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Julian canta “Imagine” di papà Lennon solo per l’Ucraina?

Quante mani dovrei chiedere in prestito per conteggiare le cover di Imagine, manifesto musicale pacifista di John Lennon e Yoko Ono, spalmate in ogni angolo del pianeta. Se a cantarla però è Julian Lennon, primogenito dell’ex Beatles nato dalla prima moglie Cynthia – per la prima volta per giunta – qualche riflessione ci può stare.

IMAGINE PER L’UCRAINA?

La guerra mostruosa in Ucraina e il desiderio di pace hanno bussato alla porta di tanti musicisti. A far da capofila ci sono i Pink Floyd e la loro Hey Hey Rise Up sulla voce del frontman dei BoomBox Andriij Khlyvnyuk. A questa si aggiunge Imagine nella versione di Julian che tappa la bocca alla promessa dello stesso Lennon Junior: “Non eseguirò Imagine fino alla fine del mondo”.
La prima cosa che mi colpì prima dell’intervista a Julian, alla vigilia del Concerto del Primo Maggio del 1998, era la somiglianza fisica con il papà. Il figlio di John Lennon si mostrò garbato, accogliente, senza la superbia che poteva soccorrere le fragilità nascoste dietro un figlio d’arte. In questa cover di Imagine c’è solo di mezzo l’Ucraina?

DI PADRE IN FIGLIO

Forse sì, forse no. L’esecuzione intensa di Imagine di Julian tra le fiammelle accese, in memoria delle vittime della guerra, commuove anche perché nasconde il canto di liberazione di un figlio tra ferite, conflitti e lacerazioni.
Puoi essere o non essere il figlio di una rockstar, ma il dolore ha lo stesso peso quando vedi tuo padre andarsene da casa, cominciare la vita con una nuova compagna e sentirti spodestato affettivamente dall’arrivo di un “fratellastro”. Pardon, oggi questa parola è bannata nel dizionario delle progressiste “famiglie allargate” in cui si sta al gioco di andare d’amore e d’accordo.

LA COVER CHE FA MALE

La cover di Imagine di Julian Lennon non si ferma all’urlo pacifista per l’Ucraina. La rabbia del padre John, che cinquant’anni prima aveva cantato l’abbandono con la durezza delle parole “Mother, you had me But I never had you… Father, you left me But I never left you”, diventa terapia dell’anima nella cover di Julian che sussurra ferite mai chiuse con delicatezza. Qui, infatti, il piano di papà John tace e la musica è consegnata agli accordi di una chitarra acustica.
Chissà semmai i versi “Imagine all the people living life in peace” riscriveranno le parole “Immagina papà e figli vivere una vita vicina e lontana in pace”, senza le burrasche della calma apparente.

Buon Natale, papà. L’ultima lettera di un figlio imperfetto

Buon Natale, papà. L’ultima lettera di un figlio imperfetto è fatta dalla carta ingiallita di una vita insieme e dell’inchiostro dei sogni e delle delusioni di una generazione, la tua, che mi contagiano in questi giorni gelidi: le pedalate sotto gli acquazzoni verso scuola, sulla “via vecchia” con i tuoi compagni di classe, alla periferia di Napoli; la gioventù con “gli amici per sempre” tra Antonio, i Tonino, Pasquale, Nino;  gli anni di lavoro in tuta a spargere elettricità, illuminando paesi e città all’ombra del Vesuvio insieme a colleghi che ti hanno voluto bene come Tommaso e Carlo e di capi come Pietro, pronti a ribadire che l’onestà era la tua medaglia al valore; le battaglie sindacali a fianco di Salvatore prima che il socialismo laico fosse imbrattato dai politici corrotti perché, come mi ha ricordato il prete operaio don Peppino Gambardella, “tuo padre è stato un onesto lavoratore e merita stima e affetto, egli riceverà il premio della sua rettitudine e della sua laboriosità dal Signore giudice buono”.

Buon Natale, papà. L’ulltima lettera di un figlio imperfetto è fatta dei 46 anni di matrimonio con Margherita, lei che ti è rimasta accanto fino alla fine nella buona e cattiva sorte e allora, da ventenne emancipata di città, fece tremare la lunga figliata di provincia e battagliò contro le arroganze e arretratezze della famiglia patriarcale di stampo contadino.
Io e Rossella siamo il frutto di questo amore e la tua paternità, fatta di generosità e cura per la nostra crescita, è stata tra i doni più intensi ricevuti sotto l’albero della vita. Il coraggio te l’ho letto negli occhi per l’ennesima volta qualche mese fa, quando ti sei ostinato a voler salutare per l’ultima volta il territorio a cui sei rimasto legato per sempre, mortificando la malattia, raccogliendo con le ultime forze i frutti dagli alberi piantati da tuo padre quando eri piccino piccino.

Buon Natale, papà. Per tutte le volte che ti ho disobeddito e contrastato in questa mia smania di esplorare la vita, dai tempi in cui dissi no all’ammuffito liceo nel feudo di Maddaloni o alla divisa militare fino alla scelta professionale di fare di biro e inchiostro un mestiere, delegando al Teatro, al Cinema, alla Musica e alla Letteratura i punti cardinali della mia ricerca della libertà.  Ha ragione la mia amica d’infanzia Giuliana scrivendomi: “Tuo padre ti ha fatto un uomo libero”. Sì, mi hai lasciato libero di scegliere anche quando i nostri punti di vista erano completamente all’opposto.
Mi hai lasciato libero di fare della valigia l’imbarcazione per girare il mondo, per andare a vivere altrove, assecondando la mia spudorata convinzione che “le radici hanno le gambe lunghe”.

Buon Natale, papà. Ho recitato fino all’ultimo istante il ruolo del figlio distaccato, perché mai avrei voluto trattarti con la compassione per un ammalato. Sono riuscito fino ad oggi a conservare le lacrime. Le userò in futuro per annaffiare la terra sotto i piedi in qualsiasi parte del mondo mi troverò, facendo germogliare i fiori dei tuoi insegnamenti e, al tempo stesso, facendoti irritare come allora tutte le volte che continuerò a denigrare la maggior parte dei parenti come inutili suppellettili; a beffeggiare la provincia con i suoi riti sociali, le mediocrità e l’ostentazione del vivere per apparire; a difendere quel malsano egoismo individualista per smontare i patriarchi e le matriarche che vorrebbero la famiglia una fradicia prigionia per ridurre noi anime libere a propria immagine e somiglianza.

Buon Natale, papà. L’ultima lettera di un figlio imperfetto non giace sotto il piatto di un tavolo natalizio, ma nel taschino della tua tuta da lavoro, che non smetterò mai di sentirmi addosso sotto la giacca e cravatta. Oggi che vedo l’albero di Natale spento, senza la tua santa pazienza a rimettere apposto quelle lucine, e non ti trovo in stazione, in aeroporto, ovunque ad aspettarmi, mi consola la speranza che un giorno accadrà: ti ritroverò all’ultima fermata della mia vita e non avremo più il peso del bagaglio degli affanni umani.

Buon Natale, papà e perdonami per essere stato un figlio imperfetto. E’ stata la mia strada per volerti bene, a modo mio, salvaguardando la saggia affermazione di un miscredente portoghese che, dopo un prodigio nel piccolo villaggio di Fatima, dichiarò ai miei colleghi cronisti di un secolo fa: “Solo gli sciocchi pensano che Dio non esiste”.

Il 1° maggio nella tuta da lavoro di papà, amico dell’Uomo Ragno

Rosario PipoloDa bambino accostavo il 1° maggio, festa dei lavoratori, ad un indumento: la tuta blu che tutte le mattine mio padre si infilava per andare a lavoro. Provavo per quella tuta una sorta di amore e odio.
Da una parte mi piaceva, perché faceva assomigliare papà ad uno dei Fantastici 4; dall’altra la detestavo, perché me lo portava via e non mi restava che la sera per trascorrere del tempo con lui.

Mi raccontava di cosa faceva al lavoro con dei buffi scarabocchi, improvvisati al momento con una biro rossa e nera. All’alba dell’infanzia identificavo il lavoratore con papà che, nella mia visione, era un supereroe: si arrampicava sui tralicci, più alti del condominio dove abitavamo, e portava l’illuminazione ad intere città. Per non farla lunga, mi convinsi che papà era “amico dell’Uomo Ragno”, anche se lui stesso non ne faceva un vanto.

Ricordo una domenica notte di dicembre. Ci fu un nubrifagio che colpì parte del mio territorio, restammo senza luce e corrente elettrica per quasi due giorni.  Papà uscì di notte per l’intervento di emergenza e non si ritirò nei due giorni successivi. Ero spaventato. Nonostante fossi rassicurato dal fatto che papà fosse uscito con il suo casco giallo, dall’altra chiedevo al pupazzetto dell’Uomo Ragno di proteggerlo perché “da amico” doveva stargli vicino.

Fu a quel tempo che iniziai a percepire la minaccia degli incidenti sul lavoro.  Ho conosciuto diversi coetanei della mia generazione che non hanno visto tornare più il papà, perchè caduti da un’impalcatura e finiti nella tragica lista delle morti bianche.

Nel 2013, in occasione di una presentazione del mio romanzo nella zona in cui aveva lavorato papà, conclusi una lettura tenendo in mano la sua tuta blu. Fu un modo per ricordare  i tanti lavoratori che non sono tornati più a casa ad abbracciare i figli, con cui oggi voglio condividere il significato e l’essenza di questo 1° maggio.

A quarant’anni sono convinto ancora che mio padre sia “amico dell’Uomo Ragno”, con la differenza che dietro la la tuta del supereroe della Marvel si nascondano gli angeli “custodi” che Wim Wenders fece volare sopra Berlino in un film zeppo di suggestioni.

Habemus Papam vicino a Martini: Il gesuita moderato argentino Jorge Mario Bergoglio

Rosario PipoloL’agognata fumata bianca del primo Conclave invaso dai social network ha fatto sventolare qualche bandiera tricolore di troppo. L’Arcidiocesi di Milano non ha cantato vittoria neanche questa volta. Il cardinale Angelo Scola era troppo schierato con i ciellini per aggiudicarsi l’ambito pontificato dopo le dimissioni del principe Ratzinger. C’è chi ha creduto fino a pochi istanti prima dell’Habemus Papam che dietro la finestra sarebbe apparso un successore in toto di Benedetto XVI. I movimenti conservatori che animano la Chiesa cattolica hanno subìto il contraccolpo perché ad affacciarsi alla finestra c’è stato un gesuita, per giunta per niente Ratzingeriano, per giunta argentino, la cui elezione riscatta la memoria di Carlo Maria Martini. Habemus Papam: è il moderato Jorge Mario Bergoglio, che da arcivescovo di Buenos Aires sale al pontificato con il nome di Francesco I.

Sostenuto dallo stesso Martini al precedente Conclave, la scelta di Bergoglio mantiene da una parte il passo della transizione e dall’altra porge un segnale moderato di cambiamento nella Chiesa dilaniata da scandali, misteri di Vatileaks, abusi sessuali, intrighi di palazzo, complotti della curia, senza menzionare gli scheletri nell’armadio (da Emanuela Orlandi alla Banca Vaticana). Francesco I non sarà il pontefice progressista che qualcuno si aspettava, almeno che non ci siano sorprese lungo il pontificato, ma sarà il Gesuita rigoroso e severo che potrebbe scuotere persino le fogne dei sotterranei vaticani. I bookmaker e i sondaggi hanno fatto l’ennesima figuraccia allontanandosi dai pronostici, ma era qualche decennio che ci aspettavamo un Papa dell’America latina.

Si finisce nell’incappare nel solito luogo comune: Abbiamo un Pontefice di destra o di sinistra? Direi che abbiamo un Papa Argentino che, nella sua terra, si è distinto per aver difeso i poveri e gli emarginati. Sarà dura fargli indossare il mantello e le scarpine da principe. Quando lo hanno annunciato come Francesco I, non ho pensato per riflesso al piccolo grande uomo di Assisi, nonostante il nome scelto indichi chiaramente che Bergoglio farà sentire il profumo di povertà a gran parte della curia asservita dal potere.
Mi è venuto in mente Francisco, il pastorello portoghese che nelle campagne sperdute di Fatima vide un raggio di luce bianca. E forse è la stessa luce che si sforzerà di farci intravedere Jorge Mario Bergoglio, senza le vesti dell’alto porporato, perché dopo duemila anni sopravvive ancora una grande testimonianza. Quella di un “povero tra i poveri”, sfidante agguerrito di principi e regnanti e urlatore, in una zolla del Medio-Oriente, di un principio che non appartiene soltanto ai naufraghi della spiritualità: l’amore è l’unica via che può dare un senso alla nostra affannata esistenza.

Jorge Mario Bergoglio è giunto al Pontificato in punta di piedi proprio come potrebbero essere i cambiamenti che si prospettano. E se così fosse, il Padreterno ci ha messo del suo.

  Il Paradiso può attendere? Il Sudamerica no!

El nuevo Papa es el argentino Jorge Bergoglio

  Addio a Carlo Maria Martini, il Gesuita che avremmo voluto Papa

La Chiesa senza Papa e il fulmine di “Ritorno al Futuro” su San Pietro

Rosario PipoloIl fulmine sul Cupolone di San Pietro, scattato nel giorno delle dimissioni a sorpresa di Benedetto XVI, ha fatto il giro del mondo. Nessun fotoritocco per quell’immagine che involontariamente cita una delle ultime scene del film “Ritorno al Futuro” di Zemeckis: assomiglia al fulmine che riporta Marty e la sua DeLorean nel 1985.

Sembra un confronto inadeguato ma è come se questa saetta lampeggiante, più che rappresentare una sculacciata del Padreterno, segnasse lo sforzo della Chiesa per un “ritorno al futuro”. Da giovedì scorso la Chiesa non ha più il suo Pontefice e, nel sotterfugio della nostra contemporaneità, non si erano viste ancora le dimissioni di un Papa. E’ accaduto. Qualcosa cambierà, anzi è già cambiato.
Ratzinger non è stato il principe del Vaticano che si è guadagnato il consenso popolare e la simpatia di Karol Wojtyla. Mettiamo pure in conto che un tedesco parte in netto svantaggio rispetto ad un polacco. La sua statura teologica non è bastata a reggere un pontificato, dilaniato da scandali e ombre all’interno di una Chiesa, in difficoltà a dialogare con gli stessi fedeli.

Il ritiro dalla scena di Benedetto XVI fa riflettere tutti, dai teologi agli storici, dai dissidenti ai laici. E lascia stupiti persino “i movimenti”, nati tra i cattolici, che si spartiscono consensi tra i progressisti e i conservatori, facendo il bello e il cattivo del tempo ai margini del porporato. Chi non crede al Conclave baciato dallo Spirito Santo sa che la differenza la fanno i numeri: Ratzinger, sostenuto dai conservatori, è stato sul trono papale meno del previsto. Chi sarà il successore?

“Ed oggi, a causa di una recente intervista, tutti dicono che il Papa è diventato comunista”, cantava Giorgio Gaber nella graffiante “La Chiesa si rinnova”. Benedetto XVI “dimissionario” ha raccolto nel suo gesto, pregnante di umiltà, un consenso generale che in questo momento non hanno neanche i nostri vecchi e volubili politici, che si ostinano a voler restare. Papa Ratzinger se n’è andato in punta di piedi, senza lo scettro e il mantello da principe. Se il fulmine su San Pietro fosse davvero preso in prestito dalla sequenza famosa di “Ritorno al Futuro”, potrebbero venir meno i sospetti di complotti, di raggiri diabolici, dell’ingratitudine della curia. Il gesto del successore di Karol Wojtyla, incauto per i conservatori, ha forse già spianato la strada per un nuovo Concilio e spetterà al Conclave non renderlo inutile.

  Papa Ratzinger “superstar” tra cinema, musica e fumetti – Tiscali Notizie

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Quando una sposa cerca una stella…

Su una spiaggia del Sud, un uomo era accovacciato in riva al mare. Aveva lo sguardo puntato all’orizzonte. Accanto a lui c’era una bimba dagli occhi chiari che faceva castelli di sabbia. Dal mare uscì una voce: “Cosa vorresti per la tua piccola quando crescerà?”.
L’uomo, alzando gli occhi, rispose: “Vorrei fosse felice per tutta la vita”. E la voce replicò: ” Scegli una stella. Veglierà sempre su di lei, quella sarà il tuo dono”. L’uomo sbirciò in cielo e ne scelse una che cascava a pelo sulla linea dell’orizzonte.

Molti anni dopo lo sposo prese per mano la sua sposa* e la portò in riva al mare, su una spiaggia del Sud. La sposa allargò le narici e respirò l’odore del mare. Accanto a lei c’era un piccolo castello di sabbia, ma non lo riconobbe. Incisa nella sabbia c’era una data e lei di chiese come avesse fatto quel castello a restare intatto per così tanto tempo. Dal mare udì una voce: “Questo castello di sabbia è il tuo, dentro vi erano custoditi i tuoi sogni e la luce di quella stella lo ha protetto”.
La luce della stella lasciò due orme di mani sulla sabbia. Erano le stesse mani che da bambina la facevano volare; le stesse mani che l’avevano allevata; le stesse mani che le avevano indicato la via del cuore. Fu allora che la sposa si ricordò e due lacrime scivolarono sulla sabbia. Germogliarono tanti fiori in riva al mare.

Da quel giorno si dice che ogni volta una sposa è sulla spiaggia a cercare una stella, è quella che le ha dedicato il suo papà per restarle accanto nei giorni speciali che la renderanno moglie e mamma. E da quel giorno le fiabe non cominciano più con “c’era una volta”, ma si chiudono come se fossero una smisurata preghiera: Amen.

* Dedicato a Paolo e Adele, sposi il 22 settembre 2012.

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Addio a Carlo Maria Martini, il Gesuita che avremmo voluto Papa

Il polacco Karol Wojtyla si era dimostrato un bravo talent scout e ci vide lungo nello sguardo algido di quel Gesuita, che sarebbe stato l’unico e legittimo successore. Carlo Maria Martini, l’Arcivescovo emerito di Milano, si è spento qualche ora fa a Gallarate, a pochi chilometri da Varese, dove da diversi anni combatteva contro il Parkinson. I non credenti hanno apprezzato il temperamento sobrio del filosofo, la sua apertura al dialogo verso le altre religioni; i fedeli invece l’integrità spirituale del padre Gesuita.

Carlo Maria Martini è stato capace di allenare una comunità, all’ombra del pontificato di Giovanni Paolo II, proteggendola dal conservatorismo che ha affossato la Chiesa, remando per mandare alla deriva il passato, guardando agli errori, simili ai peggiori scheletri nell’armadio, con le lenti del riformista. Battendo il pugno per affermare che “Dio non è cattolico”, il padre spirituale che era in lui ha ceduto il passo all’insuperabile biblista. Carlo Maria Martini aveva tenuto vigile lo sguardo sul futuro e sui cambi di stagione, fu sentinella mentre Milano usciva a fatica dal tunnel degli Anni di Piombo per finire affogata nell’ingordigia della movida degli yuppies e del rampantismo del tempo avvenire. Non lo aveva fatto però con lo scettro del sovrano despota, ma con l’intelligenza e la spiritualità che sanno fare di un Gesuita un principe e un essere davvero speciale.

Carlo Maria Martini è stato il Papa mancato, il Pontefice che alcuni di noi avrebbero voluto incrociare. E’ inutile girarci intorno, se non fosse stato per la feroce malattia, sarebbe arrivato a Roma con l’appoggio sacrosanto del Padreterno. E la manciata dei voti che ha fatto sogghignare i conservatori con l’elezione di Ratzinger, nella virata più a destra rispetto alle previsioni ottimiste, avrebbe consegnato la Chiesa nelle uniche mani che potevano tracciare la linea di continuità con il pontificato di Giovanni Paolo II.

Nel dicembre del 1998, in un gelido pomeriggio, lasciai in un angolo del Duomo di Milano un biglietto per lui. Quando tornai a Napoli, dopo una notte di treno, trovai una lettera che proveniva da Milano. C’era scritto pressappoco così: “Abbiamo trovato il suo biglietto nella Cattedrale. Il Cardinal Martini ha apprezzato le sue belle parole. Lui è vicino ai giovani. Rosario, non perda mai la speranza.” La conservai nella tasca del jeans e una settimana dopo risalii sullo stesso treno Espresso per tornare a cercare fortuna in una città che non era mia. Carlo Maria Martini, il Gesuita dalle ampie vedute, ha chiuso gli occhi a pochi metri da dove abito oggi. Di lui mi resta qualche goccia dell’ inchiostro che incoraggiò un ragazzotto del Sud a difendere valori e sogni dai paladini del cinismo.

  Habemus Papam vicino a Martini: Il gesuita moderato argentino…

Sul finto posto di lavoro: L’ultima favola di Pomigliano D’Arco

1maggio

Rosario PipoloI compagni di classe di mia figlia sono andati a visitare il posto di lavoro dei genitori. E’ una bella iniziativa, quando io ero piccolo non si usava. La prima volta che misi piede nello sgabuzzino dove lavorava mio padre, lo feci clandestinamente. Appena lo vidi appeso ad un palo della luce, andavo dicendo a tutti che fosse un eroe, faceva il trapezista. Per quanto riguarda mamma, che errore imperdonabile avevo commesso. Mi lamentavo di non aver mai visto il suo posto di lavoro. E pensare che io ci stavo tutto il giorno lì, perché mamma era una casalinga, lavorava h24 e nessuno le riconosceva la reperibilità o gli straordinari.

Insomma, questa volta a mia figlia non ho potuto dire di no. Gli stessi insegnanti mi hanno rimproverato, perché era un’azione educativa. Capisco, chi ha perso il lavoro come me, cosa si inventa? Ho 39 anni. Nessuno lo sa che sono disoccupato da due anni, neanche mia moglie da cui mi sono separato di recente. Lei la mattina si alza comodamente per andare in ufficio e io non volevo che mia figlia pensasse a suo padre come un poco di buono!
Ho tirato fuori tuta dall’armadio e ho detto alla bambina: “Oggi niente scuola, papà ti porta a vedere il suo posto di lavoro”. Non stava nella pelle. Arrivati dinanzi alla fabbrica, sono riuscito ad entrare con il vecchio badge. Scampato il pericolo della sicurezza, salutavo a destra e sinistra, mentre mia figlia era così orgogliosa che conoscessi tutti. In realtà non conoscevo nessuno, li salutavo a caso: da quando lo stabilimento era stato smembrato, molti colleghi erano stati licenziati o trasferiti altrove.

Arrivati sulla catena di montaggio, la piccola ha detto: “Papà, non sapevo che queste belle auto le facessi tu. Guarda quella macchina laggiù, assomiglia a Saetta McQueen di Cars!”. Tra le auto nuove di zecca, le raccontavo che da piccolo venivo tutte le sante domeniche sul piazzale della fabbrica. Saltavo la messa e il catechismo, per far correre su e giù la mia automobilina telecomandata. Da grande volevo fare il meccanico e lavorare in quello stabilimento. Tra un racconto e un altro, siamo finiti nella mensa.
Sono riuscito a rimediare un piccolo sacchetto con panini, frutta e una cucchiaiata di Nutella, spiegandole che avremmo fatto uno spuntino proprio come noi al ritorno dal turno di notte.
Quando abbiamo lasciato lo stabilimento, mi ha regalato un disegno. C’ero io e una buffa auto rossa con una scritta: “Sei forte, Papà. Se proprio il mio eroe”. Mi ha chiesto di portarlo con me tutti giorni a lavoro.

Domani farò finta di tornare in quella fabbrica, come una volta. Il suo disegno mi aiuterà a non sentirmi “un buono a nulla”. In quello stabilimento ci sono ancora i miei sogni. Ne avevo lasciato uno appeso all’insegna “Benvenuti a Pomigliano D’Arco”:  quello che mia figlia fosse fiera di me.

L’uovo di Pasqua: “Sono piccola. Come farò adesso senza papà mio?”

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà guardarti diritta nei tuoi occhi azzurri e far finta di niente. È invece è successo prima che i tuoi sei anni bussassero alla porta dell’età adulta.
Solo gli sciocchi dicono che era già tutto previsto. Non era previsto un bel niente ed è legittimo il tuo sussurro di disperazione: “Io non sono grande, sono piccola. Come farò adesso senza papà mio?”

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà non versare lacrime di rabbia perchè questa volta la risposta bella e fatta non ce l’ha nessuno, né gli strizzacervelli di turno, né i predicatori o i preti. Si diradano le mistificazioni di chi vive nella gabbia di un luogo comune. La morte è roba seria.

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà far finta di esser forte per te, perchè da grandi dicono ch e la rabbia, mescolata al dolore, dovrebbe evaporare. È una bugia. Mi prende ogni volta che finisce tra le mani un pezzetto di carta, su cui ti sei esercitata a scrivere, evitando le solite zampe di gallina da prima elementare, “Sei forte, papà”.
Solo gli sciocchi dicono che era già tutto previsto. Era prevedibile il ritorno degli ipocriti, i cacasotto che un dì se la sono data a gambe. Adesso se la fanno addosso dai rimorsi e vorrebbero portarti a fare una scampagnata al parco. Le loro coscienze valgono quanto le pozzanghere, in cui ogni volta caschi tuffandoti dall’altalena.

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà far finta che il cioccolato dell’uovo di Pasqua sia dolce e farti le fusa mentre ti insozzi il musetto. Mi perderò nei tuoi occhietti azzurri e mi ricorderò di quando all’età tua mi rassicurarono: La luce sarebbe tornata dalle ferite dell’ultimo “Cristo finito in croce”.

Per questa Pasqua, nonostante sia un deplorevole mendicante di parole, vorrei pregare a modo mio, affinché l’ultimo Cristo finito in croce lasci tornare il tuo papà per un istante soltanto. Quello in cui, da grande, vestita di bianco, ti avvierai all’altare come una bellissima principessa scalza e raggiungerei l’uomo della tua vita.
Ti accompagnerà chi ha sostenuto, fino all’ultimo respiro, la convinzione che solo l’amore tra un uomo e una donna diano significato alla nostra esistenza. Lo riconoscerai perchè sarà uguale all’ultima volta che ti ha fatto toccare il cielo con un dito: tuo padre.

Sei proprio un Taricone! Chi glielo dice a Sophie che papà non c’è più?

 

70 volte, papà!

70 volte, papà è il numero delle volte in cui mi sono chiesto cosa ci facesse mio padre con quella tuta addosso: per me non era l’indumento di uno caposquadra dell’Enel, quella degli anni in cui precedettero la spietata e feroce privatizzazione. Era piuttosto la divisa di un supereroe, che si arrampicava sui pali della luce come l’Uomo Ragno e toglieva migliaia e migliaia di persone dal buio come Superman.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui mio padre ha circoscritto i giri del suo tempo, della sua gioventù, in un sogno sociale per mettere in disparte l’individualismo che ci incatena e spingersi sempre nell’ottica della comunità, della terra che lo ha generato ed allevato: il suo Sud.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui ha tentato invano di raddrizzarmi, di indicarmi una strada. Eppure io raggiravo sempre l’ostacolo e mi inventavo un nuovo percorso, perché nessuno potesse mai dire “tale padre, tale figlio”.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui da figlio ha attraversato i sogni pudici degli anni ’50, da giovane le rivoluzioni mitologiche degli anni ’60, da marito gli spari silenziosi degli anni ’70, da papà i miti fasulli degli anni ’80, da lavoratore le scalate tecnologiche degli anni ’90, da pensionato le minacce global del nuovo millennio.

70 volte, papà è il numero delle pedalate in bicicletta che lo staccavano ogni mattina all’alba dalla madre Rosa, che restava lì sull’uscio della porta di casa finché non diventasse un puntino. Poi venne il giorno crudele dell’ultima pedalata e l’indomani la nonna sull’uscio di casa non c’era più.

70 volte, papà è il numero dei libri che non ha mai letto, dei film che non ha mai visto, delle canzoni che non ha mai ascoltato. L’ho fatto io al posto suo, ma da nessuna parte ho trovato la ricetta di come si riesca ad essere un buon figlio, senza finire nella trappola di riscattare ciò che i nostri genitori non sono stati.

70 volte, papà è il numero delle volte che non ho mai contato per paura di imbattermi in chi un padre non lo ha mai avuto o lo ha perso prima di potergli scrivere in bella copia un biglietto d’auguri.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui questo tempo infame vuole farci assomigliare tutti, rendendoci tutti manager dell’omologazione, schiavizzati da affannose rincorse che rischierebbero di trasformare il 20 gennaio in un giorno qualunque. No, non sarà così, nonostante gli strizzacervelli ci indichino la strada per ottimizzare i tempi, sopravvivere per obiettivi, perdendo di vista ciò che siamo e saremo ogni volta che scriveremo da qualche parte “70 volte, papà”.

70 volte, papà con una bomboletta spray sulla parete della nostra stanza più segreta, per disegnare un murales dai colori tenui come le 70 candeline che spegnerà mio padre oggi, nel giorno del suo settantesimo compleanno.

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