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Il Belpaese titolato: Prefetto, dottò, ingegnere?

Una volta a prendersi a zuffa erano il parroco e il sindaco. Anche senza stare per forza dalla parte di uno dei due, il Peppone e Don Camillo di Guareschi facevano straripare la simpatia. La settimana scorsa si sono presi a zuffa un prefetto e un prete di frontiera perché “il don” si era permesso di chiamare una “prefetta” – pardon, “un prefetto donna” – con il titolo di “signora”.
I social network sono stati al gioco, hanno preso le difese del parroco bastonato e così abbiamo avuto ancora materia di discussione “a fil di rete”. E’ arrivato l’happy end: pace fatta tra il prefetto di Napoli Andrea De Martino e il parroco di Caivano don Maurizio Particiello

Forse ha ragione Roberto Saviano a scrivere “i cafoni cambiano, i potenti no”. E quando si tratta di buone maniere, mi capita di sentire le vicende strampalate: dal funzionario pubblico, incazzato nero se lo chiamano “signore” al posto di “dottore”, al militare zeppo di medaglie, pronto a farti finire sotto processo se scambi un colonnello per un capitano.

Al di là di quanto valga un titolo in momenti istituzionali, è chiaro che il Belpaese titolato si senta più a suo agio. Fino a questo momento il governo Monti non vi ha applicato nessuna tassa. E sono convinto che se li tassassero, “i titoli blasonati”, anche nel mio Sud dove su citofoni privati e campanelli delle porte abbondano i “dott.”, “ing.”, “prof.”, “cav.”, sparirebbero da un giorno all’altro. Persino quelli fuori posto incisi sulle lapidi del camposanto.

Torniamo al Peppone e Don Camillo di Guareschi. Ci hanno dato una gran bella lezione di umilità e saggezza: riconoscere dalla personalità e dal rispetto reciproco lo spessore dei propri ruoli  e non dal bigliettino da visita.

  I cafoni cambiano, i potenti no!

Don Riccardo Seppia e i nuovi mostri: meglio Bocca di Rosa!

Non occorre essere anticlericali fino alle unghie dei piedi per strillare col megafono che don Riccardo Seppia rappresenta il disonore del sacerdozio. Il parroco di Sestri Ponente è accusato di abusi sessuali sui minori, ma peggio ancora si trema dinanzi alla notizia shock: il “don mostro” è anche sieropositivo e potrebbe aver contagiato chissà quali delle sua vittime.
E come per ogni categoria, mettendo da parte il credo religioso, sarebbe un grave errore mortificare il valore di quella ciurma di sacerdoti sparsi per il mondo a donarsi per il bene dell’umanità. Mi riferisco a quelli di frontiera nella aree disagiate delle nostre metropoli; a coloro che sono finiti in Africa devolvendo la vita ad intere comunità; a coloro che sono partiti nei territori di guerra e non sono più tornati. Fa meno cronaca, ma dovremmo tornare a parlarne, a trovare lo spazio adeguato per raccontare storie che non sono poi così banali e controbilanciano quella minoranza mostruosa che ha trasformato “la tonaca” nell’arma diabolica della miseria umana.
Chi fa abuso dei minori dovrebbe essere linciato, ma soprattutto dovrebbe essere subito intercettato da chi spesso fa finta di niente, chiude un occhio, per il bene apparente della comunità. Chi è complice di Don Seppia o chi lo ha protetto dall’alto della gerarchia merita la sua stessa sorte. A chi spetta il giudizio, a seguito della rabbia e del dolore, al tribunale o anche alla stessa comunità?
Più di quaranta anni fa un genovese cantò con la sua chitarra “Bocca di Rosa”, scandalizzando il clero benpensante che scagliava pietre contro le prostitute, ma forse già chinava il capo di fronte ai nuovi mostri. Vorrei tornare tra i vicoli di Genova a cercare quella chitarra. C’è ancora un cantastorie coraggioso che, senza aver letto i vangeli apocrifi, è pronto a difendere l’ultima “puttana” pur di smascherare l’ennesimo “sepolcro imbiancato”?