camorra. Il quartiere di Forcella ricorda ancora la piccola Annalisa Durante, un altro angelo caduto in volo sotto la mano spietata dei killer.

Lo scrittore Roberto Saviano ha manifestato apertamente la sua indignazione dalle pagine di La Repubblica: “Con quel ragazzo ucciso a Napoli è morta anche la democrazia. Ignorato dal governo che non si è presentato ai suoi funerali, in un’Italia che non si indigna più”.
Tenendo da parte i cliché che fanno di Napoli la landa desolata della malavita e dei criminali, dobbiamo interrogarci sul senso di ricominciare una nuova settimana facendo finta di niente. Sarebbe mostruoso lasciare la morte di Pasquale Romano tra le braccia del cinismo, che permette a un fatto di cronaca qualunque di aumentare le vendite di un giornale.

Sarebbe stato sportivo e umano sentire dentro e fuori lo stadio di Torino un coro di voci per Pasquale Romano, invece del brutale razzismo che riapre polemica per il solito cliché.

No, non è finita.

  Razzismo da tifoso

  L’articolo di Roberto Saviano

La domenica e il riscatto del Sud con la Coppa Italia al Napoli

Erano troppi anni che la Coppa Italia non tornava alle falde dal Vesuvio. C’era arrivata l’ultima volta nel 1987 tra le mani di Maradona, con la buona parola di San Gennaro e prima che la città di Napoli entrasse nell’epoca del bassolinismo illuminista. Mentre la città risorgeva nella culla della più grande bolla di sapone degli anni ’90, la squadra calcistica finiva sotto terra per colpa di una cattiva gestione, che poi altro non era che il riflesso di chi amministrava lo stesso capoluogo campano.

De Laurentiis ci ha creduto e ha riportato il Napoli ad essere il grande Napoli, quello che sa farti traballare con l’ostinazione di un allenatore come Mazzari, che all’Olimpico però ha saputo fare. Il Napoli di Mazzari ha messo all’angolo la Juventus Campione d’Italia. Lo ha fatto purtroppo in una domenica in lutto per l’Italia: da una parte lo choc per la strage di Brindisi, dall’altra il timore che il maltempo complichi il disagio dei terremotati in Emilia-Romagna.

Tuttavia, sforando i perimetri delle curve antropologiche e sociologiche di una comunità, il pallone segna da sempre il riscatto dei popoli del Sud: accade a Napoli come a Buenos Aires o a San Paolo. I vincitori di questa Coppa Italia sono tutti i napoletani che tornano a riscattare, attraverso la loro squadra, la città dagli scempi della cronaca degli ultimi tempi. Sui volti di coloro che sfileranno sul lungomare Caracciolo fino alle luci dell’alba troveremo per l’ennesima volta la dignità del Sud, di chi riesce a fare di una “speranzella” – come avrebbe cantato Renato Carosone – il sellino per cavalcare il futuro.

Fa sempre un effetto strano pensare che “’O Surdato ‘Nnammurato”, composta quasi un secolo fa da Cannio e Califano, continui ad essere un inno di gioia e festa conosciuto in tutte le parti del mondo. Eppure il celebre brano racconta tutt’altro: la lontananza di una coppia nei giorni della guerra perchè lui è al fronte. I napoletani sono riusciti a stravolgere con la loro personale interpretazione persino il testo di Califano, forse in maniera legittima, perchè dopotutto una partita di pallone è la metafora più appropriata della vita: i vinti possono trasformarsi all’ultimo istante in vincitori, con la consapevolezza che solo il domani legittima la meritata vittoria di oggi.

Addio a Roberto Esposito, l’ultimo disegnatore della Napoli da strada

Se fino ad una decina d’anni fa fossi passato in via Stadera a Napoli, lo avrei trovato lì. Roberto Esposito (1962-2012), l’ultimo disegnatore della Napoli da strada, era appostato in qualche angolo ad osservare il fluire del magma partenopeo. Lui non sapeva di esserlo, ma il suo pennello e la sua matita appartenevano all’ultima generazione degli artisti “abusivi” partenopei. Gli stessi che, pur non avendo un nome quotato nelle gallerie o misurato con il termometro della popolarità, avevano avuto la stessa spiritualità dei pittori anonimi che ancora oggi si appostano lungo la Senna a Parigi: la spiritualità di cogliere e raccontare con un tratto semplice, dal sapore istintivo e popolano, la realtà che li circonda. Forse perché, come amava ripetere, “Ho sempre avuto la profonda convinzione di essere sempre stato nel posto giusto, su questa scacchiera del mondo”.

Diplomatosi al Liceo artistico di Casoria nel 1979, Roberto Esposito aveva trasferito nei suoi racconti disegnati l’iconografia teatrale partenopea – adorava Nino Taranto e la verve della scrittura di Gaetano Di Maio – diluendo il volto di un Totò o un Eduardo nella presa di coscienza della città, che muta con i passi dell’anima. L’arte da strada di Roberto Esposito non apparteneva alla superbia paesana e al goffo divismo
della provincia, ma alla sobrietà anonima e spigliata della città, intinta anche nella ritualità: il profumo del ragù domenicale, la culla della famiglia, la socievolezza davanti ad una partita di pallone, la lettura costante del passato letterario che fanno di Napoli la stella polare del tempo.

Ho conosciuto Roberto lo scorso novembre, durante uno dei miei viaggi. Era un altro viaggio verso casa, prima che tornassi a fare il vagabondo con due disegni suoi. La nostra amicizia è durata poco più di centoventi giorni. Quando gli chiesi dove fossero esposte le sue opere, lui sorrise e replicò: “A Napoli, nelle botteghe, nelle pizzerie, sulle bancarelle…”. Allora capii che lui apparteneva alla scuola partenopea dei disegnatori da strada, gli unici che sanno difendere la napoletanità dal napoletanismo contraffatto. Roberto Esposito, lettore di questo blog fino alla fine dei suoi giorni, adesso sa finalmente dove “vanno a finire i palloncini”, quelli di una vecchia canzone di Renato Rascel. Non scoppiano mai, ma si posano nell’ultimo angolo del cielo, sospesi per sempre come il suo aforisma nascosto nei suoi disegni: “L’Amore è la nostra destinazione ed è la massima realizzazione che un uomo e una donna possano conseguire”.

  Drawer Roberto Esposito died at 50 last Saturday… (from rosariopipolo.com)

Ho perso la matita di Moebius, ma ho ritrovato Napoli disegnata da Jean Giraud

La prima matita me la ricordo. Me la regalò mia madre. La comprò in una piccola merceria alla periferia di Napoli ai primi di ottobre del 1978.
In una scuola materna pubblica cominciai a riempire di scarabocchi tutti i fogli bianchi che mi capitavano davanti. I miei compagni la percepivano come un oggetto da stregone, perchè arrivava una gomma e cancellava tutto . Io no, mi avevano rapito la delicatezza e la discrezione di quest’asticella di legno.

Di professione non ho fatto il disegnatore, ma ho trovato il tempo e il modo per rifugiarmi tra le pareti dei disegni di Moebius (1938-2012). In un pomeriggio del secolo scorso mi persi alla periferia di Parigi, dove cercai invano Jean Giraud, il grande disegnatore scomparso sabato. Fu la sua matita composta a spingermi nel vortice della fantascienza.
George Lucas e Ridley Scott lo avevano fatto con il loro cinema, Moebius (da ragazzino mi inquietava il suo nome d’arte) c’era riuscito con una sequenza di quadri a fumetti.

Dopo tanti affanni, stavo per incrociare Giraud proprio nel centro storico della mia Napoli. Jean adorava la mia città, mi sfuggì per un pelo. Mi dissero: “E’ appena andato via, ma guardi cosa ci ha donato”. Mi trovai tra le mani una copia di un suo disegno dedicato a Napoli: un golfo del capoluogo partenopeo come non lo avevo visto mai.
La sagoma del Vesuvio e un arcipelago di case così lineari da farmele associare ai pezzi sparsi di una navicella spaziale. Il volo dei gabbiani di Moebius su quella tavola lasciavano un’indicazione precisa per il capoluogo campano. Era ora di smettere di associare Napoli alla mitologia di un passato nostalgico. Moebius aveva colto l’anima fantascientifica della mia città, perché nel suo golfo ci sono i tratti del futuro, nascosti nel volo dei suoi gabbiani.

 Moebius – sito ufficiale

  Docteur Giraud et Mister Moebius

 Mort de Moebius

Anna e Eugenia, nel Sud tra storie di vita e una fiaba per te

Nelle caldi notti d’estate, in cielo come in terra nessuno, ma proprio nessuno, riesce a riposare tranquillo. La fiaba che stiamo per raccontare parla di una stella del cielo che, in una di queste notti, per rinfrescarsi, nel mare si tuffò e l’amore incontrò.
Una notte calda d’estate L***, una stella del firmamento, guardava dall’alto il mare immenso che si dispiegava sotto di lei. Sulla sua calma superficie giocavano i delfini: sembravano divertirsi tantissimo.
<<Beati loro!>> sospirò L*** e aggiunse: <<con questo caldo, sarà bellissimo nuotare nelle acque fresche del mare illuminato dalla luna!>>. Trascorreva ore ad osservarli, le trasmettevano tanta gioia e poi erano davvero bellissimi. Quando la luna cedeva il suo posto al sole anche per la stella arrivava il momento di andare a riposare e salutare il mare.
Una notte, il caldo era diventato davvero insopportabile e L***, guardando i delfini, sospirò: <<UFFF!!>> e continuò: <<come vorrei raggiungerli!!>>.
La stella sapeva bene che quando una di loro decide di cadere giù, può rimanere lontana dal cielo solo per tre giorni. Poi dovrà ritornare nel firmamento e rimanervi per sempre o almeno fino a quando un uomo sulla terra esprimerà un desiderio che nasce dal cuore. Solo allora la stella di nuovo cadrà e per sempre laggiù resterà.
Fu così che L*** decise di tuffarsi in quel mare blu notte: lasciò il cielo, una scia di luce disegnò dietro di lei e sul dorso di un delfino si ritrovò ad ondeggiare.
<<E tu chi sei?>> le domandò il delfino quando si accorse della sua presenza.
Lei così rispose: <<Sono L***, una stella del firmamento, per il tanto caldo mi son tuffata e su di te mi son ritrovata>>.
Il delfino, allora, per rinfrescare la bella stella, incominciò a nuotare passando dalle profondità del mare alla sua superficie. L’acqua era fresca e salata proprio come la stella l’aveva sempre immaginata.
La notte passò velocemente e le prime luci del giorno incominciarono a brillare sull’acqua rendendo il delfino di un grigio splendente.
Che spettacolo era vedere, dalla superficie dell’acqua, scomparire la luna e sorgere il sole.
L*** guardava il cielo e il mare. Non erano tanto diversi l’uno dall’altro: blu, profondi e immensi. Certo l’acqua era umida ma tanto tanto fresca.
L*** all’improvviso domandò al delfino: <<Ho nuotato tutta la notte con te e non so ancora qual è il tuo nome. Scusami! Allora, come ti chiami?>>.
<<R***>> rispose lui. Per tre giorni R*** e L*** rimasero sempre insieme. Il delfino portò la stella a conoscere i tanti abitanti del mare: dai granchi alle trasparenti meduse, dai piccoli pesci alle grandi balene. I coralli, poi, erano una vera meraviglia, ce n’erano di tanti colori ma i più belli erano quelli rossi e rosa. R*** conosceva tutti i segreti del mare, tutti i luoghi più belli che si nascondevano nelle profondità delle acque. Fu così che il delfino le fece conoscere la conca dei fiori del mare: un avvallamento pieno di anemoni colorate tra cui nuotavano felici simpatici pesci pagliaccio.
Il terzo giorno arrivò veloce come un battito delle ali dei gabbiani che volavano liberi sulla superficie del mare.
<<Purtroppo non posso rimanere qui con te! Questi giorni vissuti insieme sono stati bellissimi. Ho imparato tante cose grazie a te. So che mi mancherai tanto ma … non posso! Devo ritornare lì dove sono nata>> disse L*** a R*** che aggiunse: <<Sei una stella del cielo e il firmamento è la tua casa, io sono un abitante del mare e l’acqua è il mio ambiente.
Tutti devono essere ciò che sono … mi mancherai!>>.
E così fu che L*** e R*** ritornarono ad essere divisi dalla linea dell’orizzonte che separa il cielo dal mare.
Ma da quel giorno qualcosa era cambiato dentro i cuori della stella e del delfino. L*** non era più luminosa come un tempo e guardava sempre il mare sotto di lei con la speranza di rivedere R***: ma nulla!
Dal giorno in cui si erano salutati il delfino non era più comparso sulla superficie dell’acqua.
A L*** mancava tanto R***. Avrebbe voluto rincontrarlo ma poi pensava che, anche se l’avesse rivisto, si sarebbe dovuta separare nuovamente da lui: erano troppo diversi.
Lui così grande, lei piccina piccina, lui abitante del mare, lei abitante del cielo, lui meraviglioso delfino argentato, lei splendente stella del firmamento.
<<Forse è meglio non rivedersi!>> sospirò L*** mentre questi pensieri attraversavano la sua mente.
In realtà il delfino non si era mai allontanato dalla sua stella: lei non lo vedeva ma lui, ogni notte, era lì ad osservarla appena sotto la superficie dell’acqua.
Non voleva mostrarsi per paura di far spegnere ancora di più la sua luce, per paura di farla ridiventare triste quando al mattino di ogni giorno avrebbero dovuto salutarsi.
Si erano innamorati, lo avevano capito m appartenevano a due mondi diversi e tutto sembrava impossibile. A volte, però, si fanno degli incontri capaci di dare nuovo senso.
R*** nuotava tra le profondità del mare, fuori la superficie il sole brillava caldo nel cielo turchese senza nuvole. Ad un tratto, senza rendersene conto, il delfino si ritrovò lì dove nulla cresce e nessuno abita.
Non era solito nuotare in quel luogo deserto ma la tristezza lo aveva portato lì. Nuota e nuota, all’improvviso trovò, su quell’arido fondale, un bellissimo corallo rosso.
Rimase meravigliato e, pensando ad alta voce, disse: <<Credevo fosse impossibile che qui potesse nascere una nuova vita>>.
<<A volte ciò che è impossibile diventa possibile>> aggiunse una tartaruga che, passando da quelle parti, aveva ascoltato le parole del delfino.
<<A volte la luna incontra il sole, a volte il sole illumina la pioggia, a volte tra i sassi nasce un fiore e un corallo in un territorio arido>> continuò lei.
E R*** aggiunse: <<A volte un delfino si innamora di una stella del cielo>>.
Dopo un po’ di silenzio, il delfino domandò alla tartaruga: <<Tu che sei la più saggia tra gli abitanti del mare, mi dici come l’impossibile diventa possibile>>.
La tartaruga così rispose: <<L’impossibile diventa possibile se le differenze si trasformano in risorse, i confini in spazi da riempire ma soprattutto se l’amore è più forte della paura di soffrire, se l’amore è più forte di un vento imponente!>>.
R*** sospirò, riguardò quel bellissimo corallo tutto rosso e stava per dire qualcosa alla tartaruga quando si accorse che non era più accanto a lui. Intorno non c’era più nessuno e stava diventando tutto scuro perché la notte aveva preso il posto del giorno.
<<L***!>> esclamò R***. Nuotò veloce fino a raggiungere la superficie del mare. La sua stella era lì, nel blu del firmamento. Quando L*** lo vide si illuminò mai come prima, la sua luce era abbagliante.
<<Che felicità, proprio oggi che compio gli anni vederti è il regalo più bello>> sospirò la stella e aggiunse: <<non pensavo che un delfino mi potesse mancare così tanto>>.
<<Ed io non avrei mai immaginato di essere così fortunato da innamorarmi di una stella del cielo>> continuò lui. Si sorrisero dolcemente. <<Ma come faremo, siamo lontani, diversi, i nostri mondi ci separano!>> disse L*** ritornando nuovamente triste.
<<Non importa quanto diversi siano i nostri mondi, ciò che conta è guardarsi negli occhi e riconoscersi l’uno nell’altra. Il nostro amore deve essere più forte della tristezza che proveremo quando ogni mattina il sole sorgerà>> aggiunse sicuro di sé R*** e L*** così continuò: <<Si! Il nostro amore riempirà lo spazio che ci separa rendendoci vicini di cuore>>.
R*** replicò: <<Mentre nuoterò, penserò ai tuo occhi, così mi sembrerà di averti accanto e non vedrò l’ora di poterti osservare al calar del sole>>.
E L***: <<Io vivrò nell’attesa che qualcuno sulla terra esprima il desiderio di vivere per sempre con la sua amata, allora finalmente cadrò dal cielo, nel mare ti raggiungerò e con te per sempre resterò>>*.

*Anna Riva e Eugenia Russo, ospiti del blog, sono una piscologa ed un’educatrice. Sono autrici di questa e altre intense fiabe. Vivono e lavorano alla periferia di Napoli.

Paul McCartney a Milano 19 anni dopo: sogni bagnati su quell’Espresso da Napoli

Sì, è stato così. Treno espresso notturno da Napoli a Milano, trentamila delle vecchie lire in tasca, un primo quadrimestre da schifo. Sono partito in queste condizioni 19 anni fa. Milano per me non rappresentava niente, a parte la scuola Paolo Grassi, santuario per chi sognava di diventare un bravo attore di teatro. Sapevo soltanto che a Milano c’era Paul McCartney, mi bastava questo.
Papà si arrabbiò, ma avrei mandato all’aria anche l’esame di maturità: non ne potevo più dei classici latini e greci. Le mie poesie erano state le canzoni dei Beatles, punto e basta. La sera ne recitavo una prima di andare a letto.

Milano mi spaventò: immensa, dispersiva, una macchina ad orologeria. Il Forum di Assago mi deluse, non era nient’altro che un palazzetto sportivo. Né più né meno. L’attesa dal primo pomeriggio assieme a tanti sconosciuti mi fece condividere la passione sfrenata per quelle canzoni. Allora non c’era Facebook o Twitter. Scarabocchiavo su un taccuino, volevo mettere nero su bianco le emozioni. E’ una parola!

Tra una chiacchiera e l’altra si mangiucchiava, poi l’entrata e ancora attesa. Mi avvicinai all’area ospiti e mi colpirono un uomo e una donna, mano nella mano. Erano Fabrizio Frizzi e Rita Dalla Chiesa. Lei mi sorrise, con Frizzi attaccai bottone e gli dissi che i miei compagni di liceo notavano una somiglianza tra me e lui. Parlammo delle canzoni di McCartney, dei Beatles, gli svelai qualche sogno e Fabrizio mi consigliò di accorciare i capelli se volevo assomigliarli di più.

Si spensero le luci, cominciò lo show. Mi lasciai travolgere per l’ennesima volta e mi convinsi che la musica univa e annientava i pregiudizi sociali, cultuali, religiosi, politici. Quando alla fine tutti esplodemmo sul coro di Hey Jude, finii disteso per terra sotto una pioggia di coriandoli. Per una volta pioveva a catinelle sui miei sogni di allora, gli stessi di oggi. I sogni hanno bisogno di essere bagnati perché chi apre l’ombrello è l’ultimo stupido che si priva di esistere, con o senza le canzoni di Macca.

Paul, 18 anni dopo!

La vita di Harrison in cineteca aspettando Macca a Bologna

 The Beatles Fans Italiani