Il 19 marzo e l’onomastico che ti restituisce Peppe Tanzillo
Dove sono nato e cresciuto l’onomastico non era da meno del compleanno. I nomi ci rendono unici e irripetibili, ci legano a Dio per sempre e noi gente del Sud lo teniamo sempre a mente. Il 19 marzo, San Giuseppe, mi restituisce intatto il ricordo di Peppe Tanzillo, un amico della periferia di Napoli.
PIACERE, PEPPE
Di quella lunga tavolata di Pasquetta nella primavera del 1988, che guardava in lontananza gli stabilimenti della Montefibre di Acerra e dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco, ero l’unico adolescente in mezzo ai più “grandi”. Giovanni, Tiziana, Umberto e Vittoria mi sedevano accanto, mi svestirono di quell’aria ingessata e mi fecero sentire a mio agio per tutto il pomeriggio. Tiziana, che sapeva della mia passione sfrenata per la lingua inglese, si alzò di botto, mi condusse dall’altra parte della tavolata e mi presentò un trentenne dalla faccia simpatica, allora insegnante di lingua e letteratura inglese in una scuola paritaria.
“Piacere, Peppe”, esordì lui e cominciò a declamare filastrocche in inglese come se fosse un attore girovago del teatro elisabettiano venuto da un tempo lontano. Io gli feci il verso e mi piantai a stonare il paradigma dei verbi irregolari come se fosse una canzone dei Beatles. Sulla fragorosa risata del “professore dal sorriso sornione” riconobbi il fratello maggiore che non avevo mai avuto.
SULLA STRADA DI PERIFERIA
Nonostante la distanza anagrafica e le diversità generazionali Giuseppe Tanzillo, in arte Peppe, è stato una delle persone più vere conosciute sulla strada di periferia, in un tempo extraterrestre in cui i legami si sedimentavano “miezz’a via” senza i filtri amorfi della globalizzazione digitale.
Peppe che correva avanti e indietro con le scartoffie scolastiche nella borsa in pelle; Peppe che mi suggerì il dizionario inglese delle frasi idiomatiche che avrei comprato a Londra anni dopo; Peppe che mi presentò la fidanzata – la mia amica Tania delle messe domenicali – e poi moglie per sempre; Peppe che prese dalla culla un fagottino, mi indicò il figlio Vincenzo e io “Vicienzo come Vincenzo Scarpetta?”; Peppe che mi prestò una moneta da 200 lire per telefonare da una cabina pubblica mamma infuriata che mi dava per disperso, mentre noi eravamo su una panchina a tradurre i sonetti di Shakespeare.
GIOSTRA TRA VITA E PERSONAGGI
Peppe, nella vita Giuseppe Tanzillo, ha custodito, dietro la giostra dei suoi personaggi e del suo trasformismo brillante in palcoscenico, l’autenticità della persona lontana dalla superbia e libera dai compromessi a cui è condannato chi deve apparire per non essere sé stesso.
In questa foto di copertina del 1996 – una sorpresa di Domenico Cantore autore del cortometraggio Blù in concorso al Festival del Cinema di Salerno e alla Rassegna Visioni Italiane della Cineteca di Bologna – mi ritrovo ventenne insieme a Peppe quarantenne. Sullo sfondo della periferia di Napoli da protagonista vestiva i panni, lungo lo scivolo di sogni e solitudini, di un fattorino di una piccola tv locale che consegnava i prodotti delle televendite.
MI SENTI, SONO IO…
Questa vecchia foto è incredibile, ci presenta con quelle “inguardabili canottiere” che restano l’anti-sex symbol di noi ragazzi del Sud di ieri, strafottenti del mito di cartone del latin lover.
Oggi, 19 marzo, guardo lo scatto con profonda commozione e mi sembra che il mio personaggio urli a Giuseppe Tanzillo “Mi senti, sono io, mi senti…” nell’assordante rumore di un’epoca frenetica che tende a spazzare via memoria e ricordi, offendendo il bene profondo.
Quando ho capito quale muro fosse a separarmi da Peppe Tanzillo, vi ho ritrovato scolpite queste parole:
Qui ove il fremito delle umani passioni non giunge ed ove l’insana malvagità degli uomini s’arresta, le lacrime e le preghiere dei defunti confortano e sollevano lo spirito.
Un giorno ci ritroveremo, sulla strada.