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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Diario di viaggio: ritorno sui Quartieri Spagnoli

Tornare da viaggiatore nella propria città a fine agosto non so se sia un privilegio o uno svantaggio. Da una parte paghi lo scotto di sentirti un girovago nella tua terra natia, ma dall’altra il tuo sguardo si posa su particolari che prima ti sfuggivano. Napoli è Napoli, ma recarsi su i quartieri Spagnoli è un modo come un altro per tracciare le origini. Certo che questa zona – nel XVI secolo diede non pochi grattacapi al vicerè Don Pedro di Toledo alla prese con malavita e prostituzione – resta una delle aree più seducenti del capoluogo campano. I buoni consigli di mia madre erano “non ti avventurare nei quartieri”, ma io nei primi anni ’90 percorrevo anche al buio via Montecalvario per arrivare a Galleria Toledo, dove mi aspettavano gli spettacoli di Annibale Ruccello, Enzo Moscato e Francesco Silvestri. Una volta ci sono finito per sbaglio pure con la mia prima auto, una 127 bianca, ed è stata un’impresa uscirne.
Ritornarci adesso ha avuto un valore diverso, ripercorrendo quelle strade che non ti capitavano mai sottomano, da via Speranzella fino all’arrampicata di via de Deo, che con disinvoltura volge lo sguardo verso il corso Vittorio Emanuele. Il terrore di tutti: attenzione che adesso arriva lo scippatore di turno! A me nessuno ha messo mai un dito addosso, sarà perché camuffo la mia parlata, sarà perché gioco a fare il pazzariello ambulante che stona vecchie canzoni napoletane. Anche qui le cose sono cambiate: diverse attività commerciali sono gestite da extra-comunitari, in giro ci sono pochi “femmenielli” e dai bassi spuntano gli sguardi spioni di donne di colore. Vincenzo è seduto sulla sua seggiola e fuma l’ultima sigaretta prima del pranzo: mi racconta dei sette figli e dei nipotini; degli sforzi fatti per tenerli lontani dalla malavita (il suo motto è “amico ‘e tutti, ma ‘a distanza ‘o mumento juste”); dei nuovi scugnizzi che rinunciano alle vacanze, fanno i fancazzisti e se ne vanno a giocare al Bingo nei pressi di piazza Carità; dei cinesi che hanno preso in pugno il controllo delle attività clandestine; degli affitti che sono arrivati alle stelle: “Dottò, e mmo mettene ‘a dieci nire dinto e fanne ‘e sorde”. E poi dopo, con aria sospettosa, mi chiede se sono un investigatore privato.
Io sorrido e la butto sull’ironia: “Don Vincé, se fossi un investigatore non sarei uno squattrinato”.  Mi guardo intorno, alzo la testa e mi soffermo sulle lenzuola stese, su i balconi, sulle finestre semichiuse, chiedendomi il perché lì sotto non ci sono mai capitato. Forse venti anni fa sarebbe stato diverso, avrei incontrato altra gente. Prendo una bottiglia d’acqua fredda da un fruttivendolo e da una radiolina una voce canta: “La paura di dividerci per niente, anche fermi volavamo con la mente”. Chiedo alla signora se si tratta di Gigi Finizio, cantante partenopeo molto seguito da quelle parti. E lei mi chiama l’esperta della famiglia, una ragazza prosperosa di una ventina d’anni, che mi rimprovera: “Vuje ‘e musica nun capite niente. Chiste è Natale Galletta, l’idolo mio. Jate ‘ncopp ‘a Youtub…”.  Così scivolando via, mi sono portato come souvenir il motivetto neomelodico di “Vivi”. E pensare che c’ero andato per prendermi qualcosa che credevo fosse mio, invece sono arrivato troppo tardi. Tutto cambia, ma per restare come prima.

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Federico e la Cicogna, in viaggio verso la vita

La cicogna uscì di buon mattino quella domenica di giugno. Venne giù dalle Dolomiti e il tempo era poco propizio. Il suo viaggio iniziò tra fulmini, temporali e acquazzoni. Appena il bambino le starnutì in faccia, lei sorrise: “Non preoccuparti Federico, entro le nove di domani mattina sarai tra le braccia di tua mamma”. Fino alla Toscana tutto filò liscio, ma il primo contrattempo spuntò ad Orvieto dove fu fermata dai carabinieri per aver bevuto un bicchierino di troppo. E la mamma da Napoli replicò: “Azz !!! Alza pure il gomito ‘sta cicogna! Speriamo che non arrivi tutta ‘mbriaca”. Alle porte del Lazio, la cicogna e il bimbo dovettero fare un atterraggio di emergenza perché pioveva a dirotto. E la mamma tirò un sospiro di sollievo: “Meno male, va’! Così mi dà il tempo di organizzare le ultime cosette”.
Dopo aver ripreso la sua missione, nei paraggi del raccordo anulare di Roma, la cicogna fu multata per eccessi di velocità. E il papà di Federico urlò, facendosi sentire da tutto il palazzo: “Non mi mandate le multe, che io non le pago!”. Arrivata in Campania, cambiò direzione improvvisamente, dirigendosi verso Mondragone. Si fece afferrare per pazza: “Prima della consegna, una mozzarella di bufala non me la toglie nessuno”. Pochi istanti dopo, si fece consigliare dalla ragione, facendo un’inversione verso Sessa Aurunca: “E se mi viene il cagotto dopo tutta ‘sta burrata che ho mangiato stamattina prima di partire? – disse tra sé e sé – Rinuncio alla mozzarella”.
Dopo una luna sosta al passaggio a livello di Villa Literno – era incazzata nera perché il treno locale Roma-Napoli l’aveva superata – sorvolò il litorale domitio e svolazzò beata tra Cuma e Pozzuoli. Anzi, per fargliela pagare a quel maledetto autista indisciplinato, lasciò che il bimbo gli facesse addosso una piccola “cacatella”.
Giunta sul Vesuvio, dopo esserci incantata planando sul Golfo di Napoli, trascorse  lì l’ultima notte assieme a Federico. Poi gli sussurrò: “Ricorda che non sarà il posto dove nascerai a fare la tua persona. Al di là dell’amore delle persone vere che ti saranno accanto, sarai sommerso da tante ipocrisie. Ti sbaciucchieranno in tanti che si credono poeti e invece sono dei miserabili; o quelli che si fanno chiamare Maestro e invece sono dei sepolcri imbiancati; quelli che avranno la presunzione di dirti cosa devi fare. Tu ascolta solo la voce del tuo cuore, della tua coscienza. Viaggia e conosci. E spero che questo viaggio condiviso ti resti addosso, anche quando ti affaccerai alla vita. Caro Federico, questo è il mio ultimo viaggio, vado in pensione. Sono invecchiata anche’io. Non ti dimenticherò mai. E spero che quando un giorno diventerai papà e la tua amata aspetterà la cicogna, ti ricorderai della tua Rosilde. Sì, io mi chiamo Rosilde ed ho portato a destinazione centinaia di bimbi”.
Dicendo queste bellissime parole, la cicogna fece il passaggio di consegna, affidando il bimbo a Martin, il suo angelo custode. Poi, alzand0 lo sguardo al cielo, disse: “Signore, il mio ultimo viaggio è stato compiuto. Dona alla mamma di questo bimbo la forza per allevarlo, consegna nella mani del papà la costanza di sostenerlo in qualsiasi momento. E a me,cicogna da una vita, fammi ritrovare sulla via del ritorno tutti quei bimbi che in questi 32 anni ho consegnato”. La cicogna ripartì e il buon Dio ordinò all’angelo custode: “Vai Martin, è giunta l’ora. Spingilo verso la vita e fallo diventare un bambino vero. E’ lui Federico!”. Martin Rispose: “Signore, l’anestesista è in ritardo. Cosa faccio?”. E il Signore irritato replicò: “A Napoli mi fanno sempre diventare furibondo. Negli ospedali è sempre la stessa storia”. Federico è nato il 21 giugno poco dopo le 10 e sul viso aveva il sorriso dell’estate. Mentre la cicogna Rosilde era in fila all’Inps per verificare i suoi contributi, il buon Dio la fermò: “Non puoi andare in pensione, cara Rosilde. Ho scoperto che sei la stessa cicogna che il 12 aprile di tanti anni fa consegnò Ada, la mamma di Federico, ai suoi genitori. C’è un incantesimo in atto che passa di generazione in generazione. E deve continuare”*.

(*) La fiaba è stata scritta da R. Pipolo in maniera estemporanea e pubblicata a puntate sulla bacheca di Facebook della mamma di Federico Luigi dalle 19.43 del 18 giugno alle 10.15 del 21 giugno 2010.

Street food, mangiare per strada costa poco?

Lo street food è così anglofono da farci dimenticare che l’usanza di mangiare per strada, all’impiedi, l’hanno inventata i Romani. Roba di altri tempi insomma. Il fascino del cibo di strada rappresenta il nutrimento di quei piatti popolari, che non mangeresti mai seduto a un tavolo: un calzone fritto napoletano, le arancine palermitane o una focaccia genovese, dove sta scritto che devono essere servite come “il caviale”? Ho avuto questa sensazione quando sono passato nella succursale milanese dell’ Antica Focacceria San Francesco. A Palermo mi inzozzavo le mani con panelle e panino con la milza, e a Milano mi sono ritrovato gli stessi sfizi popolari su un vassoio d’argento. E se in piena notte ho voglia di pane caldo, devo svuotare il portafoglio? Basta andare da Princi per confermare che “acqua, farina e lievito” sono beni di lusso. Senza andare troppo per le lunghe, lo street food è diventato roba da “fighetti” e così il corrispettivo partenopeo “frijenno e magnanno” è sull’orlo del salasso. Per fortuna a Napoli e a Palermo di cibo di strada ce n’è ancora parecchio e a prezzo popolare, mentre a Milano bisogna ingegnarsi. Magari ti trovi nei pressi di Lambrate, ed ecco l’apparizione: Pizza Mundial in piazza Bottini, aperta dall’alba fino a notte fonda, dove ci sono tante stuzzicherie anche a meno di 1 euro. I lumbard di palato fine non lo apprezzano perchè non hanno capito che “lo street food” va consumato e condiviso senza snobbismi, bon ton e, soprattutto, senza eccessi di tasca!

Jamme Ja, lettera aperta a Nino D’Angelo

Caro Nino,
ti scrivo questa lettera e mi scuso anticipatamente per l’approccio informale, che mi porta a darti del “tu”. Dare del “lei” a chi viene ed è rimasto sempre tra le gente mi sembra davvero inopportuno.  Ho apprezzato la tua polemica contro l’inciucio del Televoto al Festival di Sanremo. La tua canzone non meritava di essere eliminata. Per noi partenopei qui al Nord, “jamme ja” è diventato una sorta di sfottò bonario , che accompagna il nostro entusiasmo, il nostro parlare in faccia. E tu sei uno dei pochi in Italia che può permettersi di parlare senza peli sulla lingua. Chi ti etichetta come il ragazzo col caschetto che si veste con “‘nu jeans e ‘na maglietta” si è perso l’album decisivo della tua svolta: Stella ‘e matina. Enzo Ghinazzi, in arte Pupo, deve perdonare la mia arroganza napoletana, ma quel pezzo non doveva proprio arrivare all’Ariston così come la tua Jamme ja non aveva bisogno di sottotitoli, perchè il sound la riportava direttamente ai tempi di Stella ‘e matina, quando l’ondulazione musicale rendeva più corposo il messaggio della parola. Siamo riusciti a liberarci delle fantomatiche schedine del Totip, quelle che decretavano i vincitori a Sanremo negli anni’80, e adesso vuoi vedere che non ci riusciamo con questo maledetto aggeggio elettronico chiamato Televoto? Il Business più del valore artistico? Il festival è finito, le polemiche si smorzeranno e noi staremo punto e a capo l’anno prossimo. Ti chiedo: perchè non può partire da te e da altri tuoi colleghi la battaglia verso questo modo scandoloso di scegliere una canzone? Sì, proprio da te che hai riportato in auge il vecchio teatro Trianon nel cuore della città di Napoli. La canzone napoletana è alla radice della canzone italiana, e tu che ne sei portavoce in Europa e nel mondo dovresti prendere in considerazione questa provocazione. Caro D’Angelo, per fortuna i nostri Principi sono altri, quelli come Totò, che hanno guidato il popolo nell’unica corte che dà un senso alla nostra esistenza, vicino alla filosofia eduardiana e non di certo a quella dei Savoia: il palcoscenico.

Da recapitare a
Nino D’Angelo
c/o Teatro Trianon Viviani
piazza Vincenzo Calenda 9
80139  Napoli

iPad, Apple e la nuova frontiera del giornalismo on line

Fino all’altro ieri Apple era un brand di nicchia. Ieri ha imposto una filosofia di vita tra iPod e iPhone. Oggi l’iPad (499$), il tablet touchscreen del profeta  Steve Jobs, trasforma Apple in una religione monoteista con un comandamento che non si discute: “Non avrai touchscreen all’infuori di me” perchè le altre due divinità, IBM e Microsoft, sono state cancellate dalla Bibbia dell’informatica. Quella dell’apostolo visionario Jobs è stata una crociata e l’iPad, a metà tra un iPhone e un notebook, potrebbe essere la rivoluzione di Gutenberg del XXI secolo. Infatti, il “giocattolo diabolico”  accelererà la disfatta dell’editoria tradizionale e aprirà una nuova e più pericolosa frontiera del giornalismo on line. Dico più pericolosa perchè sarà, nell’ottica degli addetti ai lavori, un vera e propria macelleria. Quale mercato o futuro avranno i giornalisti che si sono interstaditi a demonizzare Internet e a condannare blogger e colleghi, che hanno trasclocato sul web una decina di anni fa? Facciamoce una ragione: la carta stampata è già un feticcio romantico e sentimentale. Ora sono gli editori a correre dietro alla Apple – come si inserirà Google in questa rivoluzione copernicana? – perchè nessuna testata potrà rinunciare ad adattare le dimensioni allo schermo del tablet magico. La nuova frontiera frutterà a Murdoch il naufragio più rapido verso “la notizia a pagamento” e di certo gli editori italiani non se ne staranno a guardare, facendo finta di niente. Mi sono laureato nel 1998 e  la proposta di una tesi on line ha fatto innervosire il Preside di Facoltà. L’ho fatta franca e mi sono presentato con un desktop ingombrante a supporto delle mie convinzioni sull’evoluzione dei contenuti sul web. Se mi fossi laureato quest’anno, avrei chiesto a Steve Jobs di farmi da sponsor, per consegnare un iPad ad ogni membro della commissione. Cosa sarebbe stato leggere e commentare quelle trecento pagine di carta su un touchscreen! Pura stregoneria? Forse allora.

Piazza Fontana, quel lunedì dopo di 40 anni fa

Passando ieri in tram per piazza Fontana a Milano, non ho pensato al giorno della strage, ma a quel lunedì dopo. Di quel venerdì 12 dicembre 1979 ricordo solo il mio televisore in bianco e nero che vomitava immagini e parole. Eppure il lunedì dopo, al mio ritorno a scuola, mi è rimasto impresso il volto spaurito delle maestre. Milano era distante da Napoli, ma quella tempesta terroristica arrivò fino da noi, che vivevamo l’incubo delle stragi metropolitane della Nuova Camorra Organizzata. Il capitolo relativo a questa “strage di Stato” resta il più buio e il più zozzo nella storia del nostro Paese. I soliti bla bla bla e cerimonie commemorative non risollevano i parenti delle vittime, che morirono per colpa di quell’ordigno piazzato di fronte alla Banca dell’Agricoltura di Milano. Quanti di noi avvertono un senso di vergogna e di oltraggio al senso civico, dopo una sentenza che non condanna nessuno e getta gli scheletri nell’armadio? La grande beffa è scritta alla fine della nostra triste storia negli anni della “strategia della tensione”: i parenti delle vittime sono condannati “per legge” al pagamento delle spese processuali. E’ stato scritto troppo su piazza Fontana e sono legittimi le contestazioni e i fischi che hanno animato la cerimonia commemorativa.  Questo lunedì dovremmo invitare tutti gli insegnanti a parlarne ai nostri ragazzi. La “mia scuola”, nei primi anni novanta, mi negò un confronto su questo evento contemporaneo, per non rinunciare a quelle noiose ore di greco e latino, in nome del rigido copione che mortifica “il pensiero” e “redime” il nozionismo. I miei professori non sono stati all’altezza di misurarsi con i misfatti della storia!

Napoli, la storica pizzeria Triunfo divorata dai cinesi!

Un altro trauma dopo il mio recente ritorno a Napoli. Avevo voglia di una pizza accartocciata e così mi sono diretto da Triunfo nella Duchesca. Stranamente non sentivo il solito profumo. Al posto della storica pizzeria dietro al vecchio Tribunale di Napoli, sono spuntati una coppia di cinesi che vendevano la solita accozaglia. Credevo di aver sbagliato vicolo! E’ stato un signore del quartiere a confermarmi che la saracinesca di Triunfo si era abbassata per sempre. Il figlio non ha voluto continuare l’attività del padre e pare che se ne sia andato in Corea dopo aver venduto agli orientali. Pizza o calzone fritto, da Triunfo dovevi fare la coda a qualsiasi ora e faceva gola pure agli animali: una volta c’è mancato poco che un cane azzannasse un pezzo della mia Margherita fumante! Pure chi veniva dalla provincia – che magari di Napoli sapeva ben poco – conosceva quell’angolo, a pochi passi dalla Ferrovia. L’ultima volta che ci sono passato, invece dei soliti operai o muratori con cui condividevo la pausa pranzo, ho parlato di pizza fritta con marocchini e algerini. Segni che i tempi cambiano e che il fenomeno dell’immigrazione porta nuovi risvolti. Questo paradiso gastronomico della Napoli popolare andava salvaguardato. E adesso chi glielo dice alla buonanima del mio bisnonno, Francesco Mautone, che Triunfo non c’è più? Quella pizzeria che ha sfamato più generazioni  della mia famiglia, anche quelli come il nobile ed elegante Francesco che, nella Napoli degli anni ’20, non privava i suoi figli del piacere di “leccarsi le dita” dopo una buona pizza mangiata con le mani!

Napoli, giù le mani dal mercato della Duchesca!

Ogni volta che torno nella mia città, Napoli, trovo qualche triste novità. Il leggendario mercato della Duchesca a piazza Mancini, alle spalle della statua di Garibaldi, è stato rimosso per costruire un parcheggio. Avevo 13 anni, la prima volta che mi sono spinto da solo tra quelle bancarelle. Di nascosto dai miei genitori, si intende. Mi avevano detto che in quel meraviglioso bazar partenopeo avrei potuto trovare a poco prezzo i videogiochi per il mio Commodore 64.  Con i miei risparmi in saccoccia arrivai alla Duchesca ed è lì che scoprii il piacere della “contrattazione”. Il Comune di Napoli cancella un pezzo di storia per combattere l’abusivismo dei venditori ambulanti. In una città che convive con la sindrome  dell’irregolarità, questa risoluzione mi sembra più una presa di posizione da “sceneggiata”. I venditori abusivi ci sono ancora, ai lati delle transenne del cantiere della Duchesca, e quei pochi “regolari” si sono spostati verso Porta Capuana, ma non riescono a ritrovare una giusta collocazione. A Milano il trascloco della storica  Fiera di Sinigaglia a Porta Genova ha decretato la morte lenta di un altro mercato storico. Fatelo pure questo benedetto parcheggio e in fretta! Ridate a Napoli lo storico mercato della Duchesca, mettendo in regola tutti i venditori e restituendo ai napoletani e ai turisti il piacere di tornare a fare shopping con la borsa del “folclore” e la maschera dello “scugnizzo”.

Io odio il lunedì perchè Pasquale Mautone se ne andò senza preavviso!

Stazione di Napoli - Cavalleggeri d'Aosta

Rosario PipoloMafalda, il personaggio a fumetti di Quino, odiava la minestra. Io odio il lunedì e non è mai stata una novità: come è pesante l’inizio della settimana! Questa mattina mi sono svegliato e ho visto che il 9 novembre cade di lunedì, proprio come diciassette anni fa. Quel lunedì non avevo impegni, non erano iniziati neanche i corsi all’università. L’unico appuntamento in agenda era imparare a declinare il dolore. Mi recai in un ospedale nel centro di Napoli e lui era disteso lì: immobile, non respirava, il viso pallido. Me ne andai, fiondandomi diritto in viale Cavalleggeri d’Aosta. Ero disperato. Chedevo a chiunque del quartiere se avesse visto passare un signore sulla settantina, capelli brizzolati, occhialuto, baffi. All’edicola sotto casa dissi che si trattava dell’uomo che tutti i giorni intorno alle 10 acquistava il quotidiano Il Mattino; a Pino il salumerie che era il tizio, nonostante l’ipertensione, che non avrebbe mai rinunciato ad una manciata di sale; al giocattolaio che era il tipo che tutte le domeniche mi comperava un paio d’occhiali da sole; a don Luigi, il portiere del numero 119 di Cavalleggeri d’Aosta, che era Pasquale Mautone, il condomino del  sesto piano. Nessuno seppe dirmi niente. Salii sopra e la casa era tremendamente vuota. Era vuota la sua poltrona, si era fermato l’orologio a pendolo che aveva scandito il tempo delle sue giornate; persino la stufa non sbuffava più. Fu in quel preciso istante che fui scaraventato a terra dal dolore e, ricordandomi che fosse lunedì, mi balzò in mente una sua riflessione: “Detestavo il lunedì. Svegliarmi con il terrore che non avrei venduto neanche un maglione.  Caricare sull’auto il bancone e avere a che fare con i clienti”. Corsi alla stazione della metropolitana di Napoli – Cavalleggeri d’Aosta. Mi risollevai quando sentii il fischio di una locomotiva e mi ricordai di quando mi portava a guardare  i treni: “Nonno – gli ripetevo – Voglio crescere adesso. Voglio partire su quel treno e vedere dove finiscono i binari”.  Ho percorso migliaia e migliaia di chilometri su quei binari. E non bisognava fare il ferroviere per capire che il dolore per la perdita di una persona speciale ti resta tatuato tutta la vita.

Margherita Buy e l’attesa di “Lo spazio bianco”

la locandina di "Lo spazio bianco"

Rosario PipoloAl cinema a Margherita Buy le appiccicano sempre il solito clichè: quello della “sfigata”. E questa tendenza me la ricordo fin dai tempi della sua partecipazione al film Fuori dal mondo di Giuseppe Piccioni. Stessa cosa accade nella nuova pellicola di Francesca Comencini Lo spazio bianco, tratta dall’omonimo romanzo di Valeria Parrella. Tuttavia, qui è passabile perchè la Buy è davvero convincente nel ruolo di questa mamma che deve attendere mesi per sapere se la sua bimba, nata prematuramente, riuscirà a sopravvivere. Non vi aspettate il solito cinema al femminile con quei luoghi comuni melodrammatici. Il taglio della Comencini è quasi “documentaristico”, asciutto e asettico, sospeso nel vuoto. Persino Napoli, città-sfondo della storia, è irriconoscibile senza stereotipici e la colonna sonora dalle intrusioni jazz è azzeccata. Lo spazio bianco mi ha riportato a riflettere su un anello ricorrente della nostra vita: l’attesa. Ogn giorno ci viene chiesto di attendere e “sapere aspettare” è davvero un dono. E non venite a dirlo a me che sono impaziente per natura!