Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Diario di viaggio: Primavera sull’A1 su e giù per l’Italia…

Io e Antonio non ci vedevamo da anni. Ci siamo ritrovati nella stessa auto per attraversare l’Italia dal basso all’alto. Io ero un ragazzino, ma lui già era adolescente e mi ricordo di quando si beccava le ramanzine dai genitori perché studiava poco per correre a giocare a pallone. Dovrebbero sentirlo parlare oggi, papà Gennaro e mamma Clara sarebbero così fieri di lui per come è diventato.
Siamo sull’A1 all’altezza di Caianiello, è quasi l’alba, Antonio va alla guida spedito e mi racconta con orgoglio dei figli, di quanto sia importante il ruolo della famiglia, degli spostamenti per lavoro, di quei pezzi della vita che mi sono perso. Siamo all’altezza di Roma e il condominio Stella Maris, dove abbiamo vissuto, diventa un dolcissimo avanzo della nostra memoria: la ragazza dai capelli lunghi della scala A, la signora del secondo piano, la ciurma dei bambini del quinto piano, l’amministratore baffuto, il nostro vocio nel cortile del palazzo, le litigate dei più grandi e la magia che noi più piccoli creavamo quando rincorrevamo il cielo, quello che ci sovrastava alla fine degli anni Settanta.
Siamo all’altezza di Firenze Sud, c’è traffico e restiamo in silenzio sulle note di una canzone. E’ lì che lascio ad Antonio la mia confessione: la scomparsa prematura della mamma, a cui ero legato particolarmente, ha marcato il passaggio dalla mia infanzia all’adolescenza, perché allora pensavo che gli angeli prima di diventare tali dovessero invecchiare. Siamo all’altezza di Bologna e ci sembra che l’energia della memoria ci abbia fatto ritrovare il significato dei legami, e la certezza che quelli che nascono nella prima parte della vita non si dileguino mai.
Arriviamo ad un Autogrill a Parma. Cambio auto, sono in ritardo, mi aspettano per un’intervista. Io e Antonio ci salutiamo con un caloroso abbraccio, ma appena lui va via avverto la stessa sensazione di quando lascio il mio Sud: quell’indolenzimento che provavo da bambino appena sua mamma mi faceva la puntura. Questa volta però non ci sono le carezze della signora Clara a tranquillizzarmi e neanche una telefonata per sapere come sia andato il viaggio.
E’ Primavera, e me lo ricorda stranamente Milano appena arrivo nel tardo pomeriggio. La partenza di qualche giorno fa è tornata ad essere arrivo. Eppure una milanese atipica cancella quel piccolo livido con un messaggio casuale: “Tutto bene il viaggio?”. Qualcuno è tornato a preoccuparsi di me e quel gesto è stato uno scossone, un pizzicotto che mi ha finalmente risvegliato, forse grazie ad un’Alice, che ha percepito la stanchezza di questo mio viaggio, lei l’unica sopravvissuta “nel paese delle meraviglie”.

L’Italia 150 anni dopo, il 17 marzo tra unione e diversità

Quando ci siamo conosciuti, Carmine e Ciro mi hanno mostrato con orgoglio la loro bandiera della Nazionale Italiana. I Mondiali erano appena terminati e, nonostante la delusione per l’uscita dell’Italia, per entrambi è stato il primo tifo da coppa del Mondo. Ci siamo divertiti a trovare un significato per ogni colore, ma i due bambini senesi erano convinti che il verde, il bianco e il rosso si confondessero con l’atmosfera di una partita allo stadio, nonostante alla base ci fosse una sacrosanta verità: l’unità, intesa come unione e riscoperta dello stare assieme. Eppure, quasi fosse un paradosso, il significato di unità quei due furfanti, il primo di otto e il secondo di sei anni, se lo portano dietro dal giorno in cui sono stati registrati all’anagrafe: i nomi profondamente partenopei li contraddistinguono dall’accento compostamente toscano.
I due fratellini hanno imparato a riconoscere la ricchezza della diversità tutte le volte che vanno a Napoli a trovare i nonni. Tuttavia, andiamoglielo a spiegare che, quando i genitori della mamma hanno tentato di trasferirsi a Milano nei primi anni ’70, hanno ingoiato l’ennesimo boccone amaro spiaccicato sulle porta: “Non si affittano case ai napoletani”. L’Italia era già unita da più di un secolo, ma l’intuizione di Massimo D’Azeglio aveva ancora il suo perché: dove erano gli italiani?
Per questi 150° anni dell’Unità di Italia, non voglio finire in pasto alla cialtroneria tipica del Belpaese, tra i discorsi delle istituzioni, le maratone televisive o gli editoriali dei benpensanti. Vorrei nascondermi assieme a Carmine e Ciro in un libro di storia che ci raccontasse la verità su come siano andati i fatti, mettendo da parte l’emotività fiabesca. Chi glielo dice a questi due scolaretti che Giuseppe Garibaldi non fu uno stinco di santo; che le cronache locali sepolte nelle biblioteche calabresi e siciliane testimoniano le violenze dei Mille sulle popolazioni locali; che la piemontizzazione è stato l’errore più grossolano; che le teste coronate sono state degli emeriti incapaci.
La complicità dei due fratellini toscani cela sul volto la stessa fierezza della “piccola vedetta lombarda” del libro Cuore di De Amicis, perché chi ha rinunciato alla vita per quel tricolore apparteneva ad ogni fascia di età. In 150 anni di Unità abbiamo dimenticato parecchio perché, dopo il bluff monarchico e i tentativi della Prima e Seconda Repubblica di far passare il nazionalismo per patriottismo, l’Italia ha camminato sotto l’ombrello dell’asserzione gattopardiana del Principe di Salina:  “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Dopo essere passato a Torino, nella notte del  17 marzo attraverserò il mio Paese per sprofondare nel mio Sud. Sussurrerò a bassa voce l‘Inno di Mameli, come se fosse la nuova preghiera dell’Italia laica, perchè “Fratelli d’Italia” restituisca  un nome a chi si è sacrificato e spinga a nascondersi sotto una montagnetta di fango quei “sepolcri imbiancati” che vorrebbero il nostro stivale ridotto ad un’ammucchiata di staterelli, in lotta fratricida tra loro.

Donne italiane in piazza, sull’orlo di una crisi di nervi

Sono italiane le donne sull’orlo di una crisi di nervi e questa volta sono uscite a viso scoperto. Niente mimosa, niente Festa della Donna, niente nastro rosa. L’urlo rabbioso femminile, anzi “femminista”, ha trascinato in ballo pure gli uomini. E questi non erano gli osceni tronisti di Uomoni & Donne, ma mariti, compagni o figli che sono scesi in piazza senza i soliti pregiudizi: stiamocene a casa a guardare la partita di pallone, perché questa è robetta per donne “radical chic”.
Altro che protesta di quattro femminucce inviperite e incazzose! “Se non ora quando?”, la manifestazione delle donne italiane che hanno chiesto una volta per tutte “più rispetto per il gentil sesso”, è stato un vero boomerang lungo tutto lo stivale. Sembrava di essere ritornati ai tempi di una domenica sessantottina, rigorosamente in bianco e nero, dove per una volta poteva andare a farsi benedire il pranzetto allegro tutti in famiglia del Belpaese democristiano. Si torna ad urlare e questa volta c’è poco da fare i furbi.
A scatenare il putiferio è stato il Ruby-gate e quella mostruosa meccanica che vorrebbe convincerci che “le donne sono nudo oggetto di scambio sessuale”. Un bel paio di tette moltiplicate per quanti sono i culi delle bamboline di corte rappresentano davvero l’immaginario collettivo dell’italiano medio, maschilista e smargiasso? Se fosse così, siamo proprio conciati male così come quando, nei battibecchi quotidiani, ci imbattiamo nell’acidità femminile che ingigantisce le piccole delusioni nel banale ta-ra-ta-ta: “Gli uomini sono una razza inutile, ne possiamo fare a meno”.
La piazza ha ancora fascino di seduzione o il potere di far cadere gli imperatori? In alcune immagini passate in tv, mi è sembrato di rivedere quel mucchietto di donne agguerrite appostate fuori alla Casa Bianca per chiedere a Nixon, il peggiore Presidente della storia americana, di farla finita una volta per tutte con la guerra in Vietnam. Eppure quell’urlo col megafono non riuscì a fargli staccare il sedere dal trono, finché il joker dal ghigno malefico non fu sbattuto sul lastrico dal Watergate. L’Italia non vuole più aspettare e urla senza megafono: Se non ora quando?

Benvenuti al Sud, quello “mio”!

Benvenuti al Sud, non nell’omonimo film che ha sbancato al botteghino, ma tra gente vera, sapori e profumi sopravvissuti alla memoria, luoghi che nascondono storie dimenticate. Benvenuti al Sud tra Giovanna, che riempie il palmo della mia mano con una minuscola natività, e Annalisa – un dì scorazzava sul pianerottolo della mia infanzia – oggi un  vero parà dagli occhi di ghiaccio che gira il cucchiaino nella sua tazza d’orzo grande.
Benvenuti al Sud con Michele che fa il contorsionista tra reminiscenze filosofiche, idilli jazzati e un caffè a S. Agata dei Goti; con le lacrime invisibili di un’amica di vecchia data mentre suo figlio Joseph ha trovato nascosto nel gioco delle carte l’altro significato della vita; con l’immancabile combriccola dell’oratorio che rinasce dentro una reunion post-festiva tra il sorriso di Brigida e l’entusiasmo di Angela.
Benvenuti al Sud, ai confini tra Campania e Lazio, con Marcello che fa lo speaker radiofonico e fa sognare più province sulle onde di una radio locale; nei sapori delle golose Castagnole che per mano di pasticciere veneto arrivarono nel banco del Caffè Ducale di Sessa Aurunca; nella passerella goffa che fa della provincia il territorio ridicolo di ogni mondo che si rispetti.
Benvenuti al Sud nell’aperitivo con il prof. Tiziano, vecchio compagno di classe dai sogni messi a repentaglio dalla nuova scuola precaria e decadente; con Paolo che soffia 3 candeline, cammina a carponi tra i video di YouTube, fa le fusa alla caricatura sul mio blog; con nonna Antonietta che sbrina un’immagine sbiadita delle nostre comuni radici contadine: “Mariti e figlie comme e truove accusì te’ piglie” era la risposta delle mamme alle figlie che nel secolo scorso tentavano di fuggire dai mariti violenti e arroganti.
Benvenuti al Sud nell’anello che porta al dito la “Lei” con cui hai condiviso nove anni della tua vita: sta per sposarsi e così la neonata Giulia si ritroverà come zio acquisito quel bel damerino!
Benvenuti al Sud, cara Giulia, e visto che tu crescerai qui sai che ti dico: sarò stato pure un mascalzone e uno sbruffone squattrinato, ma mi prendo il diritto di restarti zio per sempre. Il mio viso da vagabondo saprebbe raccontarti che tornare indietro è un errore imperdonabile, ma guardare avanti riconoscendo i propri sbagli è l’unica scorciatoia per distaccarsi dal deplorevole mondo degli adulti.
Benvenuti al Sud, nel mio Sud, dove ogni volta che ci torno ritrovo un pezzo di me stesso che non mi ero accorto di aver perso. E questa volta l’ho perso per sempre.

Diario di un blogger attraverso il 2010

Quando un altro anno se ne va via, un blogger ha un vantaggio dalla sua parte: un diario bello e fatto da poter sfogliare per ripercorrere a modo suo questo 2010. La scrittura è sempre farcita di emotività e di vita quotidiana, ma mi pare l’occasione per rivivere gli ultimi 12 mesi dell’anno.
Ricorderemo il 2010 per quella diavoleria tecnologica dell’iPad , ma anche per l’euforia di Facebook che a volte è diventata isterismo da “sindrome del mi piace”, onirico desiderio di calunniare, tenera strategia per corteggiare una donzella  o per festeggiare San Valentino . Le pagine del diario privato hanno preso il sopravvento nel calore della sciarpa di Antonia, nel disegno del dolcissimo Carmine, nei micro viaggi nei miei luoghi natali, in un racconto d’estate a puntate  o su un block-notes dopo la mia estate in Corsica. L’attualità mi ha ricordato la turbolenza della Fiat di Pomigliano , l’uccisione del Sindaco-pescatore, la guerra della monnezza a Terzigno  o la protesta degli studenti a Roma. Le buone o le cattive abitudini (dipende dai punti di vista!) mi hanno riportato nei matrimoni del Sud tra le bustarelle e le reunion familiari.
E poi ancora la delusione per l’uscita degli azzurri dai Mondiali, l’urlo dei ricordi per la Spagna campione del mondo, il sapore dello gnocco fritto di Ciano a Sabbioneta, Calabria on my mind, ed io autista per un giorno a Brescia.
Mi mancheranno tre volti noti che se ne sono andati nel 2010: Sandra Mondaini, Mario Monicelli e Enzo Bearzot.
Devo eleggere una persona dell’anno, rovistando tra i miei post? E’  Simona, l’educatrice tenace dei Quartieri Spagnoli di Napoli.  Con lei e con te, caro lettore, ho attraversato il 2010 e sono pronto per condividere  anche “l’anno che verrà”. Cin cin…

Matrimonio alla napoletana: o la busta o non mi sposo!

Busta o non busta, questo è il problema. Mica quella dell’immondizia, ma la bustarella con i soldi che non può mancare ad ogni matrimonio napoletano che si rispetti. Tutti lo snobbano, ma poi tutti vogliono il regalo in cash. Con la crisi che c’è in giro, ritrovarsi tra gli invitati di un banchetto nunziale non è confortante per niente.
Una volta le indagini si facevano via telefono, adesso basta aggirarsi sulle bacheche dei social network per sondare gli umori e capire quanto bisogna sborsare per far felice i neo sposini. Tuttavia, il regalo in busta è anche l’ultima spiaggia per pagare il conto salato della cerimonia: chi famiglia napoletana rinuncerebbe mai all’evento sfarzoso? Nel 1971, un cugino di mia madre, organizzò il matrimonio facendo i conti sui regali in denaro degli invitati, senza calcolare il rischio di non raggiungere la somma necessaria. Nonna Lucia fu molto chiara con nonno Pasquale dopo il taglio della torta e gli bisbigliò: “Pasqua’ dobbiamo raddoppiare la somma per Enzuccio, altrimenti restiamo qui a lavare i piatti”.
Quarant’anni fa come oggi la ruota gira sempre allo stesso modo, con una differenza: nel nuovo millennio i matrimoni durano il tempo di una stagione. Insomma, gli sposi dovrebbero impegnarsi con gli invitati a restituire il premio in caso di divorzio o separazione entro i primi 36 mesi di vita coniugale. Per non parlare dei separati e divorziati che circolano in Italia, molti dei quali hanno la faccia tosta: si risposano per la seconda, terza e quarta volta e pretendono pure la bustarella! E poi non ha ragione zia Concettina a starnazzare: “Il mio dovere l’ho fatto al primo matrimonio. Mmo’ basta”.
Scampato il pericolo della lista nozze, le alternative sono due: riciclare un vecchio regalo inutile, trafugato da qualche altra ricorrenza oppure donare i soldi agli sposi in sei comode rate.
Povero papà mio, meno male che non legge i miei articoli, altrimenti creperebbe dalla vergogna. Casomai salirò all’altare, ho già la soluzione: matrimonio “sponsorizzato” da piccole aziende agroalimentari locali,  senza dover chiedere niente a nessuno, con la speranza di poter scrivere con una bomboletta spray: “…E vissero felici e contenti”. O quasi!

Castellammare dice no alla minigonna. E la cintura di sicurezza?

Ci risiamo. Quando tira aria di ridicolo proibizionismo in Italia, mi scatta la risata facile. Castellammare di Stabia fa la bigotta e dice no alla minigonna. Insomma, il comune senso del pudore del falso Belpaese democristiano ritorna nella città campana: al di là che si mortifichi un simbolo socio-politico del movimento femminista, non mi sembra che un bel paio di gambe in vista possano essere la nostra preoccupazione. Una scelta per offrire più sicurezza alla comunità dai maniaci o dagli eventuali guardoni?
L’ultima volta che sono passato da quelle parti, ovunque mi girassi c’erano persone in auto senza la cintura di sicurezza. Niente di nuovo, perchè a Napoli e dintorni è un optional e chi la mette viene pure considerato  “il fesso della situazione”. Anzi, di recente ho scoperto l’ennesimo escamotage per evitare “il fastidioso suono” delle auto di ultima generazione che ti ricorda di metterla. Il Bip-Stop,una linguetta che si infila al posto della cintura, dovrebbe essere venduto esclusivamente a chi è esente  dall’obbligo di indossarla (Articolo 172 del codice della strada). Peccato che ogni napoletano che si rispetti ha la sua coppia di questo curioso aggeggio e poi infila la cintura soltanto in prossimità del posto di blocco. A questo punto mi chiedo: è più pericoloso un esercito di automobilisti  che non si attiene alle normative di sicurezza o uno squadrone di belle ragazze in minigonna? 
Ecco come alcune forme di censura si tramutano in buffonate, per l’appunto. Da bambino, per qualche anno, volevo fare il vigile urbano. Se si fosse avverato il mio sogno,  mi metterei a caccia di tutti gli strafottenti che non hanno capito l’importanza della cintura di sicurezza, ma fischierei a go go tutte le ragazze in minigonna, sperando di non perdere il posto di lavoro.

Terzigno e la Grande Guerra della Monnezza

Chi voleva strafare con il matrimonio alla napoletana sceglieva uno dei locali kitsch di Terzigno, portandosi appresso mamma e papà che dovevano mettere mano al portafoglio. Adesso il paesotto campano assomiglia sempre più a Baghdad e Kabul perchè quei tric trac, coreografia di questa guerriglia della monnezza,hanno il peso di una bomba e delle grandi abbuffate nessuno se ne ricorda più. Sarà pure la solita illusione ottica, ma le avance in stile democristiano non sembrano far presa sul popolo infuriato. Non lo hanno capito ancora il Governo, le Istituzioni e il fedele Bertolaso, la cui preoccupazione è ridurre al minimo la figuraccia che stiamo facendo con l’Europa. E il ministro Maroni cosa fa? Avanza col pugno di ferro.
La rivolta dei cassonetti di Terzigno, che sta accendendo altre micce in Campania, va oltre il tentativo di evitare sul territorio la seconda discarica.E’ piuttosto uno sfogo collettivo dopo questa depressione cronica che ha contagiato Napoli e provincia: si legge sulle facce della gente, si respira un’aria pesante nei negozi e il dramma disoccupazione è di scena dappertutto . Quando ritorno nel mio Sud, mi sembra di attraversare un’altra nazione. Io non ci sto più, così come non mi sta bene leggere titoli sensazionalisti del tipo “Perché la regione Lombardia funziona e la Campania no”. Ricordiamo che, come ripeteva il saggio Totò, al di là del Po “la nebbia c’è, ma non si vede”. Il business della monnezza è così florido da sostenere le economie locali da trent’anni a questa parte. Qui non si tratta di spostare una discarica da una zona all’altra, ma rincorrere una coscienza collettiva, dolorosamente inesistente. Dopotutto nel coro dei manifestanti c’è pure chi un tempo si era tappato il naso perché ogni sacchetto di spazzatura andava a peso d’oro e l’emergenza rifiuti poteva attendere.
E adesso chi lo dice alle vecchiette, che passano scalze a Terzigno per raggiungere il vicino Santuario della Madonna di Pompei, che siamo stanchi perché i miracoli del nostro Mezzogiorno sono opera di quei quattro gatti che si spacciano per stregoni, santoni e illusionisti? Tornino pure le spose ciacione ad affollare i ristoranti pacchiani di Terzigno, ma senza il terrore che il candore dell’abito bianco sia macchiato dalla deplorevole e presuntuosa convinzione che questa volta Napoli debba spicciarsela da sola. Come si fa con una classe dirigente fantasma?

Simona, l’educatrice tenace dei Quartieri Spagnoli

Un mese fa sono tornato a Napoli e ho fatto un giro nei quartieri Spagnoli. Ho pubblicato un post ed ero convinto di essermene tornato a mani vuote. Invece lei era nel palmo della mia mano, con un sorriso, la voglia di vivere, tanta tenacia. Simona fa l’educatrice ed ha lasciato un commento al mio post che mi ha fatto riflettere, facendomi sentire un po’ “vigliacco” per aver mollato la mia terra. Come è accaduto per un’insegnante, Tania, ho voluto che anche Simona entrasse in questo blog dalla porta principale e facesse sentire la sua voce:

“Sono un’educatrice dei Quartieri Spagnoli di Napoli, nel web ho trovato il tuo articolo e ci ho sorriso su. Ho sorriso forse per non piangere. Sono nata nei Quartieri Spagnoli, adesso vivo in provincia di Napoli, ma sui quartieri ci sono tornata da educatrice, perchè se non avessi avuto una situazione familiare diversa vivrei ancora li ed ascoleterei Natale Galletta invece di Claudio Baglioni.
Ci sono tornata da educatrice, con l’associazione QUARTIERI SPAGNOLI. In via Trinità degli spagnoli ci occupiamo del progetto di educativa territoriale: curiamo circa 70 bambini della zona, che seguiamo a scuola e dopo la scuola per combattere la dispersione scolastica tasto dolente sui minori napoletani. Li sosteniamo nei problemi che hanno in famiglia o situazioni di disagio personali. Per tutti loro siamo un punto di riferimento, un modello “diverso” da seguire.
Chi lo sa che non abbiamo più
una struttura per lavorare? Svolgevamo le nostre attività in un centro di aggregazione adolescenti “palazzetto urban”, struttura offerta ad alcuni abitanti di una palazzina che stava per crollare. Gesto ammirevole, ma il Comune non si è degnato minimamente di ridare anche a noi una location per continuare a svolgere le nostre attività.
Le scuole sono ormai riaperte, tanti ragazzi che abbiamo seguito per i tre anni della scuola secondaria di primo grado hanno deciso di non continuare gli studi e noi non possiamo fare nulla per seguirli.
Come leggo, tu  hai scelto di vivere a Milano, non so quante volte ho pensato di andare via, di “emigrare” dicendolo alla maniera di Troisi. Qui il mio lavoro non è capito nemmeno dalle istituzioni. Tra qualche anno sarò costretta ad andar via anche io perchè si sa, su al Nord è diverso. Dovrò lasciare la mia famiglia, i miei affetti più cari, i miei scugnizzi, dopo aver sostenuto 40 esami universitari, aver lavorato nelle condizioni più assurde: ho sostenuto anche turni lavorativi di 24 o 48 ore in una comunità educativa pur di fare “curriculum” per una retribuzione mensile di 450 euro (questa è la situazione lavorativa vissuta prima di lavorare per la mia attuale associaizone), per non essere la laureata novella senza esperienza che si aspetta il lavoro d’ufficio. Faticavo di giorno e studiavo di notte per mantenermi gli studi, accumulavo esperienza e formazione, ma a nulla è valso. L’educatore a Napoli è una figura fondamentale, non riconosciuta. La situazione in  Regione Campania è tragica, continuano a dirci che “tanto denaro è stato gestito male” e gli addetti ai lavori devono risparmiare tagliando quindi sul Sociale. Non veniamo pagati per mesi e mesi,se non grazie all’associazione che con grandi sacrifici ci anticipa parte dello stipendio. Dicono di voler far rinascere Napoli, che il terzo settore è importante, che il futuro è dei giovani ma se non aiutano noi, che ci occupiamo dei bambini di Napoli, quelli che saranno i futuri uomini che popoleranno la Napoli del domani, cosa si aspettano?”

Simona V.

Angelo Vassallo, il Sindaco eroe ritornato a fare “il pescatore”

Nel Cilento vi ho trascorso delle estati meravigliose. Quasi probabilmente, mentre io ero in spiaggia alla prese con i miei castelli di sabbia, lui era lì sulla sua barchetta. Quante volte avvistavo all’orizzonte i pescatori, al largo con le loro reti che tornavano a casa col pesce fresco. Angelo Vassallo lo faceva per passione perché sia sa che dialogare col mare non è da tutti. Ed è lo stesso entusiasmo che lo  ha trasformato in Sindaco, con un impegno e costanza tali da diventare un punto di riferimento per la comunità di Pollica. Niente teatrini politici, niente bagarre, ma una lista civica che ha convinto tanti a battagliare al suo fianco. Chi lo ha lasciato solo quando sette colpi di pistola lo hanno freddato senza pietà?
C’è un contrasto paradossale tra l’opposizione del “Sindaco pescatore” alla Camorra e la lettera aperta ai vertici di Gomorra, diffusa alcuni giorni prima della sua morte dai dipendenti dei consorzi di Napoli e Caserta per la raccolta differenziata: “Se lo dice Saviano e la stampa la camorra nei rifiuti deve essere un fatto vero. Ci rivolgiamo a voi noi, che, seppur indirettamente, stiamo lavorando per voi”“Mafiosamente vostri” – così si concludeva la missiva in cui si chiedevano alla Camorra più lavoro e aumenti di stipendio –  è un’espressione in netto contrasto con la bara che venerdì scorso ha attraversato Acciaroli. C’erano seimila persone a dare l’ultimo saluto ad Angelo.
Mi chiedo chi siano i più coraggiosi: il bagno di folla che speriamo non dimentichi o quel mucchio di lavoratori, che ha infangato con quella lettera il sacrificio del “martire del Cilento”? La mia convinzione è che in quella cassa di legno non ci fosse il corpo del Sindaco ammazzato. Qualcuno ha avvistato una barca nel mare calmo del Cilento. A bordo c’era un uomo, ritornato a fare il pescatore, per lasciare un segno di coraggio, umiltà e determinazione.