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Il 19 marzo e l’onomastico che ti restituisce Peppe Tanzillo

In Copertina: Foto di scena di Antonio La Peruta

Dove sono nato e cresciuto l’onomastico non era da meno del compleanno. I nomi ci rendono unici e irripetibili, ci legano a Dio per sempre e noi gente del Sud lo teniamo sempre a mente. Il 19 marzo, San Giuseppe, mi restituisce intatto il ricordo di Peppe Tanzillo, un amico della periferia di Napoli.

PIACERE, PEPPE

Di quella lunga tavolata di Pasquetta nella primavera del 1988, che guardava in lontananza gli stabilimenti della Montefibre di Acerra e dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco, ero l’unico adolescente in mezzo ai più “grandi”. Giovanni, Tiziana, Umberto e Vittoria mi sedevano accanto, mi svestirono di quell’aria ingessata e mi fecero sentire a mio agio per tutto il pomeriggio. Tiziana, che sapeva della mia passione sfrenata per la lingua inglese, si alzò di botto, mi condusse dall’altra parte della tavolata e mi presentò un trentenne dalla faccia simpatica, allora insegnante di lingua e letteratura inglese in una scuola paritaria.
“Piacere, Peppe”, esordì lui e cominciò a declamare filastrocche in inglese come se fosse un attore girovago del teatro elisabettiano venuto da un tempo lontano. Io gli feci il verso e mi piantai a stonare il paradigma dei verbi irregolari come se fosse una canzone dei Beatles. Sulla fragorosa risata del “professore dal sorriso sornione” riconobbi il fratello maggiore che non avevo mai avuto.

SULLA STRADA DI PERIFERIA

Nonostante la distanza anagrafica e le diversità generazionali Giuseppe Tanzillo, in arte Peppe, è stato una delle persone più vere conosciute sulla strada di periferia, in un tempo extraterrestre in cui i legami si sedimentavano “miezz’a via” senza i filtri amorfi della globalizzazione digitale.
Peppe che correva avanti e indietro con le scartoffie scolastiche nella borsa in pelle; Peppe che mi suggerì il dizionario inglese delle frasi idiomatiche che avrei comprato a Londra anni dopo; Peppe che mi presentò la fidanzata – la mia amica Tania delle messe domenicali – e poi moglie per sempre; Peppe che prese dalla culla un fagottino, mi indicò il figlio Vincenzo e io “Vicienzo come Vincenzo Scarpetta?”; Peppe che mi prestò una moneta da 200 lire per telefonare da una cabina pubblica mamma infuriata che mi dava per disperso, mentre noi eravamo su una panchina a tradurre i sonetti di Shakespeare.

GIOSTRA TRA VITA E PERSONAGGI

Peppe, nella vita Giuseppe Tanzillo, ha custodito, dietro la giostra dei suoi personaggi e del suo trasformismo brillante in palcoscenico, l’autenticità della persona lontana dalla superbia e libera dai compromessi a cui è condannato chi deve apparire per non essere sé stesso.
In questa foto di copertina del 1996 – una sorpresa di Domenico Cantore autore del cortometraggio Blù in concorso al Festival del Cinema di Salerno e alla Rassegna Visioni Italiane della Cineteca di Bologna – mi ritrovo ventenne insieme a Peppe quarantenne. Sullo sfondo della periferia di Napoli da protagonista vestiva i panni, lungo lo scivolo di sogni e solitudini, di un fattorino di una piccola tv locale che consegnava i prodotti delle televendite.

MI SENTI, SONO IO…

Questa vecchia foto è incredibile, ci presenta con quelle “inguardabili canottiere” che restano l’anti-sex symbol di noi ragazzi del Sud di ieri, strafottenti del mito di cartone del latin lover.
Oggi, 19 marzo, guardo lo scatto con profonda commozione e mi sembra che il mio personaggio urli a Giuseppe Tanzillo “Mi senti, sono io, mi senti…” nell’assordante rumore di un’epoca frenetica che tende a spazzare via memoria e ricordi, offendendo il bene profondo.
Quando ho capito quale muro fosse a separarmi da Peppe Tanzillo, vi ho ritrovato scolpite queste parole:

Qui ove il fremito delle umani passioni non giunge ed ove l’insana malvagità degli uomini s’arresta, le lacrime e le preghiere dei defunti confortano e sollevano lo spirito.

Un giorno ci ritroveremo, sulla strada.

Gli 80 anni di don Peppino Gambardella, prete ribelle e filosofo delle periferie

Un compleanno speciale racconta in 80 candeline la luce diffusa da un prete di frontiera per la sua comunità. Giuseppe Gambardella, noto a tutti nella sua Pomigliano D’Arco come don Peppino, nel giorno del suo ottantesimo compleanno viene riconosciuto patrimonio della comunità.
Originario di Visciano, nel fazzoletto di terra del nolano di Giordano Bruno, don Peppino ha messo il suo sacerdozio al servizio della periferia di Napoli, diventando il simbolo delle lotte a fianco di operai, emerginati, senzatetto e dei tanti bambini e ragazzi abbandonati a sé stessi a cui aprì le porte della sua Casa Famiglia a loro dedicata.

Seminario di Nola (Na), 1981 (Archivio Privato)

DON CAMILLO ALLA PERIFERIA DI NAPOLI

I miei studi e la sua formazione in filosofia si incrociarono di sbieco e saltuariamente negli anni del liceo ma poi lo persi di vista per ritrovarlo miracolosamente anni dopo. Dico “miracolosamente” perché la mia generazione ha visto frantumarsi i suoi punti di riferimento nel tempo della sopraffazione della contemporaneità tra individualismo, competizione, rincorsa sfrenata verso il futuro.

Terme di Castellammare di Stabia (Na), 1970 (Archivio Privato)

Giuseppe Gambardella è stato l’autentico don Camillo della periferia di Napoli, in simbiosi con il personaggio delle pagine di Guareschi e con le sequenze del piccolo gioiello cinematografico di Duvivier: testardo, impavido, sfrontato, intelligente, umano come il parroco di Brescello nella sfida con “il don Peppone di turno”, che nella sua arroganza da primo cittadino si illudeva di tenere in pugno tutta la comunità accecato dalle schede elettorali e non dalla luce di Dio.

Loppiano, Città dei Focolari (1971) (Archivio Privato)

SACERDOTI PRONTI A DARE LA VITA PER TUTTI

Gambardella ha attraversato il Novecento tenendo a mente le parole di Chiara Lubich, fondatrice del movimento dei Focolari a cui aveva aderito fin dagli anni ’60: “Una Chiesa arricchita di sacerdoti-Cristo, sacerdoti-vittime per l’umanità; autentici Cristo, pronti a dare la vita per tutti.”
Il parroco di San Felice in Pincis non si è lasciato illudere dal boom industriale che contagiò il suo territorio alla fine degli anni ’70, tenendo un occhio di riguardo per gli ultimi. Il digiuno a fianco degli operai dello stabilimento dell’ex FIAT di Pomigliano D’Arco negli anni bui della globalizzazione mi ha spalancato un portone di riflessioni, ispirando il sacerdote del mio romanzo L’ultima neve alla masseria. Durante un reading alla Malzfabrik di Berlino ho spiegato che il mio Francesco Giuseppe Gambardino omaggiava un parroco italiano della provincia di Napoli:

Il gesto di Francesco Giuseppe Gambardino fece ripartire parte della produzione, seppure a singhiozzo. Da quel giorno al mio paese si dice che molti operai, al mattino, abbiamo preso l’abitudine di farsi il segno della croce prima di mettere mano sulla catena di montaggio (…)

Potenza, 1970 (Archivio Privato)

IN QUESTA GRANDE IMMENSITA’…

Don Peppino Gambardella è stato un punto di riferimento per tante generazioni, compresi i laici come il sottoscritto. Ciascuno ha intravisto nel cuore del “parroco operaio” di San Felice in Pincis un interlocutore sempre a passo con i tempi tra spiritualità e dialogo, incluso l’uso intelligente dei social media per tenere i contatti con chi vive lontano. Mi tornano in mente le parole del miscredente, amico dei tre pastorelli di Fatima, che rilasciò ai miei colleghi cronisti del tempo, dopo il prodigio in Portogallo, questa dichiarazione: “Solo gli sciocchi continuano a sostenere che Dio non esista”.
In questo 12 ottobre passeggio per una Milano soleggiata e mi sembra di sentire le voci della mamma e della cara sorella di Giuseppe Gambardella, scomparse in giovane età in un incidente stradale, che da lassù sussurrano: “Peppino, Peppino, siamo fiere di te e ti siamo sempre accanto, anche in questo giorno speciale”.

Come biglietto d’auguri ho scelto questa strofa di una canzone a me particolarmente cara, L’immensità di Don Backy, che condensa molto dell’esistenza di ciascuno, anche del don Peppino che tutti abbiamo conosciuto almeno una volta nella vita:

Sì, io lo so

Tutta la vita sempre solo non sarò

E un giorno io saprò

D’essere un piccolo pensiero

Nella più grande immensità

Del suo cielo.

Diario di Viaggio: Il riscatto della periferia di Napoli sul palco del Teatro Rostocco

Le prove al teatro Rostocco

Rosario PipoloQuando meno di una ventina di anni fa a Parigi mi rintanai in un teatrino off da una trentina di posti, mi apparvero spazi enormi i miei nascondigli napoletani come il Teatro Nuovo o Galleria Toledo, dove ero stato svezzato dalla nuova drammaturgia di Ruccello, Moscato, Silvestri. Tornare alla periferia di Napoli e mettere piede in un rifugio teatrale simile a quello parigino, mi ha fatto fare una riflessione: c’è stata finalmente una giovanissima generazione di periferia che ha schiaffeggiato il dilettantismo e il divismo che spesso si riduce a spavalderia sfacciata nei piccoli luoghi di provincia. Un gruppo di appassionati ha messo in piedi una bottega teatrale. Il Teatro Rostocco di Acerra, in provincia di Napoli, è l’unico luogo che oggi lega, attraverso un sotterraneo mistico, la provincia alla metropoli. Ci sono finito perché mi hanno organizzato in anteprima un reading di alcuni passi del mio romanzo. Mi ha fatto effetto ascoltare la voce dei miei personaggi attraverso l’anima di giovani attori, mentre il pubblico era assorto nella sua intimità.

Al di là degli spettacoli della compagnia, che rappresentano una specie di laboratorio per far vivere il teatro anche a chi non lo fa come professione, l’atto coraggioso è la rassegna proposta dal Rostocco: un cartellone che spilucca nelle micro proposte interessanti del panorama teatrale off italiano, che spesso non hanno la visibilità meritata. Ed è così che la “bottega” di cinquanta posti diventa fortino privilegiato di incontri drammaturgici. Gli stessi che sulla scena si trasformano nelle schegge impazzite di cui abbiamo bisogno per tornare a vivere: usciamo dalla prigionia virtuale dei social network e torniamo a teatro, una volta e per tutte!

Nei luoghi dei miei viaggi in Italia, cerco sempre un nesso con i miei vagabondaggi in Europa. E sono contento di essere finito lì perché è una sorta di spazio magico che ti fa sentire un navigante, senza appartenere ai soliti cliché del territorio. Nel paio d’ore trascorse al Rostocco di Acerra sono tornato a convincermi che gli uomini e le donne di buona volontà, giovani e meno giovani, possono fare nel loro piccolo ciò che spesso le istituzioni non sono all’altezza di compiere: far uscire le radici della nostra memoria collettiva da musei e santuari locali per esportarle attraverso le gambe della memoria. In questo piccolo teatro di periferia abbiamo una grande opportunità: riappropriarci di una coscienza collettiva e della nostra civiltà. E me lo ricordò Giorgio Gaber, scomparso dieci anni fa in questi giorni, nell’ultimo nostro incontro: “Libertà è partecipazione”.

Teatro Rostocco

Diario di viaggio: Oltre la strada della mia infanzia

Questa è l’immagine della strada in cui ho trascorso parte dell’infanzia, a ridosso della periferia di Napoli. La prima volta che l’ho percorsa da solo, avevo promesso ai miei che non sarei andato oltre. Sul marciapiede del palazzo accanto al mio incontrai un gruppo di ragazzini. Uno di loro mi diede una pistola giocattolo e mi disse: “Unisciti a noi, nessuno ti farà niente. Siamo noi i più forti. Chi supera questa via è solo un debole”. Gettai a terra l’arma giocottolo e feci il contrario di ciò che mi avevano indicato.

Sulla strada principale c’era un altro mondo: uomini, donne e bambini che disegnavano con onestà e buona volontà i contorni della quotidianità. E forse furono proprio loro, assieme alla protezione dei miei genitori, a confondermi per non farmi capire il segreto di una porta bucherellata sul ciglio della strada principale: erano i colpi di pistola lasciati dai killer infami, nel nuovo bradisismo camorristico che tentava di abbattare lo strapotere dei vecchi capi.

Sono tornato nella strada in cui ho trascorso parte dell’infanzia, una domenica mattina dopo una lunga convalescenza. L’ho ripercorsa di nuovo. I ricordi sono finiti sotto la polvere; le mura screpolate delle facciate dei palazzi indicavano spudoratamente che il tempo mi era sfuggito dalle mani; le lenzuola stese nascondevano le storie iscenate un tempo sui balconi.
Non c’erano più bambini guerrieri o pistole giocattolo. Sono stati spazzati via. Era rimasta intatta soltanto l’indicazione del “senso unico”, l’insegna che tanti anni dopo mi ha fatto ritrovare il significato della domenica: vale la pena condividerla con una donna speciale, la stessa che ha rinununciato alle spavalderie della sua gioventù per dividere il suo tempo con ragazzi e ragazze che non hanno più una famiglia su cui contare.

La notte è fatta per i vampiri e la luna mente, perchè non vive di luce propria. Non passavo in quella strada dal 1986, lo stesso anno in cui era nata lei. Ci sono tornato di giorno e la luce del sole, folgorante cone quella della sua anima, mi ha fatto tornare sui passi di ciò che sono.

Acerra, l’hip hop di Alea denuncia i mali della periferia

Una volta la città di Acerra, in provincia di Napoli, era conosciuta per aver dato i natali a Pulcinella. L’emergenza rifiuti partenopea ha destato l’attenzione dei media e la questione dell’Inceneritore e della diossina la hanno riportata sulle prime pagine dei giornali. C’è chi se ne strafotte della flemma degli amministratori e sceglie la musica per denuciare le emergenze locali: si chiama Alea (all’anagrafe Francesca Russo), la rapper di periferia impavida che si barcamena nell’hip hop per raccontare la realtà che la circonda attraverso la musica. Chi conosce il territorio come me – vi ho vissuto ventinove anni della mia vita – sa bene il significato dei brani Munnezza o Ghetto: “Si vaje dint’ ‘o Congo me pare ‘e stà ‘o Bronx: criature ‘mpustate ca màrchene ‘a boss, na guardata storta e te danno pure ncuollo, dice n’ata parola e te ròmpene l’osse”. Alea non risparmia nessuno e colpisce duro: “P’ ‘a Montefibbre e pò ‘a fabbrica de l’osse: ce manca sulo l’inceneritore e stamm’ apposto! Stammo ‘o Sud, troppi ccose storte: ‘o problemo è ca ce mànchene ‘e solde: guagliune disperate se ne fujene ‘o nord, ma manco stanno bbuono e se ne tornene”. La grinta rabbiosa di Alea ci fa tirare un sospiro di sollievo: la musica può ancora scuotere il nostro senso civico, ripartendo dalla periferia?